Nell’anno conclusivo della Prima guerra mondiale, una virulenta forma di influenza si diffuse in tutto il pianeta diventando uno degli eventi più letali della storia.
29 maggio 1919, Massachusetts. Come in tutti i paesi, anche qui, in seguito al riempirsi degli ospedali, si fecero costruire ospedali da campo per sopperire alle esigenze dei malati
Nell’estate del 1997 lo scienziato Johan Hultin si recò a Brevig Mission, una cittadina dell’Arkansas con poche centinaia di abitanti. Hultin stava cercando dei corpi sepolti, e il terreno ghiacciato di quella regione era il luogo perfetto dove trovarli. Scavando nel permafrost, portò alla luce una donna inuit morta quasi 80 anni prima, in eccellente stato di conservazione. Con il permesso delle autorità locali, prima di rinterrare la donna, lo scienziato prese un campione da uno dei suoi polmoni. Intendeva usarlo per decodificare la sequenza genetica del virus che l’aveva uccisa, e con lei il 90 per cento della popolazione della cittadina.
Brevig Mission fu solo una delle tante località colpite da una tragedia di proporzioni globali, una delle peggiori che siano mai capitate all’umanità: la pandemia influenzali del 1918-1919. Conosciuta – impropriamente – con il nome di influenza spagnola o semplicemente Spagnola, questa epidemia si diffuse con velocità sorprendente in tutto il mondo, mettendo in ginocchio pure l’India e arrivando fino all’Australia e alle remote isole del Pacifico. In soli 18 mesi l’influenza contagiò almeno un terzo della popolazione mondiale. Le stime sul numero dei morti variano enormemente, da 20 a 50 o addirittura 100 milioni di vittime. Se la cifra più alta fosse attendibile, la pandemia del 1918 avrebbe ucciso più persone di quante ne abbiano uccise, insieme, le due guerre mondiali.
Le influenze sono causate da diversi tipi di virus strettamente imparentati, ma una forma in particolare (il tipo A) è legata a epidemie letali. La pandemia del 1918-19 fu causata da un virus influenzale chiamato H1N1. Nonostante sia diventata famose come influenza spagnola, i primi casi furono registrati negli Stati Uniti, durante l’ultimo anno della Prima guerra mondiale.
Nel marzo del 1918 gli Stati Uniti erano in guerra con la Germania e gli Imperi centrali da undici mesi. Mentre l’intera nazione si mobilitava per il conflitto, le postazioni fortificate sul suolo statunitense conobbero una massiccia espansione.
Fu lì che, il 4 marzo, un soldato si presentò febbricitante in infermeria. Nel giro di poche ore più di un centinaio di suoi commilitoni mostrarono i sintomi della stessa patologia, e altri ancora si sarebbero ammalati nelle settimane seguenti. Nel mese di aprile le truppe statunitensi arrivarono in Europa portando con sé il virus. Era la prima ondata di pandemia.
Un'infermiera prende il polso di un malato di "spagnola" al Walter Reed Hospital di Washington. Fotografia Harris & Ewing inc./Corbis
Gli epidemiologi ancora oggi si chiedono come e dove si sia sviluppata la letale infezione.
Un vecchio caso oggi riaperto
I biologici del St. Bartholomew’s Hospital di Londra stanno analizzando il cervello e il tessuto polmonare delle vittime della pandemia del 1918, nell’ambito di un impegno globale per comprenderne la natura e le cause.
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UNA VELOCITA’ LETALE. L’influenza uccideva le sue vittime con una rapidità incredibile. Negli Stati Uniti abbondavano le storie su persone che si svegliavano malate e morivano lungo il tragitto per andare al lavoro. I sintomi erano raccapriccianti: i pazienti presentavano febbre e difficoltà a respirare. A causa della carenza di ossigeno, i loro volti assumevano un colorito bluastro. L’emorragia riempiva i polmoni di sangue, provocando vomito e sanguimaneto dal naso e facendo alla fine soffocare le persone nei propri fluidi. Come già tantissime altre forme influenzali prima di lei, la Spagnola colpiva nn solo le persone molto giovani o molto vecchie, ma anche adulti sani tra i 20 e i 40 anni. Il fattore principale nella diffusione del virus fu, naturalmente, il conflitto internazionale, giunto all’epoca alle sue fasi finali. Gli epidemiologi discutono ancora oggi delle sue origini esatte, ma in molti concordano nel dire che sia stato il risultato di una mutazione genetica, forse avvenuta in Cina. È chiaro, in ogni caso, che questa nuova forma influenzale si diffuse a livello globale grazie ala massiccio e rapido movimento di truppe nel mondo. La drammaticità del conflitto finì inoltre per mascherare i tassi di mortalità insolitamente alti del nuovo virus.
All’inizio la malattia non veniva ben compresa e i decessi erano spesso attribuiti alla polmonite. La rigida censura del tempo di guerra impediva alla stampa europea e nordamericana di dare notizie delle epidemie. Solo nella neutrale Spagna i giornali poterono parlare liberamente di ciò che stava accadendo, e fu dalla copertura che ne diedero i media in quel Paese che la malattia prese il suo sopranome.
Tentativi per fermarla.
In un articolo del Resto del Carlino del 6 ottobre del 1918 venne pubblicata una lista di prescrizioni per prevenire la malattia. Le principali erano evitare i luoghi affollati e gli sbalzi climatici, non eccedere con i cibi, curare l’igene personale e non sputare per terra.
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La fine del 1918 portò un intervallo nella diffusione del virus, e il gennaio 1919 vide l’inizio della terza e ultima fase. Ormai la malattia era decisamente meno violenta: la ferocia dell’autunno e dell’inverno dell’anno prima non si ripeté e calò il tasso di mortalità. Ma l’ondata finale riuscì comunque a causare danni considerevoli. L’Australia, che aveva immediatamente imposto l’obbligo della quarantena, riuscì a sfuggire agli effetti più virulenti fino all’inizio del 1919, quando la malattia arrivò anche lì, causando la morte di diverse migliaia di persone. Si ebbero decessi per influenza (forse una forma diversa) fino al 1919 le politiche sanitarie e la naturale mutazione genetica del virus misero fine all’epidemia. Tuttavia, per chi aveva perso persone care o riportato complicanze a lungo termine, i suoi effetti si sarebbero fatti sentire per decenni.
UN IMPATTO DUREVOLE La pandemia non risparmiò nessuna parte del mondo. In Italia, secondo l’Istituto centrale di statistica, solo nel 1918 morirono circa 300.000 persone. In Gran Bretagna morirono 228.000 mila persone; negli Stati Uniti circa mezzo milione; in Giappone 400.000. Le Samoa Occidentali (oggi Samoa), nel Pacifico Meridionale perso il 23,6% della popolazione. I ricercatori stimano che, nella sola India, le morti abbiano raggiunto una cifra tra i 12 e i 17 milioni. I dati sul numero di decessi sono vaghi, ma in generale si calcola che la mortalità sia stata tra il dieci e il venti per cento dei contagiati.
I campioni prelevati nel 1997 da Johan Hultin alla donna di Brevig Mission servirono a far meglio comprendere agli scienziati come i virus influenzali mutano e si diffondono. Grazie ai medicinali e a una migliorata igiene pubblica – oltre alla presenza di istituzioni internazionali come l’Organizzazione internazionale della sanità – oggi moto avvantaggiata di fronte alla minaccia di una nuova epidemia. Gli scienziati, comunque, sanno che una mutazione letale potrebbe avvenire in qualsiasi momento: a un secolo di distanza dalla madre di tutte le pandemie, i suoi effetti su un mondo affollato e interconnesso sarebbero devastanti.
Articolo in gran parte di Toby Saul su Storica National Geografic di aprile 2018.
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