domenica 5 agosto 2018

Golfo di Leyte (1944)

Golfo di Leyte (1944)
Scontro totale fra titani del mare.
Tra il 23 e il 26 ottobre, al largo delle Filippine, Alleati e Giapponesi si affrontarono in quattro momenti diversi, nella più grande battaglia in mare della storia moderna. E il risultato fu a favore degli Alleati.


video la Battaglia di Leyte

Musashi under fire.jpg

24 ottobre 1944: la nave da battagliagiapponese Musashi sotto il fuoco degli aerei statunitensi della Task Force 38.

 

L'ammiraglio Chester Nimitz (in piedi) discute con (da sinistra) il generale Douglas MacArthur, il presidente Franklin Delano Roosevelte l'ammiraglio William Leahy

Nel giugno del 1944, dopo quasi due anni di accaniti combattimenti seguiti all’inizio delle controffensiva contro il Giappone, gli Alleati avevano compiuto significati progressi sul fronte del Pacifico. Mentre in Europa scorrevano i giorni fatidici dello Sbarco in Normandia, in Asia le forze alleate erano riuscite a conquistare gran parte delle Isole Marianne, rompendo così il perimetro difensivo che i nipponici avevano posto intorno alla Madrepatria lungo il Pacifico centrale e meridionale. Gli americani e i loro sodali, principalmente australiani, avevano seguito due linee di avanzata: la prima, guidata dall’ammiraglio Chester Nimitz, aveva percorso la catena di isole e atolli del Pacifico centrale, mentre la seconda, al comando del generale Douglas MacArthur, partendo dalla Nuova Guinea era risalita lungo i mari del Pacifico meridionale. Ora entrambe cominciavano a convergere verso l’asse Filippine-Taiwan, sollevando il problema quale delle due scegliere per proseguire il conflitto. In caso di conquista, avrebbero ambedue provocato una grave crisi per il nemico, compromettendo le linee di comunicazione dell’Impero giapponese con la sua principale fonte di approvvigionamento di petrolio nelle Indie orientali: se la Flotta imperiale fosse rimasta in quei mari avrebbe avuto sufficiente carburante per navigare, ma non i proiettili per combattere; se invece fosse rientrata nella Madrepatria, qui sarebbe rimasta ben armata ma con i serbatoi vuoti.


Le quattro azioni principali della battaglia del Golfo di Leyte.
  1) battaglia del Mare di Sibuyan
  2) battaglia dello Stretto di Surigao
  3) battaglia di Capo Engaño
  4) battaglia al largo di Samar

Le forze in campo.

FORZE ALLEATE
8 portaerei
8 portaerei leggere
18 portaerei di scorta
12 navi da battaglia
24 incrociatori
166 cacciatorpediniere
Numerose auto siluranti, sommergibili e navi ausiliare
1500 aerei circa
Circa 300 navi complessivamente.
FORZE GIAPPONESI
1 portaerei
3 portaerei leggere
9 corazzate
14 incrociatori pesanti
6 incrociatori leggeri
35 cacciatorpediniere circa
300 aerei circa (inclusi aerei con base a terra)
PERDITE ALLEATE
1 Portaerei leggera
2 Portaerei di scorta
2 cacciatorpediniere
1 unità minore
Oltre 200 aerei
Circa 3000 uomini
PERDITE GIAPPONESI
1 portaerei
3 portaerei leggere
3 corazzate
10 incrociatori
11 cacciatorpediniere
Circa 300 aerei
Circa 12500 uomini
 

L'incrociatore Birmingham affianca la Princeton in fiamme

UN’IMPRESA CICLOPICA. Nimitz avrebbe preferito attaccare Taiwan per poi puntare a invadere la Cina; MacArthur invece voleva tornare nelle Filippine, come aveva promesso quando era stato costretto ad abbandonarle l’11 marzo del 1942, cacciato dalle vittoriose truppe giapponesi. Riconquistare le Filippine, allora protettorato americano, non era solo un punto d’onore personale per MacArthur, ma era soprattutto un imperativo politico per gli Stati Uniti, il termometro della loro determinazione alla vittoria. In un incontro tra i due comandanti e il presidente Franklin Delano Roosevelt, il 26 luglio, la scelta finale cadde sulle Filippine, determinando l’avvio a un’operazione che si sarebbe rivelata decisiva per le sorti dell’intero conflitto. L’impresa era di dimensioni ciclopiche: il punto scelto per lo sbarco, l’isola di Leyte, nelle Filippine centrali distava 400 miglia nautiche (926 km) dalle principali basi di partenza di Morotai e Palau, dieci volte la distanza che il 6 giugno 1944 era stata colmata per lo Sbarco in Normandia. Ogni singolo proiettile, pezzo di ricambio e razione  di cibo doveva essere trasportato su navi provenienti dalla costa occidentale degli Stati Uniti, distante dal luogo più di 5mila miglia nautiche, oppure dall’Australia.
Un'altro problema non secondario era rappresentato dal supporto aereo: data l’enorme distanza dalle basi americane, tutto il sostegno aereo avrebbe potuto provenire soltanto dalle portaerei della US Navy. Viceversa, l’aviazione giapponese sarebbe stata avvantaggiata dalla presenza dei suoi numerosi aeroporti sulla terraferma, garantendosi una maggiore autonomia e presenza di volo.

Fleet Admiral Chester W. Nimitz portrait.jpg

Ammiraglio Nimitz
Thomas C. Kinkaid.jpg

Vice Ammiraglio Thomas Kinkaid,

ASSALTO NEL GOLFO. Comandata dal Vice Ammiraglio Thomas Kinkaid, la Settima flotta degli Stati Uniti aveva il compito di trasportare la forza d’invasione e di appoggiarne direttamente l’azione: era una formazione poderosa che comprendeva 157 navi da combattimento, tra le quali 6 corrazzate, 11 incrociatori e 18 vettori di scorta, 420 navi anfibie  84 tra pattugliatori, dragamine e idrografi. Le 17 portaerei, 6 corazzate, 16 incrociatori e 56 cacciatorpediniere della Terza Flotta, invece, sotto l’ammiraglio William Halsey, avrebbero avuto il compito di coprire a distanza l’invasione e di appoggiarla attaccando le basi aeree nemiche e qualsiasi forza navale che avesse cercato di ostacolare gli sbarchi.
Da parte loro i giapponesi non erano stati inerti. La prospettiva di un attacco alle Filippine, e proprio nel Golfo d Leyte, era considerata anche da loro la più probabile: per questo opportune contromisure vennero accuratamente studiate dal comandante della Flotta Combinata ammiraglio Soemu Toyoda nel piano Sho-Go 1 (o piano vittorioso 1), assieme ad altri tre piani alternativi elaborati per le diverse circostanze. La necessità di doversi confrontare con teatri di guerra così differenti e distanti tra loro costrinse le forze navali giapponesi a disperdesi su un’aerea molto vasta, cedendo così l’iniziativa agli avversari: l’assalto anfibio, ovunque fosse avvenuto, non sarebbe stato impedito, tuttavia il contrattacco giapponese avrebbe puntato a colpire i supporti navali del contingente da sbarco, costringendoli a ritirarsi e isolando in tal modo la minaccia terrestre. Il piano Sho-Go 1 divideva le forze giapponesi in tre gruppi: una Forza Settentrionale, al comando del vice ammiraglio Jasaburo Ozawa (una portaerei, 3 portaerei leggere, due corazzate della Prima guerra mondiale parzialmente convertite in portaerei, tre incrociatori leggeri e 9 cacciatorpediniere, con solo 108 aerei imbarcati); una Forza Centrale guidata dall’ammiraglio Takeo Kurita, di gran lunga la più potente con 5 corazzate, 10 incrociatori pesanti, due incrociatori leggeri e 15 cacciatorpediniere; e una Forza Meridionale, la più debole e divisa tra i vice ammiragli Shoji Nishimura e Kiyohide Shima, consistente in 2 corazzate, 3 incrociatori pesanti e 4 cacciatorpediniere. Il piano giapponese prevedeva che la flotta di Osawa, provenendo da nord, facesse da esca, attirando le portaerei americane della Terza Flotta lontano dall’area degli sbarchi. In tal modo le altre due forze, Centrale e Meridionale, sarebbero rimaste libere di concentrarsi nell’area degli sbarchi stessi, dando vita a una manovra a tenaglia contro le forze d’assalto nemiche, ormai prive di copertura aerea.

I primi attacchi kamikaze.


https://it.wikipedia.org/wiki/Mitsubishi_A6M

Un gruppo di giovani pilotikamikaze delle Forze aeree dell'esercito giapponese nel 1945; il 25 maggio 1945, durante la battaglia di Okinawa, danneggiarono gravemente il cacciatorpediniere USS Braine; tutti e cinque i piloti della foto morirono nell'azione.

Il ponte e torrette di prua della HMASAustralia, nel settembre 1944. L'ufficiale a destra è il capitano Emile Dechaineux, ucciso durante il primo attacco kamikaze il 21 ottobre 1944.
Il 25 ottobre 1944, proprio durante la battaglia del Golfo di Leye, la Forza d’Attacco Speciale Kamikaze compì la sua prima missione. Cinque Zero A6M, guidati dal tenente Yukio Seki, e scortati al loro bersaglio dall’asso giapponese Hiroyoshi Nishizawa, attaccarono le portaerei di scorta americane. Uno Zero tentò di colpire il ponte della Kijtun Bay, ma invece esplose sulla passerella di prora e carambolò in mare. Altri due scescero in picchiata sulla Fanshaw Bay ma furono distrutti dal fuoco antiaereo. Gli ultimi due puntarono la White Plains: uno di essi, ostacolato dalla contraerea e dalla cortina fumogena, interruppe il tentativo virando contro la St.lo e piombando sul suo ponte di volo. La bomba che trasportava causò un incendio che si estese al deposito munizioni facendolo esplodere, provocando l’affondamento della portaerei. Il 25 ottobre furono danneggiate anche le grandi portaerei di scorta Sangamon e Suwannee, mentreil giorno successivo fu la volta della Santee e ancora della White Plains, e delle portaerei leggere Kalinin Bay e Kitkun Bay. In totale, in quei due i giorni i 55 kamikaze della Special Attack avevano colpito  sette portaerei e altre 40 navi, affondandone 5, danneggiandone gravemente 23 e in modo lieve 12.  

la lezione di Leyte.
Dall’operazione del golfo di Leyte si possono trarre importanti insegnamenti. Un principio chiave della guerra è l’individuazione e il mantenimento dello scopo dell’operazione militare. L’obiettivo del piano Sho-Go 1 ea di compromettere gli sbarchi alleati attaccando le navi da trasporto e di supporto ne Golfo di Leyte. La Forza Centrale deviò da questo suo compito aggredendo le navi di appoggio, anziché portare a conclusione l’attacco contro i trasporti. Analogamente, anche la flotta alleata non riuscì a individuare con chiarezza il suo scopo prioritario. Halsey credeva di dover puntare alla distruzione della flotta giapponese, mentre MacArthur era convinto che il ruolo principale di Hasley  fosse la protezione degli sbarchi e del naviglio che li appoggiava. Questo nodo poteva essere sciolto solo da un’autorità superiore a entrambi prima dell’avvio dell’operazione. La Settima Flotta di Kinkaid aveva così quasi esaurito le munizioni dopo i combattimento del giorno precedente e l’azione diurna nello Stretto di Surigao. Se la forza centrale avesse spinto a fondo il suo attacco, la Settima Flotta avrebbe potuto subire gravi perdite e l’invasione sarebbe stata messa a repentaglio

Le principali navi da battaglia
                                                FLOTTA USA                                       FLOTTA GIAPPONESE
Portaerei di scorta ST.LO
Tipo: portaerei di scorta classe Casablanca
Entrata in servizio: 1943
Dislocamento pieno carico: 7900
Velocità massima: 19 nodi
Lunghezza:156 metri
Larghezza: 33 metri
Armamento:  1 cannone antiaereo da 13° mm., 16 da 40 mm, 20 da 20 mm.
Aerei imbarcati: 28

La St. Lo colpita dall'A6M2 Zero di Yukio Seki
https://it.wikipedia.org/wiki/USS_St._Lo_(CVE-63)

Corazzata West Virginia
Tipo:Corazzata classe Colorado
Entrata in servizio: 1923
Dislocamento pieno carico: tonnellate 33.500
Velocità massima: 21,17 nodi
Lunghezza: 190 metri
Larghezza: 29,72 metri
Armamento: 8 cannoni da 406 mm, 12 da 127 mm, 4 da 76 mm, 2 tubi lanciasiluri da 533 mm.
Corazzatura: 203-343 mm. Cintura, da 229 mm a 45 mm torrette

La corazzata West Virginia nella baia di San Francisco nel 1934
Uss west virginia bb.jpg
Corazzata Musashi
Tipo:Corazzate classe Yamato
Entrata in servizio:1942
Dislocamento pieno carico: tonnellate 72809
Velocità massima: 27,6 no
Lunghezza:263 metri
Larghezza: 37 metri
Armamento: 9 cannoni da 46 cm, 12 da 15,50 cm, 112 da 12,7 mm, 36 mitragliatrici antiaeree da 25 mm, 4 mitragliatrici antiaeree da 13,2
Corazzatura:400 mm cintura, da 250° 650 mm torrette  

sotto:
La Musashi nell'ottobre 1944 m
entre si dirige al Golfo di Leyt

Japanese battleship Musashi.jpg


L’AZIONE DEI KAMIKAZE. Il 20 ottobre lo sbarco alleato avvenne coe da copione in modo praticamente incontrastato. Le navi di appoggio e l’aviazione avevano bombardato per tre giorni sia i punti scelti per gli attacchi che i campi di aviazione giapponesi. In quello stesso giorno MacArthur comunicò al popolo filippino di aver mantenuto la sua promessa con un laconico “sono tornato”, ma in realtà la battaglia vera e propria doveva ancora cominciare. Il mattino seguente, infatti, due incrociatori australiani furono attaccati da un singolo bombardiere giapponese colpito dalla contraerea, il pilota nipponico si schiantò deliberatamente contro il lato sinistro dell’incrociatore pesante Australia, uccidendo 30 membri dell’equipaggio, tra i quali il comandante, e ferendone 64. l’azione assegnò all’incrociatore australiano il poco invidiabile primato di prima nave alleata colpita Leyte da un attacco suicida. Le vere e proprie missioni deliberate di kamikaze contro le forze alleate sarebbero iniziate solo quattro giorni dopo, ma il gesto disperato di quel singolo pilota fornì il segno plastico della determinazione con la quale i giapponesi avrebbero affrontato la battaglia.
Il 24 e il 25 ottobre 1944 nel Golfo di Leyte furono combattuti tre grandi scontri navali. Ebbero però un importante prologo. La mattina del 24, infatti, l’ammiraglio Halsey individuò la Forza Centrale di Kurita e l’attaccò senza esitazioni con i suoi aeroplani: gli ottimistici rapporti dei piloto lo convinsero che la minaccia di Kurita fosse ormai sventata, ma in realtà la Forza Centrale era praticamente intatta perché la maggior parte degli attacchi aerei americani si era concentra tata conto un’unica corazzata, la Musashi. Una manovra diversiva di Kurita confermò le errate convinzioni dell’ammiraglio americano condizionandone le azioni successive, con conseguente potenzialmente disastrose per gli Alleati.

UNA MANOVRA AZZARDATA. Il primo scontro avvenne nella notte tra il 24 e il 25 nello Stretto di Surigao tra la Forza Meridionale giapponese e la Settima Flotta dell’Ammiraglio Kinkaid. Fu l’ultima battaglia navale nella quale potenti corazzate si scontrarono testa a testa. due corazzate e tre cacciatorpediniere giapponesi furono affondati senza perdite immediate per la flotta alleate; un incrociatore pesante danneggiato fu colato a picco da un attacco aereo il giorno successivo.  La Flotta da sbarco era stata protetta ma benché le navi di Kinkaid fossero tutte operative, a seguito dell’attacco le loro scorte di munizioni e di carburanti si erano gravemente ridotte: il rischio insito nella precaria logistica basata su magazzini galleggianti si era in effetti concretizzato.
Sull’altro fronte, l’esca prevista dal piano Sho-Go 1,ossia la Forza Settentrionale nipponica, ebbe successo. Hasley la individuò verso le 16 del 24, e non ebbe dubbi che si trattasse della principale forza d’attacco giapponese; decise così di attaccarla per assestare alla Marina nemica un colpo mortale. L’ammiraglio americano ordinò alla sua intera flotta di intercettare le navi nipponiche in avvicinamento e la battaglia di Capo Engano si concluse per lui con la vittoria che cercava: Ozawa perse 4 portaerei, un incrociatore leggero e quattro cacciatorpediniere, prima di ritirarsi con quel poco che gli rimaneva alla mezzanotte del 25. ma la mossa azzardata dell’ammiraglio, resa ancora più pericolosa dal fatto che aveva mancato di informare in modo appropriato sia il quartier generale e sia il suo collega Kinkaid sui suoi movimenti, lasciò incustodito lo Stretto di San Bernardino, come previsto dal piano giapponese; la Forza Centrale di Kurita, che stava sopraggiungendo, avrebbe così avuto l’ingresso a Leyte praticamente spalancato.
Quello stesso giorno, quattro corazzate nipponiche, sei incrociatori pesanti, due leggeri e 11 cacciatorpediniere, sbucarono dallo Stretto di San Bernardino trovando come unico ostacolo soltanto un velo di cacciatorpediniere americani. Presa completamente di sorpresa dall’inopinata partenza di Hasley, ormai troppo lontano per prestare assistenza, la Settima Flotta di Kinkiad ingaggiò al largo dell’isola  di Samar, contro la Forza Centrale di Kurita, la più grande battaglia della storia navale per tonnellaggio delle navi coinvolte. Quei pochi cacci torpedinieri statunitensi, però, reagirono con tale energia e spirito di sacrificio, da convincere Kurita, ancora all’oscuro del successo della manovra diversiva di Ozawa, di aver di fronte a sé l’intera flotta di Hasley ed esitò. Riuscì ad affondare una portaerei di scorta e due cacciatorpediniere americani, ma il deciso intervento di Kinkaid provocò a sua volta l’affondamento di tre incrociatori pesanti nipponici. A seguito di queste perdite, Kurita decise di ritirarsi rinunciando ad attaccare a fondo le forze da sbarco nemiche nel golfo di Leyte e rendendo in tal modo vano il sacrificio delle portaerei di Osawa. Dopo questa battaglia la Marina Imperiale giapponese non avrebbe più rappresentato un ostacolo agli assalti anfibi americani, e l’episodio pose un’ipoteca sull’esito finale del conflitto.

Takeo Kurita.jpg
Takeo Kurita (栗田 健男 Kurita Takeo?Prefettura di Ibaraki28 aprile 1889 – Tokyo19 dicembre 1977) è stato unammiraglio giapponese, attivo durante la seconda guerra mondiale e noto soprattutto per il suo cruciale ruolo nellabattaglia del Golfo di Leyte.


Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato su Le Grandi Battaglie Navali Sprea editori, altri testi e foto da Wikipedia      

sabato 4 agosto 2018

I mondiali della vergogna

I mondiali della vergogna
Nel 1978 in Argentina si svolsero i mondiali di calcio. E mentre sui campi si giocava il regime dittatoriale al potere, continuava con la sua politica di violenze e repressioni.

stadio monumental 

Stadio Monumental di Buenos Aires, 25 giugno di 40 anni fa: le nazionali di Argentina e Olanda giocano una partita importante, davanti a 80mila tifosi. È la finale dei Mondiali in Argentina ’78, quelli che poi saranno definiti i mondiali della vergogna.  Da due anni, infatti, l’Argentina era sottoposta a una dittatura feroce: il 24 marzo 1976 un colpo di stato aveva portato al potere i militari, rappresentati dal generale e presidente Jorge Rafael Videla. Durante il regime il Paese visse un lungo periodo (fino al 1983) di violenze e repressioni. E nei mesi in cui si svolse il Campionato mondiale di calcio, la dittatura non fu meno spietata. Alcuni superstiti raccontarono in seguito che durante le partite erano sospese le torture e i voli della morte (gli oppositori arrestati erano buttati ancora vivi dagli aerei in volo sull’oceano), ma al fischio di fine gara tutto riprendeva come prima. Mentre gli occhi del mondo erano dunque puntati sui campi, la macchina repressiva continuava a lavorare: secondo le stime, nei 25 giorni di campionato (dall’1 al 25 giugno) vi furono 63 desaparecidos (scomparsi in spagnolo), ossia persone fermate per attività antigovernativa di cui non si ebbe più nessuna notizia. A poche centinaia di metri di distanza dallo stadio si trovava la Scuola di meccanica della Marina (ESMA), nella quale furono rinchiuse durante il regime 5mila persone (di cui solo 500 ne uscirono vive), definita l’Auschwitz argentino dallo scrittore Eduardo Galeano nel libro Splendori e miserie del gioco del calcio.
Tutto questo mentre il regime usava il gioco del calcio (popolarissimo in Argentina) come straordinario, quanto inaspettato, strumento di consenso.

Una rappresentanza della madri di Plaza de Mayo ricevuta dal presidenteNéstor Kirchner

L’APPARENZA INGANNA. I  Mondiali di calcio erano stati, infatti, assegnati all’Argentina anni prima in base alla regola, in vigore allora, dell’alternanza tra continente americano. All’inizio Videla era contrario ai giochi nel Paese, ma ben presto si convinse che non vi era palcoscenico migliore per mostrare al popolo e al mondo intero il lato buono del suo governo. A questo scopo furono impiegati fiumi di soldi pubblici, senza curarsi della crisi economica cha attanagliava il Paese sudamericano in quegli anni. Basti pensare che interi quartieri malfamati di Buenos Aires e Rosario sarebbero stati abbattuti prima dell’inaugurazione del campionato. Per la manifestazione il governo argentino spese quattro volte di più di quello spagnolo per i successivi Mondiali del 1982.
Per impedire, inoltre, contatti tra dissidenti e stampe estere fu intensificato in quel mese la repressione, arrivando a circa 200 arresti al giorno. Ai giornalisti stranieri fu imposti di scrivere solo di calcio, evitando riferimenti alla società, all’economia e alla politica.
La stampa di casa invece aveva l’obbligo di descrivere una nazione tranquilla, ordinata e pacificata, grazie alla pulizia dei sovversivi, tacciati di essere antiargentini. Persino nelle telecronache veniva esaltato il regime: il giornalista José Maria Munoz diceva spesso che gli argentini erano “Derechos y Humanos” (giusti e umani). L’unica forma di opposizione fu quella felpata, ma determinata, delle Madri di Plaza de Mayo, che ogni giovedì sera si trovavano davanti al palazzo del Presidente a Buenos Aires, per reclamare la verità sui loro figli scomparsi. Queste manifestazioni furono tuttavia ignorate dalla maggior parte dei mezzi d’informazione internazionali, eccezione fatta solo per la televisione olandese, che mise in onda un servizio sui cortei proprio il giorno dell’inaugurazione dei giochi.
Argentina1978.jpg

I padroni di casa dell'Argentina, per la prima volta campioni del mondo.

CALCIO E POLITICA. Ma cosa ne pensava davvero il resto del mondo del governo argentino? Le federazioni sportive non presero mai posizione rispetto a quello che succedeva nel Paese, e men che meno fu considerata da qualcuno la possibilità di non giocare quel torneo. Nessun giocatore inoltre, nonostante l’asfissiante presenza dei militari nei campi e nei ritiri, criticò mai il regime argentino o fece dichiarazione sulle vittime della repressione, anzi, qualcuno come il capitano della nazionale tedesca, Berti Vogts, disse: “L’Argentina è un paese dove regna l’ordine, io non ho visto  nessun prigioniero politico”. Altri si nascosero dietro il fatto che il calcio sarebbe dovuto rimanere estraneo alla politica. In un primo momento l’assenza del grande giocatore olandese Johann Cruijff, fu interpretato come un gesto di protesta. Ma in seguito lo stesso Cruijff spiegò che non aveva partecipato a quel Mondiale per motivi di sicurezza: mesi prima aveva subito un tentativo di rapimento a Barcellona, che lo aveva convito a limitare gli spostamenti. Per dare maggior lustro al regime era necessario tuttavia che l’Argentina vincesse la coppa, in modo anche da distrarre il popolo, con la vittoria e i festeggiamenti. Per questo motivo fu scelto un allenatore, politicamente distante dal regime, ma tecnicamente molto preparato, César Luis Menotti detto El Flaco (il magro), ritenuto l’unico di far vincere ai biancoceleste il primo titolo della loro storia.
César Luis Menotti.jpg
César Luis Menotti (Rosario5 novembre 1938) è un ex allenatore di calcio, ex calciatore e dirigente sportivo argentino di origine italiana, direttore generale dell'Independiente.
Da allenatore, fu il commissario tecnico che guidò la Nazionale argentina alla conquista del suo primo campionato del mondo di calcio, nel 1978. È soprannominato El flaco.
CRONOLOGIA:
1946: il generale Juan Domingo Peron diventa presidente dell’Argentina e l’anno seguente, nel  
          1947, fonda un partito populista.
1955: Colpo di stato militare contro Peron, dopo la morte della moglie Evita. Inizia il periodo delle
          dittature militari, con brevi intervalli di governo costituzionale.
1973: Peron si ricandida con il suo Partito giustizialista e vince le elezioni con quasi il 62% di
          Preferenze. Muore l’anno seguente.
1974:  Isabel Martinez de Peron, detta Isabelita, ultima moglie di Peron, succede al marito defunto.
           Si aggrava la crisi economica.
1976:  Golpe militare guidato dal generale Videla che impone la legge marziale. Inizia la violenta
            repressione di ogni forma di dissenso.
1981: Il presidente Videla è deposto dal generale Roberto Viola, destituito a sua volta da un
          altro generale, Leopoldo Galtieri.
1982: L’Argentina invade le isole britanniche Falkand (in spagnolo Malvinas). La guerra è un
          disastro diplomatico per il Paese e il generale Galtieri si dimette.
1983: Torna la democrazia. È eletto presidente, Raul Alfonsin, che apre un’inchiesta sulle
           atrocità dei regimi militari.
Desaparecidos: spariti nel nulla.



Jorge Rafael Videla, dittatore dell'Argentina dal 1976 al 1981, responsabile di circa 30 000 vittime, di cui gran parte "scomparse"
https://it.wikipedia.org/wiki/Desaparecidos
Il regime di terrore, inaugurato con il golpe militare del 1976, terminò nel 1983, lasciando dietro di sé un paese distrutto e una lunga scia di morti e scomparsi. La violenta repressione degli oppositori (anche solo presunti) venne infatti messa in atto dai militari fuori da ogni controllo legale con l’utilizzo delle forze speciali. L’obiettivo del regime era l’eliminazione di qualsiasi dissidenza in ambito culturale, politico, sociale e sindacale. I sospettati che erano arrestati, torturati e poi fatti sparire (da qui il nome di desaparecidos o scomparsi) erano studenti, insegnanti, giornalisti e religiosi. Nei 7 anni di regime i desaparecidos furono 30mila, 15mila le persone fucilate, 10mi i sopravissuti alle torture e due milioni di esuli. “La più grande e brutale tragedia della storia argentina”, così fu definito il regime militare dalla Commissione Nazionale sulla scomparsa di persone, istituita da Raul Alfonsin, eletto presidente nel 1983 dopo la fine del regime.
Regimi coalizzati. Quella dell’Argentina tuttavia non fu l’unica dittatura del continente. In quegli anni gran parte del America meridionale era in mano a governi militari (Cile, Brasile, Perù, Uruguay e Paraguay). Queste dittature presero parte a quella che fu chiamata “operazione Condor”, un coordinamento tra i servizi segreti dei vari paesi, con il compito di reprimere ogni forma di opposizione politica.
 



BROGLI IN CAMPO. La nazionale argentina, dopo un inizio poco convincente (perse anche contro l’Italia di Bearzot), arrivò alla finale con l’aiuto di qualche arbitraggio favorevole, ma soprattutto grazie a una partita truccata. La gara era contro il Perù e si concluse con un 6  a 0 per gli argentini. Per effetto dei numerosi  gol segnati nel match, i padroni di casa guadagnarono la finale a discapito del Brasile. Anni dopo, l’inchiesta di Tim Pears, giornalista statunitense, provò che il regime militare aveva regalato un milione di tonnellate di grano al Perù per “ammorbidire” i suoi giocatori. Il giorno della finale, poco prima di scendere in campo, l’allenatore Menotti chiese ai sui uomini di giocare per alleviare il dolore degli argentini e non per i generali seduti nella tribuna d’onore. L’Argentina sconfisse gli olandesi per 3 a 1 nei tempi supplementari, aggiudicandosi la Coppa del mondo e facendo esplodere la festa in tutto il Paese. Per i militari il trionfo consacrò il regime agli occhi del mondo e contribuì a rinsaldare il potere dei generali, che mantennero per altri 5 anni nel silenzio generali e nella più totale impunità



Articolo in gran parte di Riccardo Michelucci pubblicato su Focus Storia n. 140 altri testi e foto da Wikipedia.

Alessandro II lo zar liberatore

Alessandro II lo zar liberatore.
Abolì la servitù della gleba, fece riforme in ogni settore e lavorò per una Russia moderna. Eppure fu assassinato.


Alessandro II Romanov (in russo: Александр II Николаевич Романов?, Aleksandr II Nikolaevič Romanov; Mosca, 29 aprile 1818  San Pietroburgo, 13 marzo 1881) è stato imperatore di Russia e duca di Finlandia dal 2 marzo 1855 alla sua morte.

https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_II_di_Russia
Lo zar di Russia Alessandro II giaceva a terra. Era il sesto attentato che subiva, il quarto negli ultimi tre anni: una vera e propria caccia all’uomo. Ne era sempre uscito illeso, ma in quel fatidico 13 marzo 1881 il destino decise diversamente. Erano da poco passate le due del pomeriggio. La carrozza dell’imperatore avanzava veloce lungo la strada che tutt’ora costeggia il canale Caterina, a San Pietroburgo. D’un tratto Nicolaj Rysakov, del gruppo rivoluzionario “Volontà del popolo” , lanciò contro il convoglio una bomba. Lo zar non venne colpito, ma subito dopo un secondo ordigno scoppiò a due metri da lui: questa volta era spacciato. Le gambe erano maciullate e perdeva molto sangue. Alessandro ebbe appena il tempo di bisbigliare “Potatemi a palazzo…e lì morire”. E spirò. Ma meritava tutto questo? 




Immagine dell’attentato ad Alessandro II.

ARRETRATO. Alessandro II aveva 37 anni quando, alla morte di suo padre Nicola I, si trovò a governare uno Stato che si estendeva dalla Polonia all’Alaska. Un impero enorme, che attraversava tre continenti, ma ormai inadeguato alle sfide del suo tempo: mentre l’Europa si industrializzava, la Russia continuava a vivere nel Medioevo. La zarina Maria d’Assia, moglie di Alessandro e madre dei suoi otto figli, descrisse con lucidità la situazione  dell’impero alla more di Nicola I: “Tutte le branche dell’amministrazione erano mal organizzate, le nostre finanze erano alla fine, la nostra politica era, da molto tempo, impegnata in una strada sbagliata”.  Per mantenere il ruolo di grande potenza era necessario colmare il profondo divario che separava la Russia dalle nazioni occidentali. E Alessandro II ci provò. Ma sarebbe stato all’altezza del compito? Anna Tjutcev, dama d’onore della zarina, che aveva modi di osservare lo zar da vicino, nutriva qualche dubbio. Era convinta, come molti altri, che per far uscire la Russia da quel vicolo cieco ci volesse un sovrano dotato di energia e potenza eccezionali requisiti per capovolgere e riorganizzare tutto: “L’imperatore è il migliore degli uomini, sarebbe un eccellente monarca in un Paese ben organizzato e amministrato e in tempo di pace, ma non ha il temperamento di un riformatore” scriveva la dama di compagnia ne suo diario. Di certo Alessandro era molto diverso dal padre Nicola I, un colosso alto due metri, duro, autoritario, dallo sguardo glaciale e con una profonda avversione per tutto ciò che era liberale.


L'impero russo raggiunse con Alessandro II la sua massima espansione. In verde scuro i territori sotto il suo controllo, in verde chiaro quelli che subivano la sua influenza.

LE SUE RIFORME. Alessandro II, invece, si considerava un uomo del suo tempo e voleva davvero trasformare la Russia in uno stato moderno. A cominciare dalla madre dii tutte le riforme: l’abolizione della servitù della gleba. L’Impero russo era in ritardo di almeno cinquant’anni nei confronti dei Paesi dell’Europa Centrale e ancora di più della Francia, che la abolì nel 1789. su una popolazione di 61 milioni di persone, erano 40 i contadini russi asserviti. Una parte di questi svolgeva il ruolo di domestici, altri lavoravano nelle terre dei signori, altri ancora nelle città. Era  così da secoli: “Il possesso dei servi per eredità sembrava un fatto indispensabile”, scrisse Lev Tolstoj nei suoi Ricordi. Ma la nobiltà non voleva certo rinunciare a quella forza lavoro e Alessano non riusciva a convincerli che era “era meglio dare la libertà dall’alto piuttosto che aspettare che venissero a prendersela dal basso”. Le rivolte del 1848 avevano mosso gli animi anche nella grande Russia, nonostante Nicola I in un manifesto al popolo avesse dichiarato: “Il furore della sovversione si infrangerà alla frontiera russa perché Dio é con noi”. Finalmente il 3 marzo 1861 Alessandro II pose la firma sullo storico documento. Ma c’era ancora molto da fare e le riforme si susseguirono a cadenza rapida in tutti i settori: insegnamento, amministrazione statale, tribunali, economia, esercito, fino all’abolizione delle punizioni corporali e a una maggiore libertà di stampa. Lo zar potenziò anche la rete ferroviaria in tute le direzioni, partendo da Mosca e da San Pietroburgo e fece cassa vendendo agli Stati Uniti l’Alaska, di cui non sapeva che farsene (del petrolio nessuno ancora aveva sentito parlarne). Alessandro II era soddisfatto di aver strappato la Russia al Medioevo, ma era anche consapevole che queste riforme, risultato di moltissimi compromessi, erano imperfette e avrebbero incontrato grandi difficoltà di applicazione. In politica estera riuscì ad annullare le pesanti clausole imposte alla Russia dopo la guerra di Crimea e attuò in Asia una politica di espansione che portò l'Impero russo alla sua massima estensione territoriale. Cercò di coltivare l'amicizia della Prussia, del cui sovrano era nipote, e si trovò in contrasto con la Gran Bretagna sia per l'espansione russa in Asia, sia per l'attacco russo all'Impero ottomano del 1877.
Nel 1863 e nel 1864 represse con la forza i moti nazionalisti in Polonia e in alcune province nord-occidentali della Russia.  .

La famiglia saluta Alessandro dopo l'incoronazione. In quella occasione i nobili di tre province si dichiararono disponibili a rivedere la legge sulla servitù della gleba.[8
 

L'incoronazione di Alessandro II nel 1856

Il popolo e gli intellettuali inizialmente entusiasti lo acclamarono “Zar liberatore” ma la festa durò poco.
Alla prova dei fatti le riforme vennero giudicate troppo caute, incomplete e i contadini si ritrovarono a dover riscattare la terra pagandola ai loro ex padroni. Nella rivista Sovremennik, a  cui collaborarono anche gli scrittori Turgenev e Tolstoj, si denunciava la sopravvivenza del dispotismo e di funzionari corrotti. In vari punti dell’impero sorsero moti di protesta e  nacquero movimenti 
clandestini rivoluzionari come “Terra e libertà” e “Volontà del popolo”, che avevano come scopo l’eliminazione dello zar. Alessandro reagì secondo tradizione: arresto, repressione, chiusura delle università sospette. Fu proprio in questo contesto che si concretizzarono i  sei attentati all’imperatore. gli attentatori erano consci che nessun zar si era mai impegnato tanto per applicare riforme liberali. Ma ai loro occhi il suo torto era il fatto stesso di essere zar, unto da Dio, con tutto quello che per secoli aveva rappresentato. E non si sarebbero fermati neanche se Alessandro avesse concesso la costituzione come sembrava voler fare. I rivoluzionari Mikhailov, Kostomarov e Chelgounov scrissero: “Non abbiamo bisogno di uno zar. Noi vogliamo come capo un semplice mortale, un uomo della terra, un uomo scelto dal popolo e capace di comprendere i bisogni del popolo”.



FERMENTO CREATIVO.
Il regno di Alessandro II vide un eccezionale fermento intellettuale. In letteratura gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento segnarono il trionfo del romanzo. A partire da Fedor Dostoevskij, l’autore di Delitto e castigo e dei fratelli Karamazov. Lev Tolstoj in Guerra e pace, (1865), tracciò un grandioso scenario della Russia di 50 anni prima, ai tempi dell’invasione napoleonica, e in Anna Karenina  mise a nudo le convenzioni e le ipocrisie del tempo. Ivan Turgenev in Padri e figli descrisse invece il diffondersi delle idee rivoluzionarie in Russia,quelle che portarono alla morte dello zar.
LA GRANDE MUSICA. Ma anche la musica non fu da meno. Nel 1885 venne fondato con il patrocinio imperiale il conservatorio di San Pietroburgo (sul modello di quelli occidentali), a cui si affiancò un gruppo di musicisti per lo più non professionisti, che elevò ad arte la musica tradizionale russa. Nacquero capolavori come il Lago dei Cigni e lo  Schiaccianoci di Ciajkovskij, il Boris Godunov di Musorskij, Shahrazad di Rimskij-Korsakov e il Principe Igor di Borodin.

IL GRANDE AMORE. Alessandro era amareggiato, deluso, preoccupato. Ma il primo attentato coincise con l’inizio di una storia d’amore destinata a durare 15 anni. L’imperatore, che da tempo conduceva una vita separata dalla zarina Maria, durante una passeggiata nel giardino d’estate notò la principessa Caterina Dolgorukova e ne rimase affascinato. Lei aveva 17 anni, lui 4. si rividero varie voltenel corso dei mesi. Lo zar le faceva la corte ma la ragazza esitava: non voleva essere un’avventura come tante. Fu solo quando Alessandro rischiò di morire nell’attentato del 1866, che Caterina, sconvolta per la paura di perderlo, ne divenne l’amante. Cominciarono a incontrarsi tre o quattro volte la settimana. L’imperatore le scriveva ogni giorno lettere d’amore infuocate, come un giovane luogotenente innamorato. E lei rispondeva con altrettanto ardore. Presto la loro storia divenne di pubblico dominio e a corte i commenti si sprecavano. Er non parlare di quando, nel 1872, Caterina diede alla luce il primo figlio Giorgio (seguito da altri tre). Alessandro era pazzo di lei e, per poterla vedere più facilmente, la fece nominare dama d’onore di sua moglie. Non solo. Nel 1880 volle che Caterina si trasferisse con i figli al Palazzo d’Inverno, non lontano dall’appartamento dell’imperatrice. La zarina confidò alla contessa Alessandrina Tolstoj: “Gli perdono le offese nei riguardi della sovrana: non posso perdonare le torture che inflitte alla sposa”. Maria morì di tisi a 56 anni, il 3 giugno 1880. E dopo soli 40 giorni, scandalizzando la corte, Alessandro sposò Caterina con rito morganatico, che non dava diritto alla successione dinastica. Ma dopo soli dieci mesi lo zar morì tra le braccia della giovane moglie nel 1881.
 

Marija Aleksandrovna (a sinistra) consorte dello Zar e imperatrice di Russia, e Ekaterina Dolgorukova (a destra) che sposò in matrimonio morganatico Alessandro II dopo la morte della precedente.

LA RESTAURAZIONE. Se lo scopo dei regicidi era quello di sollevare il popolo contro l’istituzione imperiale, non riuscirono nel loro intento. Gli intellettuali, sconcertati, ne presero le distanze e il popolo non si sollevò. Il nuovo zar Alessandro III, che non era liberale come il padre, chiuse definitivamente alle riforme e nel manifesto del 28 aprile 1881 non usò mezzi termini: “La voce di Dio ci ordina di assumere con fiducia il potere assoluto… d’ora in avanti il destino del nostro impero sarà discusso solo tra Dio e noi”. Quanto a Caterina, le impose l’esilio a vita. La principessa si stabilì a Parigi e a Nizza, con i figli e gli oltre tre milioni di rubli ereditati dallo zar. Non si risposò mai e donò alla cattedrale nizzarda di San Nicola l’uniforme che Alessandro Ii portava il giorno dell’attentato. La principessa morì a Nizza, nel 1922. Ormai l’Impero russo non esisteva più, sulle sue ceneri era nata l’Unione Sovietica.

Articolo in gran parte di Silvia Buchi, pubblicato su Focus Storia n. 139, immagini e altri testi da Wikipedia