venerdì 14 settembre 2018

Il popolo degli indesiderabili

Il popolo degli indesiderabili.

Prostitute e carnefici, saltimbanchi e giocolieri, attori e balie da latte: la “corte dei miracoli” medievale era formata da una miriade di uomini e donne, tutti accomunati dall’identico marchio d’infamia.
Un articolo con altri reietti nel Medieovo era stato pubblicato sul blog vedi il titolo Vite ai margini.


                                                             Franz Schmidt il boia di Norimberga
Per gran parte della lunga epoca medievale, esercitare un mestiere “infamante” portava a una riduzione, spesso consistente, dei diritti individuali e a una marginalizzazione della vita sociale. Ciò non accadeva solo in Italia, ma in tutti i Paesi della cristianità europea: in Francia, tali lavori si definivano con il termine latino illecites, mentre nell’aerea di lingua tedesca li si etichettava come unehrliched, disonorevoli. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un tipo d’infamia ipso iure,ossia un marchio che ricadeva sul soggetto nel momento stesso in cui costui iniziava a praticare l’attività degradante, senza bisogno di alcun processo. Sant’Agostino, elaborando una sintesi tra mestieri infamanti del diritto romano e quelli identificati dalla religione ufficiale del tardo Impero, distingueva tra occupazioni infami (come ladro, cocchiere, gladiatore, commediante) poco onorevoli (quasi tutte legate al commercio) e quelle che invece permettevano di mantenere l’onestà morale come agricoltore, e artigiano. Nei secoli successivi alla caduta di Roma, però il numero di mestieri infamanti divenne molto più ampio. Città e campagne medievali erano infatti molto gerarchizzate, e ancor più di quelle di età romana mostravano la tendenza a disegnare una piramide di categorie sociali. Alcuni studiosi hanno tentato di sistematizzare le varie specie dei mestieri infami, dividendoli essenzialmente in tre categorie. La prima comprendeva i lavori che avevano un qualche tipo di rapporto con il sangue, la morte e le deiezioni: parliamo di becchini,boia, scuoiatori, barbieri (che spesso erano anche chirurghi), macellai e così via.
Chi esercitava questi mestieri lavorava a stretto contatto con cose sporche, immonde, che segnavano per sempre chi se ne occupava. Gli appartenenti al secondo gruppo, invece, si macchiavano con il guadagno ottenuto attraverso l’esposizione o la vendita del proprio corpo. In questa categoria ricadevano, com’è facile immaginare, le prostitute, ma anche gli attori e i commedianti. Quanto al terzo tipo di mestieri infamanti, esser era composto da mendicanti, girovaghi e scapestrati, ossia coloro che oggi definiremmo “senza fissa dimora”. L’esempio più utilizzato, sia nelle fonti dell’epoca che nella storiografia odierna, per definire le caratteristiche del mestiere infamante è quello del boia. In Germania, l’esecutore capitale doveva provenire da un nucleo familiare con una tradizione in tal senso: in pratica, il figlio di un boia nasceva con il marchio d’infamia già cucito sulla pelle. Inoltre, egli adempiva spesso ad altri compiti degradanti che avevano poco a che fare con il suo ruolo fondamentale, come pulire le strade o controllare l’andamento delle case di tolleranza. Queste ultime rappresentavano, a propria volta, un covo di persone infami: le prostitute diventavano tali non appena iniziavano a esercitare la professione, così come chi le sfruttava, ossia i lenoni.

prostitute in un bordello nel medioevo
Il Gesù descritto nei Vangeli ha un atteggiamento molto personale nei confronti delle prostitute, non solo le tratta gentilmente ma fa di loro addirittura un esempio di fede: "In verità vi dico, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli" (Matteo 21.31). Nel cristianesimo delle origini la prostituta è colpevole di un grave errore morale, ma può essere salvata dalla fede: "... neanche io ti condanno. Va e non peccare più. La tua fede ti ha salvata."
Durante il Medioevo, la prostituzione si poteva comunemente ritrovare nei contesti urbani. Anche se tutte le forme di attività sessuale al di fuori del matrimonio sono stati considerati come peccaminoso dalla Chiesa Cattolica Romana, la prostituzione era di fatto tollerata (seppur in maniera riluttante) perché si riteneva evitasse mali maggiori come lo stupro, la sodomia e la masturbazione[18]; nonostante ciò erano molti i canonisti che premevano ed esortavano le prostitute a convertirsi e cambiare vita.
Molti governi cittadini stabilirono che le prostitute non dovessero esercitare il loro mestiere all'interno delle mura cittadine, ma solamente al di fuori della giurisdizione comunale; in varie regioni francesi e tedesche si adibirono certe strade come aree in cui la prostituzione era consentita. A Londra i bordelli di Southwark erano di proprietà del vescovo di Winchester[19].

epigrafe che prescrive il divieto della prostituzione in via di Castelvecchio aSiena, datata 12 agosto 1704
In seguito divenne pratica comune nelle grandi città dell'Europa del Sud di istituire bordelli sotto il controllo delle autorità, vietando al contempo qualsiasi forma di prostituzione svolta al di fuori di tali locali; l'atteggiamento a cui ci si atteneva maggiormente in gran parte dell'Europa del nord era invece quello del laissez faire[20]. La prostituzione trovò infine un mercato molto fruttuoso durante tutto il periodo delle Crociate


La dinastia dei boia.
Le vicende relative alla trasmissibilità dell’infamia sono ben spiegate  da un episodio avvenuto nella Germania di metà Cinquecento. Nel 1553, dopo aver preso la città bavarese di Hof, il condottiero tedesco Albrecht II di Alcibiades decise di mettere a morte tre armaioli locali che avevano complottato per ucciderlo. Invocando un’antica tradizione cittadina, ordinò che a eseguire fosse una delle persone presenti nella piazza. Tra tutti indicò un tale  Heinrich Schimidt. Per capire il motivo della scelta bisogna andare indietro nel tempo, a un episodio che aveva avuto come protagonista Peter Schmidt, padre di Heinrich, e il suocero Gunther Bergner (Peter aveva sposato la figlia di Gunther). A causa di alcuni problemi con la giustizia, quest’ultimo aveva ricevuto un marchio d’infamia formale e la messa ala bando di tutti i mestieri.  Era diventato quindi boia, mentre Peter Schmidt aveva continuato a esercitare il suo mestiere, così come il figlio Heinrich. Qualche decennio dopo, in quel di Hof,qualcuno indicò proprio quest’ultimo ad Alcibiades, ricordandogli che in fondo, avrebbe potuto avere qualche conoscenza del mestiere.
Heinrich supplicò Alcibiades di non costringerlo a eseguire una condanna a morte, gettando l’infamia su tutta la sua famiglia, ma il condottiero fu irremovibile. La più importante dinastia di carnefici della Germania ebbe così inizio: Heinrich passò infatti il mestiere al figlio Franz, che divenne il più rinomato boia dei Paesi tedeschi.    .
  
DI PADRE IN FIGLIO. I mestieri infami erano comunque fondamentali per l’organizzazione di città, campagne e villaggi. Gli studiosi si sono spesso soffermati sulla dicotomia tra le parole mestiere, che si presenta come intrinsecamente virtuosa, e infamante, aggettivo del tutto negativo. In questa ambigua locazione sta tutta la contraddittorietà di un’epoca che accettava, e anzi cercava di inserire nel proprio disegno etico e sociale, ruoli e soggetti che risultavano al contempo indispensabili e rivoltanti. Non si trattava, infatti di persone che praticavano attività criminali o fuorilegge, come i briganti o i ladri, bensì di uomini e donne impegnati in lavori socialmente utili per quanto intrinsecamente ripugnati e disdicevoli. 
Marchiare come infame una persona era anche un modo per circoscrivere l’esercizio delle pratiche più degradanti all’interno di un certo gruppo sociale, senza contaminare l’intera comunità. L’infamia passava di padre in figlio: così come spesso i buoni natali erano fondamentali per entrare in una corporazione, nell’ordine ecclesiastico o al servizio di qualche potente locale, altrettanto accadeva per le pratiche indesiderabili. Attorno a figure reputate infami ve n’erano altre la cui fortuna dipendeva dalle consuetudini, dagli usi e dalle leggi locali. A volte si trattava di diventare bersaglio di un pregiudizio culturale ed esser considerati, usando una locuzione latina, personae viles et abiectae; altre volte, invece, si veniva legalmente privati di alcuni diritti  parliamo sempre di professioni in cui il contatto con le impurità, sia organiche (umane o animali) che inorganiche, si trasmetteva dall’oggetto al soggetto. Soprattutto le secrezioni corporee umane portavano a una contaminazione fisica e spirituale irrimediabile. Nella lunga e mutevole scala di grigi che andava dagli infami alle personae vilies et abiectae, rientrarono, a seconda dei tempi e dei luoghi, macellai, custodi di bagni pubblici, musicisti, acrobati, buffoni e diverse altre categorie di professioni. L’esclusione sociale si manifestava anche nell’impossibilità di formare una propria corporazione, in un’epoca (specie fra il Due e il Seicento) in cui tali gilde formavano il vero volano economico nella maggior parte dei Paesi europei.
Una delle testimonianze più interessanti in materia di mestieri medievali e rinascimentali è la piazza universale di tutte le professioni del mondo, un volume scritto da Tommaso Garzoni nel 1585. Si tratta di un’opera ricca di dettagli e considerazioni sul lavoro dell’uomo. Quando si parla di degradazione l’autore non usa mezzi termini: dedica un intero paragrafo a chi ha a che fare con escrementi, latrine e pozzi neri che, allora come oggi, andavano svuotati a intervalli regolari per evitare che il contenuto tracimasse: di ciò si occupavano i cavatori di pozzi o “purgatori”. L’autore è quasi dispiaciuto che debbano esistere persone di tal genere, ma afferma che si tratta pur sempre di pozzi, dove gettare le deiezioni. Ancora peggiori sono, per Garzoni, i ‘curadestri’ (in latino Purgatores latrina rum), che provengono dalla “peggiore feccia del volgo”. A differenza dei cavatori a costoro toccava svuotare le latrine pubbliche. In alcune piazze e vie c’erano infatti angoli preposti all’espletazione dei bisogni corporali, e probabilmente bastavano poche ore affinché si creassero accumuli nauseabondi che andavano rimossi. Garzoni è, in questo caso, esplicito quando scrive che i “I curadestri che col solo nome putiscono (puzzano) da sterco per ogni banda, non dovrebbero venire in questa piazza ad ammorbare tanta honorata gente, come in essa si ritrova; ma perché anco in piazza vi son de’ luoghi acconci per loro, gli assegneremo i canti del piscio remotissimo dal luogo, ove passeggia la nobiltà per non imbrattare con le loro toghe de’ dottori, o le spade dei soldati, che vanno volentieri sguzzando per terra a rischio ogn’ora di pigliar su qualche immondizia, come quella de’ curadestri”.
Si tratta della ripugnanza morale di cui abbiamo parlato all’inizio che confinava questi soggetti ai margini della vita cittadini non solo in senso lato, ma anche in senso stretto: erano letteralmente indegni di calpestare la stessa terra dei ceti superiori. Ed è per questo motivo che, nel passo di cui sopra,  l’autore parla espressamente della necessità di relegarli ai “cantoni del piscio”.  Prima dei poveri cura destri, Garzoni parla di un’altra categoria: “A quei mestieri, che han del vile, e del sordido assai, si può numerare ancor il mestiero de’ spazzacamini (…). È parimenti huomo di maloaugurio, perché per il più è nato questo, che, quando i Spazzacamini vanno in volta ,il tempo si conturba, quasi che il cielo di sdegni di ricevere il fumo, e la caligine, che da’ camin leva il rasciatore della spelonca fumicosa per sua onta, e dispetto”. Ancora una volta, sono il contatto con la sporcizia e l’aspetto volgare a disegnare un alone di disgrazia intorno a questi soggetti. E non basta: gli spazzacamini, nell’immaginario comune registrato dall’autore, portano anche sforno e sono, di fatto, invisi al cielo per i fumi che gli levano contro. E il cielo, nel Medioevo, ha uno stretto rapporto con il divino.

Senzatetto in uniforme
In Spagna, come altrove, le professioni considerate infamanti furono condannate e emarginate in vario modo. Basti pensare che un’ordinanza reale comminava una pena consistente ai vagabondi, corrispondente a 8 anni di servizio nell’Esercito o in Marina.
Le caratteristiche distintive del vagabondo venivano specificate nell’ordinanza stessa: chi, senza motivo plausibile, rendeva sua moglie infelice così da provocare scandalo pubblico (e quindi chi abbandonava il tetto coniugale per un certo periodo), chi esercitava il mestiere di giocatore o saltimbanco; i mercanti foranei che percorrevano il Paese vendendo ciambelle,, confetti ecc. Com’è facile da immaginare, si trattava di una norma che non definiva in modo esaustivo la figura del vagabondo, mettendosi all’arbitrio del giudice. Provvedimenti simili furono comuni fino al Novecento inoltrato.


STREGATI DA UNA BALIA. A ricevere il marchio d’infamia sono anche mestieri del tutto insospettabili, almeno nei nostri giorni. nella Piazza universale troviamo gravi accuse nei confronti di balie e nutrici: “Fra gli altri loro difetti ce n’è uno gravissimo, che qualche volta ammaliano i fanciulli (nel senso di “fare una malia o un maleficio” come le streghe che sono, e li fascinano in modo che, con dolore estremo delle madri, e furore infinito dei padri, passano miseramente di questa vita. E altre, come maledette furie infernali gli ammaccono il cervello, o gli succhiano il sangue, o gli sorbiscono il fiato, con pietà immensa veramente di quelle povere e infelici creature”. Ma non è solo l’Europa cristiana a prevedere un marchio d’infamia per questo o quel mestiere. Anche nelle città islamiche, dall’altro lato del Mediterraneo, esistevano lavori considerati ripugnanti. L’usuraio, per esempio, era moralmente condannato (così come in Europa, dove però la sua colpa era di carattere personale), così come i venditori di vino o di maiale, i cantori e le cantanti, i commedianti, le ballerine, i lottatori, i macellai, i cacciatori. A parte le ovvie differenze dovute alle prescrizioni contenute nel Corano, c’era una certa omogeneità, quindi, tra i mestieri infami e disprezzati in Europa e nell’Islam: l’esibizione del corpo e il contatto con sangue e feci (umane e animali) portava spesso alla discriminazione sociale. Allo stesso modo, la mancanza di una residenza fissa faceva sospettare alle autorità civili e religiose, una simmetrica mancanza di moralità e di principi. La società medievale vedeva nei rapporti gerarchici, sia tra le famiglie che tra le varie componenti della comunità, i momenti fondamentali per la costruzione di quella regolarità e quell’ordine che permettevano alla società di procedere correttamente. Viandanti e artisti itineranti rappresentavano l’esatto contrario: la mancanza di legami, di stabilità nei rapporti e nella vita sociale. Anche in questo caso, ci viene in soccorso, con la sua testimonianza diretta, Tommaso Garzoni. Gli attori, sia comici che tragici, vengono considerata alla stregua di cialtroni e buffoni; colpevoli, oltretutto, di essere diventati molto peggiori, quanto a volgarità e scherno, rispetto ai loro omologhi latini. Ma sono i buffoni a ricevere le critiche maggiori: “Ora nei moderni tempi la buffoneria è salito in pregio, che le tavole signorili son più ingombre di buffoni, che di alcuna specie di virtuosi (…) non arrossisce il buffone a vedersi nell’alta catedra, perché tra le altre cose, non conosce cosa sia la vergogna, e sebbene porta le bolle alla fronte dell’infamia, reputa un sommo onore essere circondato da tante persone per virtù famose” (vedi articolo su questo blog c’è poco da ridere).


Articolo in gran parte di Gabriele Campagnano storico medievista pubblicato su Medioevo misterioso Sprea Editori.   

giovedì 13 settembre 2018

La conquista del Polo Nord - il Polo della discordia - la spedizione di Nobile

La conquista del Polo Nord. – Il polo della discordia: la spedizione di Nobile
Nel XIX secolo vari esploratori si avventurarono oltre il circolo polare artico alla ricerca del punto più settentrionale del pianeta. Lo statunitense Robert Peary disse di averlo raggiunto nel 1909.


Il carattere inospitale delle regioni polari ha rappresentato per millenni una barriera praticamente insormontabile per gli esseri umani. Solo piccole comunità di eschimesi si erano stabiliti nelle aree periferiche del Polo Nord, ma la loro misera esistenza non offriva nessuna attrattiva commerciale ai mercanti provenienti da altre latitudini.
E così le zone artiche rimasero isolate e inesplorate per secoli. Fino a che la presenza di un gran numero di cetacei nei mari circostanti non risvegliò le attenzioni dell’industria baleniera. Ma per quanto i cacciatori di balene si avvicinassero ai confini di quel mondo gelato alla ricerca di prede, nessuno proseguiva verso nord. Che senso aveva? Il polo era una semplice chimera geografica, un punto situato a 90° esatti di latitudine senza alcun valore reale, lontanissimo dalle necessità concrete dell’esistenza quotidiana. Alla fine del XVIII secolo questa situazione cambiò. Da un lato non erano più solo i mercanti ad avere interesse per la navigazione: anche i governi organizzavano spedizioni militari in funzione dei propri obiettivi geostrategici. Dall’altro la scienza assunse un protagonismo crescente nelle esplorazioni. Ebbe ruoli di primo piano anche l’opinione pubblica, che iniziò a dimostrare curiosità per le avventure geografiche, in particolare per quelle che si svolgevano tra i ghiacci, cioè nell’ambiente più inospitale del piante.
Fu in questo contesto che la Gran Bretagna – all’epoca potenza egemone – intraprese una serie di spedizioni polari. Molte di queste non avevano uno specifico interesse per il polo in sé. ,a miravano a raggiungere lo stretto di Bering attraverso il mar Glaciale Artico, ce secondo le credenze del tempo era un oceano aperto circondato da una cintura di ghiaccio. Gli inglesi non ottennero però i risultati sperati. La banchisa bloccava l’avanzata delle navi, e i marinai che decidevano di lasciare le imbarcazioni per proseguire in slitta scoprivano con stupore che la massa di ghiaccio su cui avanzavano faticosamente si muoveva spesso in direzione opposta alla loro. Quando si fermavano a riposare, la deriva della superficie gelata li sospingeva all’indietro, come se stessero camminando su un tapis roulant.

1852-1909: la corsa verso il Polo Nord

Il tentativo di ritrovare la spedizione di Franklin, scomparsa nel 1845 mentre cercava il mitico Passaggio a nord-ovest, alimentò l’interesse per l’esplorazione dell’Artico e la conquista del polo.

1852: il britannico Inglefield ha l’idea peregrina di raggiungere il polo risalendo il canale di Smith, tra l’isola di Ellesmere e la Groenlandia, alla ricerca di Franklin
1853-1870: Molti esploratori approfittano dei tentativi di trovare Franklin per studiare la regione. Alcuni sostengono di aver visto un mare aperto in direzione del Polo.
1871-1873: L’imprenditore di Cincinnati Charles Francis Hall arriva a 82°11’ di latitudine. Alla sua morte, la spedizione finisce nel caos e viene salvata dopo sei mesi alla deriva su un iceberg.  
1872-1874: Mentre cerca un accesso all’Artico tramite la corrente del Golfo, una spedizione austro-ungarica scopre alcune isole sconosciute: la Terra di Francesco Giuseppe.
1875-1876. Georges Nares risale il canale di Smith sulla Alert, che resta intrappolata tra i ghiacci. La spedizione prosegue in slitta raggiungendo gli 83°20’.
1879-1881: Nel tentativo di raggiungere il polo dallo stretto di Bering, George De Long naufraga a bordo della Jeannette. Venti uomini, tra cui De Long, muoiono nel delta del Lena.
1882-1884: L’ufficiale statunitense Adolfo Greely e la sua squadra scientifica arrivano fino agli 83°23’. Solo sei dei 25 membri della spedizione sopravvivono al durissimo viaggio di ritorno.
1893-1896: Fridjof Nansen tenta di raggiungere il polo sulla Fram, facendosi portare alla deriva dalla corrente artica. Quindi tenta di proseguire con le slitte e gli sci, ma si ferma a 86°33’.
1899-1900: L’italiano Umberto Cagni, a capo di una spedizione italiana in partenza dalla Terra di Francesco Giuseppe, stabilisce un nuovo record di latitudine raggiungendo gli 86°33’.
1909: Peary e (l’anno prima) Cook rivendicano di essere stati i primi a mettere piede al polo. Il merito viene riconosciuto a Peary. Entrambi i loro resoconti presentano delle lacune.

La spedizione perduta di Franklin fu un viaggio di esplorazione artica guidato dal Capitano Sir John Franklin partito dall'Inghilterra nel 1845. Franklin, ufficiale della Marina britannica ed esperto esploratore, aveva già preso parte a tre precedenti spedizioni artiche, le ultime due come comandante in capo. Con la sua quarta e ultima, che intraprese all'età di cinquantanove anni, si proponeva di attraversare l'ultimo tratto, fino ad allora mai percorso da nessuno, del passaggio a nord-ovest. Dopo alcune traversie le due imbarcazioni sotto il suo comando rimasero bloccate dai ghiacci nello stretto di Vittoria, nei pressi dell'Isola di Re William nell'artico canadese. Tutti i membri della spedizione, Franklin e 128 uomini, non furono mai più ritrovati.
Oggetti ritrovati dai soccorritori facenti parte dell'equipaggiamento della spedizione Franklin del 1845, disegno tratto dall'Illustrated London News1854.


ALLA RICERCA DI FRANKLIN. La maggior parte delle spedizioni britanniche aveva come obiettivo individuare il Passaggio a nord-ovest, ovvero la rotta che metteva in comunicazione l’Atlantico con il Pacifico. Nel 1845 una flotta composta da due navi e oltre un centinaio di uomini agli ordini di Sir John Franklin scomparve nel nulla. La tragedia creò una forte mobilitazione nella società anglosassone, e nel giro di una decina di anni più di cento imbarcazioni salparono alla ricerca dei dispersi. Alcune di queste missioni di soccorso furono organizzate dalla marina britannica, altre da facoltosi cittadini statunitensi o inglesi che armarono delle navi per esplorare il dedalo di isole e canali dell’Artico canadese nel vano sforzo di rintracciare i naufraghi.
Normalmente il comandante di un’imbarcazione deve attenersi scrupolosamente alle istruzioni ricevute, tanto nel caso di spedizioni militari quanto di viaggi commerciali. Ma se l’obiettivo della navigazione è la ricerca di superstiti, esiste un certo margine di manovra che non sarebbe consentito nelle situazioni precedenti. Fu così che nel 1852 Edward Inglefield, capitano di una delle navi coinvolte nelle operazioni di soccorso, pensò di cercare i sopravvissuti lungo il canale di Smith, tra la costa occidentale della Groenlandia e l’isola di Ellesmere. Secondo quanto dichiarò in seguito, una volta lì “ebbe l’idea peregrina di raggiungere il polo”. Ma non riuscì né a trovare le imbarcazioni disperse, né ad arrivare ai 90° di latitudine, perché il ghiaccio gli impedì di proseguire. Ma disse di aver visto un mare aprirsi davanti a sé in direzione nord.

Edward Augustus Inglefield Phoenix and Breadalbane in Melville Bay

Sempre più a nord.
A partire dal 1871 le spedizioni per la rotta americana di Hall, Nares e Greely si avvicinarono sempre di più al polo, ma fu Peary a raggiungere la meta. La Jeanette rimase intrappolata tra i ghiacci per poi affondare dopo mesi alla deriva. Quando i suoi resti furono ritrovati dall’altro lato della calotta polare, Nansen progettò una spedizione che arrivò vicinissimo al polo e fu poi superata da quella di Cagni. Il britannico Herbert fu il primo a raggiungere incontestabilmente il polo a piedi.
Una porta aperta?
Nel 1852 il piroscafo britannico Isabel, agli ordini del comandante Edward Inglefield, si addentrò nella zona del canale tra la Groenlandia e l’isola di Ellesmere (Canada), che fino ad allora si riteneva senza sbocchi. A 78° di latitudine il piroscafo fu costretto a rientrare, ma ormai aveva scoperto una rotta verso nord che successivamente sarebbe stata utilizzata da altri esploratori polari.
   
IL SOGNO DEL MAR GLACIALE ARTICO. Molti avventurieri statunitensi ritennero che attraverso quello stretto fosse possibile accedere a un mare aperto e raggiungere il Polo Nord, e trovarono alcuni facoltosi magnati disposti a finanziare le loro ambizioni di gloria. Nel ventennio successivo varie spedizioni nordamericane tentarono di avanzare lungo il canale di Smith. Nonostante le continue avversità e la strenua lotta contro il freddo, la fame e lo sfinimento, riuscirono ad avvicinarsi sempre di più all’estremo nord. Ma alla fine le navi venivano invariabilmente bloccate o affondate da quella spietata distesa di ghiaccio e gli equipaggi, scoraggiati, erano costretti a tornar indietro a bordo di fragili scialuppe o ad attendere i soccorsi su un iceberg alla deriva.
Sul fronte europeo, tra il 1869 e il 1870, una spedizione tedesca cercò senza fortuna di dimostrare la tesi di August Petermann: il celebre geografo sosteneva che la corrente del golfo del Messico  penetrava fino al centro dell’Artico, facendosi strada tra i ghiacci grazie alla temperatura delle sue acque. Nonostante il fallimento della missione, due anni più tardi una nave battente bandiera austroungarica ritentò l’impresa. All’inizio tutto sembrò andare al meglio: la corrente effettivamente esisteva. Ma ben presto i ricercatori si resero conto che non era sufficientemente calda. La spedizione durò circa 27 mesi. Fu in quell’occasione che l’equipaggio scoprì un arcipelago fino ad allora sconosciuto, che fu ribattezzato Terra di Francesco Giuseppe, in onore dell’imperatore asburgico. Purtroppo l’imbarcazione si schiantò sulle coste di un’isola, e per salvarsi i membri della spedizione dovettero caricare le scialuppe di salvataggio su slitte e trainarle in direzione sud. Fu un’operazione ardua e frustante, perché la corrente marina spingeva la massa di ghiaccio su cui procedevano in senso opposto al loro, ossia verso nord. Dopo due mesi di marcia sfiancante si erano avvicinate alle coste di neanche 28 chilometri. Fortunatamente alla fine raggiunsero il mare aperto e riuscirono ad arrivare in Russia dove furono soccorsi da un peschereccio.

Un percorso lungo e duro. Quando una nave veniva bloccata dalla banchisa (la superficie dei ghiacci marini delle zone polari), l’equipaggio trascorreva mesi in condizioni durissime, in attesa di riuscire ad allontanarsi a bordo delle scialuppe o ricevere soccorso.

Un oceano congelato. Quando l’Alert raggiunse gli 82° di latitudine, George Nares scrisse: “Non si vedeva altro che ghiaccio compatto e invalicabile (…) che neppure con molta fantasia poteva assomigliare a un mare aperto”. Dopo aver trascorso l’inverno in una baia bloccati dal gelo e tormentati dallo scorbuto, nell’estate del 1876 i membri dell’equipaggio si aprirono una breccia segando il ghiaccio che li circondava e si diressero verso sud.

 
La Alert bloccata dai ghiacci nel 1876
Tentativi falliti: L’italiano Umberto Cagni cercò di raggiungere il polo in slitta, mentre lo svedese Salomon August Andrée ci provò in mongolfiera. Fallirono entrambi, ma Cagni riuscì a sopravvivere mentre Andrée morì lungo il viaggio di ritorno. La spedizione in mongolfiera avvenne nel 1897. I corpi dei tre svedesi furono ritrovati nel 1930 accanto ad appunti e immagini che rivelarono che avevano avuto un incidente poco dopo la partenza ed erano morti cercando la via del ritorno. Invece Cagni, dopo aver battuto d 37 chilometri il record di Nansen, il 24 aprile 1900 decise di tornare indietro. “Spero che non sia così lontano il giorno in cui si svelerà il mistero delle regioni artiche”, scrisse. Quel giorno la temperatura era di -51°C.

La nave Stella Polare, 1899
Aspettando la morte. “Stiamo morendo…come uomini. ho raggiunto il mio obiettivo…Battere il record”. Furono queste le parole di un Adolphus Greely praticamente moribondo quando fu ritrovato nel 1884. 18 dei 25 membri dell’equipaggio erano deceduti, e un altro morì lungo il cammino di ritorno. Gli uomini erano sopravvissuti in una tenda nutrendosi delle carni dei compagni morti. 


Nansen: mille giorni tra i ghiacci.  Nel 1893 Fridtjof Nansen si imbarcò sulla Fram per un viaggio che secondo i suoi calcoli sarebbe durato cinque anni. Lasciò che la nave fosse imprigionata dai ghiacci nella speranza che la corrente lo trascinasse fino al polo. Dopo 18 mesi alla deriva decise di proseguire a piedi insieme a Fredrik Hjalmar Johansen. I due raggiunsero gli 86° di latitudine l’8 aprile 1895, poi tornarono indietro, prima in slitta e quindi in canoa fino alla Terra di Francesco Giuseppe. Rientrarono in Norvegia nell’agosto del 1896.
Rotta di Nansen il 1888.


Peary raggiunse il Polo Nord? Dopo varie spedizioni fallite, nel 1909 Roberto Peary effettuò il   suo ultimo tentativo di raggiungere il punto più settentrionale del globo. Percorse i mille chilometri che separano l’isola di Ellesmere dal polo in 37 giorni, e al suo ritorno ricevette gli onori che aveva ossessivamente cercato. Ma le sue misurazione imprecise e i tempi relativamente brevi in cui percorse distanze lunghissime sollevano ancora oggi dubbi sull’attendibilità del suo resoconto. La spedizione era formata da un piccolo gruppo che dipendeva dall’aiuto dei nativi. Gli eschimesi fecero strada alle slitte con i loro cani e spiegarono agli statunitensi le proprie tecniche per sopravvivere alla lunga notte polare. Peary puntò sulla rotta americana: risalì in nave il canale di Smith e il successivo canale di Nares, e quindi dal nord di Ellesmere continuò in slitta. L’inizio fu difficile, ma le condizioni meteorologiche erano favorevoli, e il ghiaccio piatto e omogeneo. Il 6 aprile 1909 Peary raggiunse il traguardo con altri cinque uomini. solo lui sapeva calcolare la latitudine e molti ricercatori dubitano delle sue misurazioni. La velocità con cui la spedizione percorse il tragitto di ritorno getta ulteriori ombre sull’impresa.
Roberto Ediwin Peary (1856-1920) era un uomo alto e corpulento, dai baffi folti, secondo la sua stessa definizione, ed era anche un nuotatore infaticabile e un cavallerizzo provetto. Di carattere ostinato, in un’occasione dichiarò: “Non voglio morire senza che il mio nome sia conosciuto al di fuori di un ristretto circolo di amici”.
Robert Edwin Peary

LA SPEDIZIONE DI NARES. In Inghilterra il fallimento della spedizione di Franklin, e soprattutto l’emergere di prove di episodi di cannibalismo tra i membri dell’equipaggio, aveva generato nella società una certa diffidenza verso le questioni polari. Se non addirittura un’aperta avversione. Tuttavia la marina britannica guardava con timore i progressi statunitensi e voleva dimostrare di essere ancora la potenza egemone nella zona artica. Nel 1875 inviò una spedizione agli ordini del capitano George Nanres, iniziata in modo particolarmente promettente. L’Alert percorse il canale di Smith, oltrepassò lo stretto che da allora porta il nome di Nares e trascorse l’inverno alla latitudine più settentrionale mai toccata da essere umano. Ma da quel momento in poi le cose cominciarono ad andare storte. Se le spedizioni statunitensi utilizzavano i cani per il traino delle slitte (come facevano gli eschimesi), i britannici decisero di ignorare le conoscenze dei nativi e di trainare le slitte loro stesi, senza l’ausilio degli animali. A complicare ulteriormente la situazione ci pensò lo scorbuto, che costrinse gli esploratori a fare marcia indietro dopo aver raggiunto tra immani sforzi gli 83°20’ (e quando mancavano ancora 700 chilometri all’obiettivo finale). Uno di loro riassunse la vicenda affermando “che il Mar Glaciale Artico aperto esisteva soltanto nella testa di alcuni geografi folli e il polo era assolutamente irraggiungibile”. Nel 1881 una spedizione scientifica statunitense condotta da Adolphus Greely non seppe resistere alla tentazione di battere il record inglese, per quanto vi riuscì di soli sette chilometri. Il prezzo pagato fu eccessivo per un risultato così modesto: solo sei dei 25 membri dell’equipaggio, tra cui lo stesso capitano, rientrarono vivi. Sempre in campo statunitense, l’editore del New York Herald decise di patrocinare una sua spedizione verso il Polo Nord, memore del successo che aveva rappresentato per il giornale l’invio di Stanley alla ricerca di Livingstone in Africa centrale. Nel 1879 la Jeanette, agli ordini di George De Long, penetrò nel Mar Glaciale Artico attraverso lo stretto di Bering, con l’intenzione di lasciarsi trasportare verso nord dalla Kuroshio, una corrente calda di origine tropicale del Pacifico.
Non servirono a molto gli avvertimenti dei balenieri della zona, che conoscevano per esperienza la scarsa forza della corrente e la pericolosità di quel mare. Dopo essersi inoltrata nelle fredde acque polari, la nave si ritrovò imprigionata tra i ghiacci e affondò nel giro di due anni. I membri della spedizione furono costretti a trascinare le scialuppe lungo la banchisa, fino a quando non trovarono condizioni favorevoli per poterle rimettere in acqua. Solo un terzo dell’equipaggio sopravvisse all’odissea e riuscì a raggiungere lo coste della Siberia nell’autunno del 1891.
Tre anni dopo il relitto della Jeanette fu inaspettatamente localizzato lungo le coste della Groenlandia. Questa scoperta spinse lo scienziato ed esploratore norvegese Fridtjof Nansen a ipotizzare l’esistenza di una corrente marina che attraversava tutto il mar Glaciale Artico. Secondo questa teoria, un’imbarcazione che fosse stata intrappolata dai ghiacci nella zona dove era affondata la nave statunitense avrebbe attraversato tutto l’Artico ala deriva passando per il Polo Nord.

L’ODISSEA DI NANSEN. Nansen decise di provare a dimostrare la sua teoria. A questo scopo progettò una nave con uno scafo in grado di sopportare l’urto dei ghiacci, che chiamò Fram (avanti). La traversata iniziò nel 1893. Inizialmente l’imbarcazione resse bene alla pressione della banchisa e fu trascinata dalla corrente marina nella direzione sperata. Ma, dopo più di un anno alla deriva, l’esploratore si rese conto che la rotta non lo stava portando verso il Polo Nord. A quel punto, come altri prima di lui, Nansen si lasciò sedurre dal canto delle sirene polari e decise di abbandonare la Fram per proseguire a piedi. Non riuscì a raggiungere il polo, anche se batté il record precedente di 300 chilometri. Il suo viaggio di ritorno, durato oltre un anno, rappresenta una delle imprese più straordinarie nella storia delle missioni poliari.
Sei anni dopo l’avventura della Fram, una spedizione italiana diretta da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, riuscì a migliorare il risultato del norvegese. Un gruppo capitanato da Umberto Cagni partì dalla terra di Francesco Giuseppe, a nord della Russia, e dopo aver superato numerose avversità si fermò a 381 chilometri dal polo. Sembrava ormai chiaro che quel mitico punto geografico non era raggiungibile dall’Europa. L’attenzione si spostò verso le coste nordoccidentali della Groenlandia, da dove passava la rotta degli esploratori statunitensi. Uno di loro, Robert Peary, tentava ormai da anni di raggiungere i leggendari 90° gradi di latitudine nord. Se risalire le coste della Groenlandia era già di per sé difficile, la parte più scoraggiante iniziava dopo, quando le spedizioni si trovavano di fronte l’oceano Polare congelato. Le correnti marine spostavano di continuo la banchisa, e pertanto era impossibile lasciare scorte di cibo o di materiali per il ritorno. Inoltre, le imbarcazioni erano costrette di continuo ad aggirare i canali che si aprivano sui banchi di ghiaccio a causa della deriva, o ad attendere che le acque tornassero a congelarsi. Con uno sforzo encomiabile l’esploratore statunitense fece sei tentativi di arrivare al polo in 18 anni. Apprese le tecniche di sopravvivenza degli eschimesi e riuscì a migliorare i suoi risultati a ogni missione. Finalmente, il 6 aprile 1909 toccò il punto più settentrionale del globo.

LA POLEMICA DEL POLO. Al ritorno, Peary scoprì che un suo compatriota, Frederick Cook, sosteneva di aver compiuto l’impresa un anno prima di lui. Inizialmente Cook fu ricevuto come un eroe, ma a poco a poco nel suo resoconto emersero incongruenze e lacune che ne misero in dubbio l’attendibilità. Il rapporto di Peary era più credibile, ma comunque non esente da zone d’ombra: l’assenza di misurazioni precise e un’eccessiva rapidità di spostamento sul ghiaccio (circa il quadruplo di quella abituale) insospettirono molti specialisti. Oggi la maggioranza degli esperti ritiene che né Cook né Peary abbiano toccato il Polo, anche se entrambi hanno folte schiere di sostenitori pronti a difendere con passione le rispettive versioni. In ogni caso, per anni nessuno tentò di ripetere l’impresa. Nel 1926 Umberto Nobile (vedi articolo sotto) fece una spedizione con il dirigibile Norge, cui seguì un’altra, due anni dopo, con l’Italia, che si schiantò sui ghiacci. In quest’occasione fu organizzata una tra le prime spedizioni di soccorso polare per cercare i superstiti che, nel frattempo, avevano trovato riparo nella cosiddetta “tenda rossa”. Roald Amundesn, invece, morì nel tentativo di salvataggio.
Nel 1948, in piena guerra fredda, Stalin decise di giocare d’anticipo sul sottomarino statunitense Nautilus, che doveva arrivare ai 90° di latitudine nord navigando al di sotto della banchisa. La squadra agli ordini del colonnello Aleksandr Kuzbecov si fece lasciare da un aereo nelle vicinanze del Polo e fu la prima a raggiungerlo in maniera incontestabile.  In seguito le spedizioni polari passarono di moda, fino a quando, il 6 aprile 1969 l’esploratore britannico Wally Herbert attraversò in solitaria tutto l’Artico diventando la prima persona a poter documentare in modo certo di essere arrivato al Polo Nord a piedi. Il sogno di decine di spedizioni si era finalmente realizzato, dopo quasi due secoli di vicissitudini.
Al giorno d’oggi le cose sono molto più facili: ormai da anni i turisti attraversano l’Artico su aerei e navi rompighiaccio, per poter documentare di aver raggiunto il punto più settentrionale della terra.

Articolo in gran parte di Javier Cacho Scienziato scritto pubblicato da STORICA NATIONAL GEOGRAPICH del mese di agosto 2018 – altri testi e immagini da Wikipedia.

Il Polo della discordia – La spedizione di Nobile.

Roald Amundsen 
Il cipiglio dell’esploratore norvegese Roald Amundsen, nel busto che troneggia al centro di Ny-Alesund (un insediamento artico nell’isolo di Spitsbergen, Svalbard) è cupo. Ha tutte le ragioni per essere contrariato: è la vittima più illustre della sventurata missione di Umberto Nobile, che 90 anni fa precipitò al Polo con il suo dirigibile Italia. Morirono in 17: 8 membri dell’equipaggio e 9 soccorritori, tra i quali Amundsen, che era corso alla ricerca dei superstiti sebbene intrattenesse con il comandante Nobile rapporti di reciproca ostilità. Tanto il norvegese che l’italiano sono stati due personaggi mitici nella storia dell’esplorazione polare e dell’aeronautica. Insieme realizzarono l’impossibile per l’epoca: sorvolare il Polo. I loro destini si sono incrociati negli anni Venti del secolo scorso due volte.
Bundesarchiv Bild 102-05736, Stolp, Landung des Nordpol-Luftschiffes "Italia".jpg
 dirigibile Italia durante l'attracco a Stolp, inPomerania, una delle tappe intermedie nel viaggio verso il Polo Nord.


LA RIVALITA’. Roald Amundsen (1872-1928) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud nel 1911. e pochi anni prima, nel 1906, tenne il mondo col fiato sospeso mentre superava il famoso Passaggio a Nord-Ovest . poi, nel 1926 scrisse di nuovo la storia delle esplorazioni con un secondo record:fu il primo a sorvolare il Polo Nord. Merito di un dirigibile dal nome norvegese, Norge, ma finanziato dallo statunitense Lincoln Ellsworth e soprattutto ideato, costruito e comandato dall’ingegnere italiano Umberto Nobile (1885-1978). Nobile era un notissimo progettista, e Amundsen lo contattò dopo alcuni falliti tentativi di raggiungere il Polo Nord con l’idrovolante. Così, il 10 aprile 1926 la missione Amundsen-Ellsworth-Nobile Transpolar Flight decollò da Ciampino; il 7 maggio arrivò a Ny-Alesund, nella Baia del Re; il 12 maggio alle 1,30 raggiunse il Polo: uno sguardo alla distesa di ghiaccio dall’alto e via, fino all’Alaska. L’impresa fu un successo ma i rapporti fra i due furono un disastro.
Per farsi un’idea di come doveva essere il clima a bordo, basti dire che durante il lancio sul Polo delle bandiere italiana, norvegese e statunitense, si scoprì che il tricolore era molto più grande di quanto concordato. Amundsen diffidava di Nobile, anche perché si ritrovò relegato nel ruolo di passeggero, con il solo compito di guardare dal finestrino. Inoltre l’italiano gli impose parte dell’equipaggio e… la cagnetta Titina. Nobile, uomo da cerimonie e caffè e vestito in alta uniforme, ricambiava l’antipatia per quel nordico che girava in pelliccia, calzari foderati d’erba e pipa.
Nobile e la cagnetta Titina

La ricerca continua.
La vera continuità tra le avventure di ieri e di oggi si svolge a Ny-Alesund in un pugno di case, strade e lavoratori piantati in pieno Circolo Polare Artico: siamo nel più settentrionale insediamento umano permanente, 79° N di latitudine, un migliaio di km a sud del Polo e 1500 più in su della Norvegia. Se un secolo fa gli esploratori volevano capire cosa ci fosse nelle latitudini più remote della Terra, oggi gli scienziati lavorano per migliorare quelle conoscenze.
BASE ITALIANA. L’Italia è stabilmente presente in Artico dalla metà degli Anni ’90, quando   il Consiglio nazionale delle ricerche, aprì una stazione dedicata al dirigibile Italia, a poche centinaia di metri dal pilone di attracco delle vecchie avventure polari. “La nostra ricerca contribuisce ad aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici nella regione, anche al fine di mitigarne gli impatti a livello mondiale”, spiega il presidente del Cnr Massimo Inguscio. Soltanto nel 2018 la stazione artica sta portando avanti una ventina di progetti di ricerca in fisica dell’atmosfera, oceanografia e biologia marina, geologia e climatologia. Sempre quest’anno è stato istituito un Comitato scientifico artico presieduto dal rappresentante italiano nel Consiglio artico, Carmine Robustelli. I ricercatori lavorano per comprendere e contrastare i cambiamenti ambientali e climatici studiando il cosiddetto “amplificatore artico”: fenomeni quali la riduzione dei ghiacci, drammatica in termini di estensione, durata e spessore, e lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno ghiacciato che potrebbe liberare in atmosfera enormi quantità di metano, un gas serra ben più potente dell’anidride carbonica.  

TANTI NEMICI. Dopo la missione, per Amundsen cominciò un periodo di depressione, mentre Nobile venne accolto come un eroe da Mussolini, che gli appuntò una medaglia, lo abbracciò e lo promosse generale a soli 41 anni. Ma Nobile aveva anche parecchi nemici, come fu chiaro poco dopo quando il generale iniziò a progettare una nuova missione polare.
Il più ostile di tutti era il comandante dell’aviazione Italo Balbo, che a Cesco Tommaselli, l’inviato del Corriere della Sera che seguì la spedizione confidò: “Sono una persona coraggiosa, ma su un dirigile non metterei mai piede”. Per il gerarca il futuro dell’aereonautica italiana erano gli aerei, come chiarì con la trasvolata atlantica del 1933. Nobile era invece convinto che i dirigibili fossero perfetti soprattutto per le spedizioni scientifiche: permettevano di fare lunghe traversate senza soste per i rifornimenti e consentivano di stazionare su un’area da studiare.

Nobile e la tenda rossa


Un gruppo di uomini dispersi tra i ghiacci per quarantotto giorni, un contorno di polemiche, tradimenti e riabilitazioni, e un protagonista che a distanza di un secolo è ancora discusso: Umberto Nobile.
Svelare il mistero della 'Sfinge polare', era una delle immagini poetiche che i grandi esploratori usavano per descrivere la loro missione. In tanti hanno provato ad avvicinarsi al Polo Nord via mare, ma solo con l'arrivo dei dirigibili, l'impresa è stata possibile. I voli delle aeronavi ‘Norge’ del 1926  e ‘Italia’ del 1928 sono stati frutto di una preparazione tecnica  e scientifica di avanguardia per quei tempi, ma - date le difficoltà - gli incidenti di percorso erano numerosi. E la tragedia del Dirigibile Italia e della tenda rossa riempirono le cronache dei tempi.
Nobile e la tenda rossa
con Francesco Perfetti
di Chiara Chianese


SULL’ITALIA. Sul nuovo aerostato, che stavolta si chiamava Italia, assieme ad altri 12 uomini e a Titina, salirono il fisico italiano Aldo Pontremoli, fondatore dell’istituto del radio di Praga, il geofisico e meteorologo svedese Finn Malmgren e una strumentazione all’avanguardia (anche se sulle scelte tecnologiche e di comunicazione le polemiche infurieranno). La missione ottenne il patrocinio della Reale Società Geografica Italiana, mentre i finanziamenti arrivarono dal Comune di Milano e da un consorzio di imprenditori. Il dirigibile partì da Milano il 15 aprile 1928, raggiunse la Baia del Re il 6 maggio e compì due voli di studio, accertando alcuni aspetti fisici della regione artica quali l’assenza di terre emerse, la sterilità e la bassa ionizzazione dell’aria, le profondità marine e le derive dei ghiacci. Il Polo venne raggiunto la mezzanotte del 24 maggio 1928 ma, proprio come due anni prima, no fu possibile atterrare, a causa del vento fortissimo. E il mattino dopo,alle 10,30 una perturbazione travolse l’aeronave. L’Italia precipitò sul pack: dieci uomini, tra i quali il comandante, ferito, furono scaraventati sul ghiaccio, altri sei vennero portati via dalla tempesta e dispersi per sempre. “Tutto si era svolto in due o al massimo in tre minuti”, raccontò in seguito Nobile. I titoli del Corriere della Sera viravano dal trionfale: il tricolore e la croce sul polo (papa Pio XI aveva consegnato un crocifisso all’equipaggio) al cauto: Il ritorno di Nobile rallentato da forti venti contrari.

LA DISGRAZIA. I superstiti affrontarono le terribili condizioni climatiche in un accampamento di fortuna, al riparo di una tenda, la famosa Tenda Rossa, che precipitò dalla navicella insieme a un po’ di viveri e di altri materiali. L’odissea era solo agli inizi: le operazioni di soccorso furono lunghe ed estenuanti, complice anche il fatto che individuare il luogo dell’incidente era molto complicato. Il pack su cui si trovavano i superstiti, infatti, si spostava continuamente. Inoltre i primi Sos lanciati dal radiotelegrafista Giuseppe Biagi con la trasmittente Ondina 33.non vennero recepiti dalla nave appoggio Città di Milano (che tra l’altro non sarebbe potuta intervenire direttamente, perché non era un rompighiaccio). Fu un radioamatore russo a ricevere finalmente l’Sos dando via alle spedizioni di soccorso che coinvolsero tremila uomini con imbarcazioni e velivoli. Tra questi, l’idrovolante francese Latham 47 sul quale il 18 giugno Amundsen scomparve tra i ghiacci nel tentativo di salvare, o probabilmente umiliare il generale italiano: era forse questa la vera ragione che spinse il norvegese a mettere a repentaglio la propria vita. E lo fece di sua iniziativa, ricorrendo a contributi privati.

IN SALVO. Il 19 giugno l’idrovolante del maggiore Umberto Maddalena localizzò finalmente la Tenda Rossa e lanciò cibo, coperte e abbigliamento. E quattro giorni dopo, il 23 giugno, il Fokker 31 dello svedese Einar Lundborg (1896-1931) riuscì a portare a borda e a trasportare sulla nave Città di Milano Umberto Nobile. Il generale protestò, voleva che la priorità fosse data al capo tecnico Natale Cecioni, gravemente ferito a una gamba, ma i soccorritori gli imposero di trarsi in salvo per coordinare le ricerca dei compagni. Una decisione subita, che come vedremo, gli costò cara. Dopo altri 48 giorni anche gli altri superstiti vennero recuperati. Ci riuscì, in un complicato avvicinamento, il rompighiaccio sovietico Krassin. In totale le operazioni di recupero costarono la vita a 9 soccorritori.

UN BRUTTO RITORNO. Il ‘generale dei ghiacci’ in Italia, in un primo momento, venne accolto con affetto. Ma poi la distruzione del dirigibile e la disponibilità a mettersi in salvo per primo portarono la Commissione d’inchiesta ad addebitargli colpe infamanti: errata manovra, limitate qualità tecniche di pilota, negative capacità di comando. I suoi avversari, Italo Balbo in prima linea, non avevano che da essere contenti: la carriera di Nobile era stroncata. L’orgoglioso generale ci mise poi anche del suo: armato di un pessimo carattere e pessimo tempismo alzò la voce persino con Mussolini, quando questi finalmente accettò di riceverlo per ascoltarne le ragioni. Venne accompagnato alla porta. Umiliato e amareggiato, Nobile si dimise dall’Aereonautica e si trasferì prima in Urss e poi negli Stati Uniti. Rientrò in Italia nel 1942 e, dopo un’esperienza all’Assemblea costituente tra gli indipendenti del PCI, una nuova commissione lo riabilitò, senza però sopire del tutto le polemiche. Morirà a Roma nel 1978, a 93 anni.



Articolo in gran parte di Marco Ferrazzoli, pubblicato su Focus Storia n. 143. altri testi e foto da Wikipedia.        

Esercito usa: Battaglie, corpi speciali, armi e mezzi del gigante che ha cambiato il conflitto

Esercito Usa
Battaglie, corpi speciali, armi e mezzi del gigante che ha cambiato il conflitto.

FORZE DI TERRA.

Nel corso della Seconda guerra mondiale le Forze Armate americane sono state in grado di vincere contemporaneamente su due fronti vasti e complicati come l’Europa e il Pacifico, dopo aver trionfato anche in Africa e tenuto a bada il nemico nell’Atlantico. Uno sforzo gigantesco, che ha comportato l’impiego di una quantità di mezzi militari di terra, di cielo e di mare al di là di ogni possibile previsione. Tutto ciò è ancora più notevole se si tiene conto del fatto che l’industria americana ha contribuito in modo importante anche a sostenere lo sforzo bellico degli alleati, Gran Bretagna e Unione Sovietica su tutti. C’è però un elemento, spesso trascurato, che più di ogni altro dà l’idea del miracolo compiuto dagli Stati Uniti: essi entrarono in guerra molto impreparati, con Forze Armate non organizzate e una disponibilità di strumenti e mezzi militari irrisoria. In pochi mesi avvenne il grande balzo che ha portato Washington ad avere un apparato militare vincente e sotto molti punti di vista ineguagliabile.

UNA SUPERPOTENZA NATA IN QUATTRO ANNI. Fu la repentina sconfitta della Francia a spingere gli Stati Uniti a introdurre per la prima volta nella loro storia una forma di coscrizione obbligatoria in tempo di pace (Selective Service Act) con cui, mettendo sotto controllo federale anche le milizie statali, poterono portare in breve tempo gli effettivi delle Forze Armate a 1,5 milioni di uomini dagli appena 170mila che le formavano prima. Addirittura, dopo la fine della Prima guerra mondiale era stata smantellata la National Army, rimpiazzata da una piccola Regular Army, dagli Organized Reserve Corps e dalle State Militias. Fu solo nel 1941 che l’Esercito venne riorganizzato in modo organico con la nascita dell’Army of the United States. Dalle quattro divisioni del 1939 l’Esercito passò nel 1941 a 28 divisioni per 456mila soldati, più 43mila effettivi nelle forze corazzate, 308mila in 215 reggimenti
specializzati di artiglieria terreste, antiaerea, reparti trasmissioni e altre unità di supporto, 120mila uomini in guarnigioni d’oltreoceano, 46mila effettivi nella difesa dei porti e 167mila nell’aviazione. Numeri destinati a crescere nel corso degli anni. Da quel momento, durante il secondo conflitto mondiale, prestarono servizio più di 16 milioni di americani; di questi 290mila morirono in combattimento e 670mila rimasero feriti, mentre 130mila caddero prigionieri, e in molte migliaia non tornarono più a casa.
Anche l’apparato industriale fu riconvertito a sostegno dello sforzo bellico, prima per gli alleati, per i quali in virtù della Legge Affitti e Prestiti (Lend-Lease Act) furono investiti 45milioni di dollari, e poi direttamente per le truppe americane. Le armi obsolete furono sostituite in massa: all’inizio il fucile d’ordinanza era lo Springield 1903, ma a guerra iniziata fu quasi completamente sostituito dal Garand M1, mentre cominciarono a diffondersi anche i mitra Thompson e M3 e i mitragliatori di squadra BAR. Stesso miglioramento fu fatto per le armi pesanti, considerando che prima dell’inizio del conflitto l’artiglieria era ormai obsoleta mentre l’equipaggiamento anticarro e antiaereo era quasi inesistente. Per gli americani non fu un cattivo affare: le industrie cominciarono a produrre a pieno ritmo, la disoccupazione sparì, il Pil crebbe del 50%. Dal 1939 al 1945 gli americani riuscirono a produrre 3.200.000 automezzi da trasporto, 88.410 carri armati, 41.170 semicingolati e 82mila trattori e mezzi vari.

Il corpo speciale dei rangers.
I rangers americani risalgono al 1756, e anche durante la seconda guerra mondiale diedero il loro contributo. Furono ricostruiti proprio per quel conflitto, dopo che per decenni non era stata mantenuta alcuna loro unità. Fu il generale Lucian Truscott che nel maggio del 1942 ridiede vita a unità specializzate nelal guerra non convenzionale, ispirandosi ai commando britannici. Il 1° battaglione Ranger al comando del capitano William Darby fu formato con 600 uomini in Irlanda e si addestrò duramente presso il severissimo centro dei commando inglesi in Scozia. Dopo il fallimentare sbarco a Dieppe, in Francia, la prima operazione rilevante fu lo sbarco in Algeria, di notte, per aprire la strada alla 1a divisione di fanteria. Vennero allora formati altri due battaglioni Ranger, impiegati prima in Tunisia, poi in Sicilia, e negli sbarchi di Salerno e di Anzio, dove riuscirono a impadronirsi del porto. Vennero però annientati dai tedeschi a Cisterna di Latina. Due nuovi battaglioni Ranger costituite negli Stati Uniti sbarcarono il 6 giugno 1944 a Omaha Beach, in Normandia, contribuendo in modo decisivo a eliminare alcune delle più ostiche difese nemiche. In seguito si distinsero nella battaglia delle Ardenne. Un altro battaglione Ranger, il sesto, operò sul fronte del Pacifico, distinguendosi nelle Filippine.
  
Armi e mezzi dell’esercito.

MK2

TIPO bomba a mano a frammentazione
PESO  595 g
ALTEZZA 111 mm
DIAMETRO  59 mm
CARICA 56 g di TNT
COLT M1911
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TIPO Pistola semiautomatica
PESO 1,105 KG
LUNGHEZZA 210 MM
LUNGHEZZA CANNA 127 mm
CALIBRO 11,43 mm
TIRO UTILE 40-80 m
M1917 ENFIELD
M1917 Enfield - USA - 30-06 - Armémuseum.jpg

TIPO fucile
PESO 4,16 kg
LUNGHEZZA 1180 mm
LUNGHEZZA CANNA 660 mm
CALIBRO 7,62mm
TIRO UTILE 550 M
GITTATA MASSIMA 5000 M
M24 CHAFFE

TIPO carro armato leggero
EQUIPAGGIO 5
LUNGHEZZA 5,56 M
LARGHEZZA 3 M
ALTEZZA 2,77
PESO 18,41 t
VELOCITA’ MAX. 56 km h
ARMAMENTO  1 cannone M6 da 75 mm, 2 mitragliatrici browning M1919A4
M4 SHERMAN
TankshermanM4.jpg
TIPO carro armato medio
EQUIPAGGIO 5
LUNGHEZZA 5,84
LARGHEZZA 2,62
PESO 30,3 t
VELOCITA’ MASSIMA 42 km h
ARMAMENTO 1 CANNONE DA 75 mm M3 L-40, 1 mitragliatrice Browining M2HB e 2 mitragliatrici Browning M1919A4

M26 PERSHING

TIPO carro armato pesante
EQUIPAGGIO 5
LUNGHEZZA 6,51 m
LARGHEZZA 3,51 m
PESO 41,7
VELOCITA’ MAX 40 Km h
ARMAMENTO: 1 cannone da 90 mm M3, 1 mitragliatrice Browning M2HB e 2 mitragliatrici Browning M1919A4

M18 HELLCAT
M18 hellcat side.jpg
TIPO Caccia-carri
EQUIPAGGIO 5
LUNGHEZZA 5,28 m
LARGHEZZA 2,87 m
PESO 17, 7 t
VELOCITA’MAX 80 Km h
ARMAMENTO 1 cannone da 76 mm M1A2, 1 mitragliatrice Browning M”HB
M7 PRIEST
M7-Priest-beit-hatotchan-2.jpg
TIPO artiglieria semovente
EQUIPAGGIO 6
LUNGHEZZA 6,02 m
LARGHEZZA 2,87 m
ALTEZZA 2,54 m
PESO 23 t
VELOCITA’ MAX su strada 41 Km h
ARMAMENTO 1 obice da 105 mm M1-M2, 1 mitragliatrice Browning M2 da 12, 7 mm
M1 THOMPSON
TIPO mitra
PESO 4,81 kg.
LUNGHEZZA 811 mm
LUNGHEZZA CANNA 270 mm
CALIBRO 11,5 mm
CADENZA DI TIRO Fino a 1000 colpi al minuto (in base al modello)
TIRO  UTILE  50-100 m
M1918A2BAR
Army Heritage Museum B.A.R..jpg
TIPO mitragliatrice leggera
PESO 8,30 kg
LUNGHEZZA 1190mm
LUNGHEZZA CANNA 610 mm
CALIBRO 7,62 MM (0,30)
CADENZA DI TIRO 300-650 colpi al minuto TIRO UTILE 500-1000 m


L’ORGANIZZAZIONE DELLE TRUPPE. Un buon esempio dello sforzo bellico e dei progressi conseguenti è costituito dalle forze corazzate. Esse nacquero solamente a cavallo tra il 1940 e il 1941. Dopo Pearl Harbor furono subito disponibili quattro divisioni corazzate, ma a quell’epoca erano ancora dotate solo di due modelli minori di cingolati, il carro leggero M2A4 e il carro medio M2A1. Nel 1941 cominciò la produzione del carro intermedio M3 Lee con un cannone da 37 mm in torretta e uno da 75 mm in basso. Il mitico tank M4 Sherman entrò in servizio solo nel 1942,ma contribuì a cambiare le sorti della guerra, mostrando tutta la potenza dell’apparato industriale statunitense che solo di questo modello produsse 50mila esemplari. La divisione corazzata inizialmente era strutturata sulla base di una brigata corazzata (due reggimenti di carri leggeri M3, uno di carri medi M3, basati ciascuno su tre battaglioni tank) con l’aggiunta di un reggimento di fanteria e uno di artigliere con due gruppi di semoventi da 105 mm. In seguito i tank furono ridotti a due reggimenti (uno leggero e uno medio) mentre i battaglioni del reggimento fanteria e i gruppi di artiglieria da 2 diventarono 3. in seguito le divisioni corazzate furono ulteriormente ridotte di forza, a vantaggio di quelle di fanteria, tutte a loro volta dotate di battaglioni di carri armati. Divisioni di fanteria e divisioni corazzate combattevano insieme all’interno dei Corpi d’Armata, i quali a loro volta erano raggruppati in Armate.
Anche le divisioni di fanteria subirono diverse ristrutturazioni nel corso della guerra. Costituite inizialmente da due brigate di due reggimenti ciascuna, furono poi reimpostate sulla base di tre reggimenti di fanteria, supportati da quattro battaglioni di artiglieria e da altre unità di supporto (ricognizione, genio, sanità). In seguito vennero aggiunti battaglioni autonomi di carri armati, insieme a cannoni senza rinculo, mortai pesanti, proiettili a razzo (bazooka), cannoni anti-carri. Una organizzazione caratteristica delle forze americane erano i Combat Command, sezioni nate nel 1942 in cui erano suddivise le divisioni in modo che ciascuno fosse formata dai diversi tipi di truppe e potesse così agire come una forza autonoma. Non c’era una strutturazione fissa di queste unità tattiche, che venivano messe insieme secondo le necessità. Alla base di tutto poi c’era la squadra di fanti, che era costituita da dodici uomini, di solito armati di undici fucili Garand (che fornivano un’ottima potenza di fuoco) e di una mitragliatrice automatica.

Un’arma in più: le razioni k.
un esempio delle razioni K
Uno degli strumenti che permisero ai soldati americani di combattere al meglio furono le celebri Razioni K. Esse nacquero dalla ricerca di una razione militare poco ingombrante che i paracadutisti potessero portare con sé, ma presto viene estesa a tutti i militari, perché le truppe potevano rimanere per giorni lontane dal raggio della logistica dei rifornimenti.
C’erano diversi menù e tutti stavano in pochissimo spaio. La confezione era pensata per essere impermeabile e resistente a -20 gradi. Era divisa in tre pacchetti comprendeva cibo in scatola, cioccolata, biscotti, caffè solubile, latte in barrette, formaggio in scatola, chewing gum, caramelle e inoltre sigarette, tavolette per purificare l’acqua, apriscatole e carta igienica, che era parte del set di igiene personale, accompagnato dal set per il cucito. A cinque mesi dall’entrata in guerra, gli Stati Uniti avevano già distribuito un milione di Razioni K e raggiunsero i 100 milioni nel 1944. 

IL PRIMATO DELLA LOGISTICA. Alla fine del 1943 Washington schierava 17 divisioni in Europa per una forza complessiva di 1,4 milioni di uomini e 13 divisioni nel Pacifico per 913mila effettivi. Nel settembre 1944 le divisioni in Europa erano diventate 40 (di cui 6 in Italia). Nel maggio 1945 si raggiunse l’apice con l’impiego contemporaneo di 68 divisioni di fanteria, 16 corazzate, 5 aviotrasportate e una da montagna (anche questa, la Decima, costituita a guerra iniziata perché prima non era compresa nei piani degli americani). Questa crescita esponenziale dell’Esercito statunitense diede risultati visibili nell’efficienza che dimostrò sul campo di battaglia:a guerra vinta il soldato americano era ormai considerato insuperabile, ma in realtà prima della partecipazione al conflitto era del tutto inesperto e dalla bellicosità tutta da testare. Uno degli elementi che contribuì a far funzionare al meglio questa macchina da guerra nuova ed enorme fu il suo apparato logistico: gli americani riservarono gli uomini migliori non al fronte di battaglia ma alle strutture di supporto, e nel 1944 ben due milioni di persone erano impiegate nei servizi amministrativi, logistici e di comunicazione. Ogni tre uomini impiegati nei reparti combattenti, altri due erano impiegati nei servizi logistici. Anche per questo gli Stati Uniti fecero ampio ricorso alle ausiliarie femminili, oltre centomila nel solo Esercito, il cui contributo fu determinante.

AVIAZIONE.

Per quanto la guerra aerea sia stata essenziale per la vittoria finale, gli Stati Uniti nel 1941 neanche avevano una Aeronautica militare. La specifica Arma autonoma fu creata solo nel 1947. Durante il conflitto i reparti aerei rimasero sotto il comando di entità distinte: l’Aviazione dell’Esercito, quella della Marina e quella dei Marines. Nel 1939 queste forze erano ancora poco temibili, anche se gli americani avevano portato avanti il settore ricerca, così che quando decisero di scendere in campo furono in grado di fornire al loro enorme settore industriale modelli avanzati ed efficienti da mettere in produzioni in grandi numeri. E ce n’era davvero bisogno: nel 1939, quando Hitler invase la Polonia e mentre il Giappone conduceva già la Guerra in Cina, l’Aviazione dell’Esercito (United States Army Air Force) disponeva di appena 20mila uomini e 2400 aerei, fra i quali il comparto bombardieri che prevedeva i Douglas B-18, bimotori dalle scarse prestazioni. Ma già nel biennio successivo, prima di Pearl Harbor, Washington aveva portato il personale della sua aviazione a 152mila effettivi, iniziando a far entrare in linea velivoli di ben altro livello, come i bombardieri quadrimotore B-17 Flying Fortress, che saranno assoluti protagonisti in Europa.
Douglas B-18 No. 34 061128-F-1234S-022.jpg
un B18 in volo

I fanti volanti delle divisioni aviotrasportate.

Members of the 551st Parachute Infantry Regiment on patrol in the French Alps during World War II.

Una delle immagini chiave della Seconda guerra mondiale è quella dei paracadutisti americani che atterrano in Francia nelle ore precedenti lo Sbarco in Normandia. Eppure anche nei confronti dei parà l’attrazione statunitense fu tardiva. Washington fu una delle ultime potenze a sviluppare corpi aviotrasportati, solo dopo che quelli tedeschi si erano distinti con azioni eclatanti all’inizio della guerra. L’Airbone Command venne istituito il 21 marzo 1942: dividendo l’82a divisione di fanteria motorizzata vennero create l’82a e la 101a aviotrasportate. Vennero istituiti prima i PIB (Parachute Infantry Battalion). Il 550° AIB (Airborne Infantry Battalion) fu invece la prima unità statunitense preparata per il dispiegamento tramite alianti, trainati in volo da aeroplani da trasporto e sganciati in prossimità delle zone di atterraggio. Quando finalmente i parà americani furono pronti per raggiungere i fronti di guerra (prima in Nord Africa, poi in Sicilia e infine in Inghilterra in vista del D-Day), una divisione paracadutisti era strutturata su una forza di 8400 uomini divisa in PIR (reggimenti di paracadutisti) e GIR (reggimenti trasportati a bordo di alianti,  in inglese Glider) ed era dotata di era dotata di equipaggiamenti e veicoli più leggeri rispetto alle divisioni tradizionali. Le divisioni aviotrasportate (che alla fine furono sei, operarono diversi lanci importanti: dopo la Normandia ci fu “l’Operazione Market Garden” in Olanda, cui seguì l’attraversamento del Reno; esse però si distinsero anche nei combattimenti come fanti d’élite: per esempio, la 101° resistette a lungo assediata a Bastogne contro forze soverchianti, permettendo agli americani di riprendersi e rovesciare le sorti dell’Offensiva delle Ardenne.
UNA INEGUAGLIBILE CAPACITA’ PRODUTTIVA. L’aviazione di Marina nel frattempo disponeva di 5200 aeroplani (compresi quelli da addestramento), con 5900 piloti e 8 portaerei. I modelli di aereo imbarcati all’inizio del conflitto erano soprattutto il Douglas SBD Dauntless, il Brewster F2A Buffalo e il Grumman Hellcat che si fecero valere soprattutto sul fronte del Pacifico. Fronte dove l’attacco giapponese di Pearl Harbor costò agli americani più di un terzo degli aerei dispiegati inizialmente a oriente, garantendo così alcuni mesi di dominio dei cieli ai velivoli giapponesi, superiori anche per efficacia. Poi, però, anche nell’aria fu la grande capacità industriale degli Stati Uniti a farla da padrona rendendo presto clamorosa la loro superiorità. Basta un dato: gli americani persero in guerra  ben 53mila velivoli (quasi quanti altre importanti nazioni ne avevano prodotti) ma ne costruirono quasi 300mila (di cui un terzo fornito agli alleati), fra i quali 45mila nuovi caccia. L’organizzazione dell’aviazione dell’Esercito (USA AF) aveva l’elemento base negli squadroni, che radunati in tre o quattro formavano un gruppo. Dal 7 dicembre 1941 (attacco di Pearl Harbor) al settembre 1945 furono attivi 1226 squadroni da combattimento, e vennero schierati fino a 269 gruppi da combattimento, con un picco di 243 gruppi  impegnati in operazioni nel 1945. i gruppi erano sotto il comando di strutture chiamate Forze Aeree, che arrivarono a essere 16, distribuite nelle varie parti del mondo.

I mezzi dell’aviazione USA.

BOEING B-17 FLYING FORTRESS

  
TIPO Bombardiere
EQUIPAGGIO 10
MOTORI 4 radiali WrightR-1820
LUNGHEZZA 22,7 m
APERTURA ALARE 31,6 m
VELOCITA’ 486 km h
ARMAMENTO 13 mitragliatrici Browining M2 da 12,7 mm, 2-3,6 t di bombe
NORTH AMERICAN B-25 MITCHELL

 North American Aviation's B-25 medium bomber, Inglewood, Calif.jpg
TIPO Bombardiere strategico
EQUIPAGGIO 6
MOTORI 2 radiali Wright R-2600-29 Cyclone
LUNGHEZZA 16,1 m
APERTURA ALARE 20,6 m
VELOCITA’ 438 km h
ARMAMENTO 13 mitragliatrici da 12,7 mm, 1,8 t di bombe
CONSOLIDATED B-24

 B-24 Liberators in Formation, 1980.JPEG
TIPO Bombardiere strategico
EQUIPAGGIO 8-10
MOTORI 4 Pratt & Whitney R-1830-65
LUNGHEZZA 27,6
APERTURA ALARE 33,52 m
VELOCITA’ 488 km h
ARMAMENTO 10 mitragliatrici browning M2 da 12,7 mm, bombe da 1,2 t (lungo raggio) a 3,6 t (corto raggio)
REPUBLIC B47 THUNDERBOIT

Republic P-47 Thunderbolt USAF.JPG
TIPO Caccia bombardiere
EQUIPAGGIO 1
MOTORI Radiale Pratt & Whitney R-2800 con turbocompressore
LUNGHEZZA 11 m
APERTURA ALARE 12,4 m
VELOCITA’ 690 km h
ARMAMENTO 8 mitragliatrici da 12, 7mm, 2 calibro 7,62 mm, nella postazione del navigatore, fino a 1020 kg di bombe.
DOUGLAS SBD-3 DAUNTLESS
Republic P-47 Thunderbolt USAF.JPG

TIPO Caccia bombardiere
EQUIPAGGIO 2
MOTORI Radiale a 9 cilindri Wright Cyclone
LUNGHEZZA 10,6 m
APERTURA ALARE 12,65 m
VELOCITA’ 406 km h
ARMAMENTO 2 mitragliatrici frontali calibro 12,7 mm, 2 calibro 7,62 mm nella postazione del navigatore, fino a 1020 kg di bombe
DOUGLAS TBD-1 DEVASTATOR


TIPO Aereosilurante
EQUIPAGGIO 3
MOTORI Radiale Pratt & Whitney R-1830-64 Twind Wasp
LUNGHEZZA 10,7 m
APERTURA ALARE 15,24 m
VELOCITA’ 332 km h
ARMAMENTO 2 mitragliatrici Browning M1919 calibro 7,62 mm,un siluro Mark XIII
GRUMMAN F4F – 3 WILDCAT

Grumman F4F-4 del VF-11,Guadalcanal 1942.

TIPO Caccia imbarcato
EQUIPAGGIO 1
MOTORI Radiale Pratt & Whitney R-1830-76
LUNGHEZZA 8,81 m
APERTURA ALARE 11,58 m
VELOCITA’ 529 km h
ARMAMENTO 4 mitragliatrici Browning calibro 12,7 mm
ALIANTE AIRSPEED HORSA

TIPO Aliante da trasportoUn gruppo di paracadutisti esce dal portellone laterale di un Airspeed AS.51 Horsa utilizzato come addestratore dal No 21 Heavy Glider Conversion Unit aBrize Norton, 4 giugno 1943.

EQUIPAGGIO 2
CAPACITA’ 25 soldati
LUNGHEZZA 20,43 m
APERTURA ALARE 26,83 m
PESO CARICO 7045 kg
YOUGHT F4U CORSAIR
 
Una squadriglia di F4U-1D Corsair di base a Iwo Jima nel 1945
TIPO Caccia imbarcato
EQUIPAGGIO 1
MOTORI Radiale Pratt & Whitney R-2800-32 W
LUNGHEZZA 10,2 m
APERTURA ALARE 12,5 m
VELOCITA’ 756 km h
ARMAMENTO 4 cannoncini da 20 mm nelle ali, 907 kg di bombe
C-53 SKYTROOPER


TIPO Aereo trasporto
EQUIPAGGIO4
CAPACITA’ 28 paracadutisti
MOTORI 2 Pratt & Whitney R-1830-90C
LUNGHEZZA 19,43 m
APERTURA ALARE 29,41 m
VELOCITA’ 360 km h




A CIASCUN FRONTE LA SUA TATTICA. Per l’America i due fronti di guerra rimasero radicalmente distinti, e questo riguardò anche le tattiche che vennero applicate. In Europa le basi aeree erano terrestri e si collocavano in Gran Bretagna a nord e in Nord Africa a Sud, per poi spostarsi in Francia e in Italia con il progredire delle campagne militari. Da quelle basi partivano soprattutto i bombardieri, i quali tempestarono i bersagli sul continente con il preciso obiettivo di disarticolare e distruggere l’apparato industriale ed economico e le infrastrutture dei Paesi dell’Asse. A differenza della Germania, gli Stati Uniti e i loro alleati non si limitarono all’impiego di bombardieri medi bimotori, ma fecero grande affidamento sui possenti bombardieri strategici quadrimotori. Velivoli che, soprattutto all’inizio, dovevano difendersi da soli, e per questo erano dotati di molte postazioni di mitragliatrici anti-aeree (da questo il soprannome di “fortezze volanti” attribuito ai B17). Non era un compito facile e gli equipaggi dei bombardieri – colpiti tanto dalla efficace contraerea tedesca quanto da caccia di ottima qualità e tecnologicamente avanzati – pagarono un prezzo altissimo, risultando una delle specialità con la più alta percentuale di vittime rispetto agli effettivi impiegati. La strategia fu quella dei bombardamenti a tappeto. In realtà ancora prima dell’entrata in guerra, tra il 1939 e il1940, il presidente Usa Roosevelt si era preoccupato di chiedere a tutti i belligeranti di non usare l’aviazione come arma di terrore. Ma dopo la caduta della Francia e la Battaglia d’Inghilterra cambiò tutto, e la guerra divenne senza esclusione di colpi. In realtà furono soprattutto i Britannici a spingere per gli attacchi indiscriminati sulla Germania, anche per fiaccare il morale dei tedeschi. Dal 1942 il Bomber Command britannico (sostenuto dai bombardieri americani) abbandonò gli attacchi di precisione per dare il via all’”Operazione Millennium”, che prevedeva l’impiego di mille bombardieri alla volta sulle città tedesche. Le tattiche americane prevedevano il volo in formazione, concentrando la potenza di fuoco difensiva nel 1943 venne introdotta una specifica formazione a ranghi serrati, che prevedeva l’impiego di 18 squadroni in volo ravvicinato, che contavano circa 300 grandi bombardieri, i quali procedevano a gruppi di tre con uno davanti, un secondo a quota più alta e un terzo a quota più bassa. Ci volevano due o tre ore per preparare la formazione, e questo dava il tempo ai tedeschi di individuarla, ma poi la potenza di questa “falange aerea” era devastante.

Una missione per fare “morale” : il raid Doolittle


Il morale a volte più delle armi. Fu quello che pensarono i comandanti americani quando progettavano il Raid Doolittle (dal nome del comandante James Harold Doolittle) su Tokyo. Nel 1942 il Giappone era al massimo della sua potenza, ma per gli americani c’era da vendicare l’affronto di Pearl Harbor. Per questo gli Stati Uniti cominciarono a lavorare su bombardieri capaci di decollare da portaerei, fino a riuscirci. Il 18 aprile, 16 bombardieri B25 decollarono dalla USS Home e, grazie all’effetto sorpresa, intorno a mezzogiorno e mezza riuscirono a bombardare la capitale giapponese, per poi atterrare in Cina. I danni materiali arrecati alla città non furono rilevanti, ma assi più profonda si rivelò la ferita inferta all’orgoglio imperiale nipponico.
I B-25 stivati sul ponte di volo dellaHornet durante il viaggio

           
UNA SUPERIORITA’ DECISIVA IN EUROPA. Gli aerei americani B-17 e B-24 erano abbastanza armati e veloci da poter compiere azioni diurne (i britannici invece preferivano attaccare di notte); inoltre disponevano di rudimentali computer come il sistema di puntamento Norden, che permetteva di colpire bersagli specifici (o almeno di avvicinarsi loro più di quanto fosse possibile a chiunque altro per l’epoca). Una ulteriore svolta avvenne alla fine del 1943: fino ad allora i bombardieri avevano dovuto raggiungere la Germania da soli, mentre l’introduzione del caccia P51 Mustang a lungo raggio fornì agli stormi di bombardieri un’eccellente servizio di scorta fin nel cuore dei territori nemici. Anche gli aerei americani parteciparono alle devastanti incursioni che colpirono in particolare le città di Amburgo, Dresda e Berlino, benché l’iniziativa fosse stata britannica. Sul fronte occidentale, per quanto il ruolo dei bombardieri sia stato predoominante e decisivo, i velivoli dell’Aviazione furono impiegati anche per le azioni dei paracadutisti nonché per il fondamentale ruolo di garantire la superiorità aerea in combattimento,regalando di fatto alle truppe di terra la vittoria. Non ci fu azione nella riconquista dell’Europa che non vide un ruolo determinante dell’arma aerea, con i bombardamenti sulle linee nemiche e il supporto dei caccia. Da Montecassino alla Normandia fu la superiorità aerea a vincere la guerra.
 North American P-51 Mustang.JPG

P-51D del 375th Fighter Squadron, 361st Fighter Group

PORTAEREI PROTAGONISTE NEL PACIFICO. Sul fronte del Pacifico, insieme all’USAAF un grande ruolo fu svolto dall’Aviazione della Marina e dalla componente aerea dei Marines. La grande campagna del Pacifico fu soprattutto un immenso scontro aeronavale. Nel maggio 1942 si combatté la Battaglia del Mar dei Coralli, che fu la prima nella quale tutto l’onere fu assunto dagli aerei, mentre le flotte statunitensi e giapponesi non arrivarono mai a vedersi né a scambiarsi un colpo di cannone. Da allora in poi fu sempre così, tanto che le portaerei assunsero un ruolo da assolute protagoniste nella guerra del Pacifico, mentre scemò l’importanza delle corazzate. Quello di combattere le navi nemiche e i relativi aerei di scorta fu dunque uno dei ruoli principali dell’Aviazione a oriente, ma non mancò quello del supporto alle operazioni di terra, in particolare agli sbarchi che gli americani conducevano di isola in isola.
I velivoli furono dunque impegnati in fondamentali operazioni di martellamento delle difese giapponesi, nonché in azioni di superiorità aerea, attacco al suolo e supporto alle truppe di terra contro le forze nemiche, spesso composte tanto da fanti di artiglieria trincerata, quanto di navi e aerei di supporto. Un aspetto da notare è che l’aspetto strategico delle isole da parte dei comandi americani in base alle piste aeree da occupare per permettere ai grandi bombardieri americani di estendere il proprio raggio di azione contro l’aerea controllata dal nemico, fino al Giappone stesso. Anche a est, infatti, i bombardieri giocarono un ruolo importante. Gli Stati Uniti condussero sull’arcipelago nipponico una campagna aerea di bombardamenti a tappeto equivalente e altrettanto devastante di quella perpetrata in Europa contro la Germania. E anche stavolta ottennero il risultato voluto, perché il contributo dell’Aviazione alla vittoria finale della guerra fu determinante attraverso la distruzione delle infrastrutture nemiche. È poi solo il caso di ricordare che furono due specialissimi bombardamenti a porre fine al conflitto: nell’agosto del 1945 due bombardieri B-29 americani sganciarono le bombe atomiche si Hiroshima e Nagasaki. E cambiò il mondo.

MARINA.

Un’altra flotta USA: i mercantili corazzati liberty.
SS John W Brown.jpg
La John W. Brown nel 2000
L’industria americana diede il meglio di sé nel contribuire alla vittoria con la realizzazione di naviglio commerciale per i rifornimenti all’Europa. Il bilancio del conflitto si può anche riassumere in questo dato: per quanto sia stata grande la determinazione degli U-Boot tedeschi nel colpire i mercantili nemici, gli Alleati conclusero la guerra con più navi di quante ne avessero all’inizio, perché gli Stati Uniti ne produssero una quantità immensa. La flotta mercantile statunitense passò dalle 4268 navi del 1942 alle 12875 navi del 1945. Parte del merito andò alle navi Liberty, navi mercantili realizzate con la tecnica della prefabbricazione e assemblaggio che sfruttava la pratica della catena di montaggio e l’uso della saldatura al posto della chiodatura. In questo modo una nave capiente ed efficiente veniva realizzati in pochi giorni. Alla fine della guerra gli Stati Uniti ne avevano circa tremila unità (e ne persero solo il 10%). Si trattava di mercantili corazzati da 7200 tonnellate, per la cui realizzazione dall’inizio dei lavori al varo bastavano 60 giorni. Sulle navi mercantili venne trasportato qualsiasi tipo di equipaggiamento, dai camion ai carri armati, dagli aerei ai muli e cavalli, passando ovviamente per munizioni, cibo e tutto il necessario al prosieguo dei combattimenti.

Dopo la Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti erano stati fra i promotori degli accordi per il disarmo navale che poneva forti limitazioni alla costruzione e alla potenza delle navi militari. Fu però proprio la Marina il settore che gli americani svilupparono di più negli anni Trenta, soprattutto a partire dal programma di adeguamento lanciato nel 1933. oltretutto lo spirito isolazionista che dominava in quegli anni aveva fatto sì che come unica minaccia strategica venisse preso in considerazione l’attacco al territorio nazionale da parte di una flotta di invasione, così le difese furono strutturate di conseguenza. Allo scoppio della guerra in Europa, fu la Marina la prima arma cui Washington pose mano, presentando la Legge per la Protezione navale dei due Oceani e avviando una forte espansione navale. Il personale passò dai circa 126mila addetti del settembre 1939 ai 330mila del dicembre 1941, al 1.260.000 del dicembre 1942 sino ai 3.220.000 del dicembre 1944. Vennero convertiti impianti industriali e costruiti dal nulla cantieri navali. Crebbe così in misura esponenziale anche la flotta militare statunitense. La U.S Navy, il cui comando faceva parte del consiglio ristretto del presidente degli Stati Uniti, giocò un ruolo fondamentale nella guerra, ma il suo impiego fu molto diverso tra il fronte euro-atlantico e quello del Pacifico. In Occidente le navi americane furono impegnate soprattutto in due compiti fondamentali: la difesa dei convogli e le operazioni di sbarco. Nel novembre del 1942 dalle coste americane partì la flotta di invasione che dopo due settimane di viaggio avrebbe condotto l’operazione Torch sulle spiagge del Marocco. Da allora le tecniche di sbarco vennero perfezionate e risultarono determinanti in Europa: nel luglio 1943 la Marina sbarcò le forze Alleate in Sicilia, e in seguito in Italia si agì allo stesso modo a Salerno e ad Anzio. Ma lo sbarco più celebre sul fronte occidentale è ovviamente quello in Normandia, la più grande operazione anfibia mai vista fino ad allora. Furono impiegate cinquemila navi, e tra queste un ruolo decisivo lo ebbero senza dubbio i mezzi appositamente inventati in America per questo tipo di azioni: i mezzi da sbarco, ciascuno specializzato nel trasporto di soldati per i primi attacchi, truppe per gli arrivi successivi, carri armati, equipaggiamenti e rifornimenti. Caratteristiche di questi mezzi era la chiglia piatta per raggiungere direttamente la spiaggia dopo essersi staccate dalle navi madri. Per quando riguarda i soldati a bordo fossero fanti o marines (nel Pacifico), i mezzi erano operati dalla Marina. Questa aveva creato apposite unità (dette Seabees) per gestire tutta la logistica degli sbarchi e dirigere il traffico, l’equivalente del Genio, in grado di costruire dal nulla interi porti artificiali.

I mezzi in dotazione alla marina.

USS IOWA


TIPO Nave da battaglia
CLASSE Iowa
DISLOCAMENTO 45.00 t.
LUNGHEZZA 271,27 m
LARGHEZZA 32,92 m
VELOCITA’ 33 nodi
EQUIPAGGIO 2.780 uomini
ARMAMENTO 9 cannoni da 406,50 mm, 20 cannoni da 127 mm, 80 cannoni AA da 40-56 mm, 49 mitraliere AA da 20-70 mm.
USS WICHITA
USS Wichita CA-45.jpg
 USS Wichita (CA-45), 22 April 1942

TIPO Incrociatore pesante
CLASSE Wichita
VARO 1937
DISLOCAMENTO 14000 t
LUNGHEZZA  189,7 m
LARGHEZZA 21,8 m
VELOCITA’32 nodi
EQUIPAGGIO 1.569 uomini
ARMAMENTO 2 cannoni da 203 mm, 8 cannoni da 127 mm, 2 pezzi da 47 mm, 8 mitragliatrici da 12, 7 mm
USS BELLEAU WOOD
USS Belleau Wood (CVL-24) underway on 22 December 1943 (NH 97269).jpg

TIPO Portaerei leggera
CLASSE Independence
DISLOCAMENTO 14000 t 
LUNGHEZZA 189,7 m
LARGHEZZA 21,8 m
VELOCITA’ 32 nodi
EQUIPAGGIO 1.569 uomini
ARMAMENTO 26 pezzi da 0 mm, 21 pezzi da 20 mm, 45 aerei
USS YORKTOWN
 USS Yorktown (CV-5) anchored in Hampton Roads on 30 October 1937.jpg

TIPO Portaerei
DISLOCAMENTO 25.893 t a pieno carico
LUNGHEZZA 246,7 m
LARGHEZZA 32 m
VELOCITA’ 32,5 nodi
EQUIPAGGIO 2.200 uomini
AEREI 90
USS ENTERPRISE


TIPO Portaerei
DISLOCAMENTO 27.500 t a pieno carico
LUNGHEZZA 246, 7 m
LARGHEZZA 32 m
VELOCITA’33 nodi
EQUIPAGGIO 2.919 uomini
AEREI 90
USS ESSEX
USS Essex (CV-9) - January 1960.jpg

 La USS Essex, in una foto del dopoguerra, nella quale è evidente come fosse stata già dotata del ponte di volo angolato
TIPO Portaerei
CLASSE Essex
DISLOCAMENTO 40.000 t
LUNGHEZZA 270 m
LARGHEZZA 34 m
VELOCITA’ 28 nodi
EQUIPAGGIO 2.400 uomini
ARMAMENTO 16 cannoni contraerei da 127 mm (affusti singoli), 60 mitragliere da 40 mm
AEREI 91
USS GATO
USS Gato;0821235.jpg

TIPO Sommergibile
DISLOCAMENTO 2.460 t in immersione
LUNGHEZZA 93,6 m
LARGHEZZA 8,31 m
VELOCITA’ 9 nodi in immersione, 20 nodi in emersione 
EQUIPAGGIO 80 uomini
ARMAMENTO 1 cannone AA da 76-50 mm, 2 mitragliere AA da 12,7 mm, 2 mitragliatrici da 7,62 mm, 10 tubi lanciamissili da 533 mm
LANDING CRAFT INFANTRY

Invasion Training in England 02.jpg
TIPO mezzo da sbarco per fanteria
DISLOCAMENTO 209 t
LUNGHEZZA 48,3 m
VELOCITA’ 15,5 nodi
EQUIPAGGIO 29 uomini
CARICO 209 soldati o 75 t
LANDING CRAFT TANK  


TIPO Mezzo da sbarco per carri armati
DISLOCAMENTO 209 t
LUNGHEZZA 48,3 m
VELOCITA’ 15,5 nodi
EQUIPAGGIO 12 uomini
CARICO  6 carri armati da 40 t o 9 carri armati da 30 t
USS ARIZONA
 USS Arizona (BB-39) - NH 57658.jpg

TIPO Corazzata
DISLOCAMENTO 31.400 t
LUNGHEZZA 185 m
LARGHEZZA 32 m
VELOCITA’ 21 nodi
EQUIPAGGIO 93 ufficiali e 1.639 marinai
ARMAMENTO 12 cannoni da 356,45 mm, 22 cannoni da 127,51 mm, 4 cannoni da 76,50 mm, 2 lanciasiluri da 533 mm

LA GUERRA DEI CONVOGLI. Decisiva per l’esito del conflitto fu la guerra dei convogli, vale a dire lo scontro lungo le rotte marittime (specialmente dell’Oceano Atlantico) per portare i rifornimenti e gli equipaggiamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna e alla Russia, e poi per trasportare in Europa anche soldati e mezzi americani, tutte operazioni che allora avvenivano su navi e non su aerei. La Battaglia dell’Atlantico per gli Stati Uniti cominciò addirittura prima dell’entrata ufficiale in guerra, in quanto erano spesso navi e prodotti americani quelli che viaggiavano verso la Gran Bretagna e lungo la rotta venivano minacciati dai sottomarini tedeschi. Per questo, già prima di Pearl Harbor si verificarono alcuni scontri tra navi militari americane e U-Boot tedeschi. Con l’ingresso ufficiale degli USA nella guerra, i tedeschi acquisirono un iniziale vantaggio, perché i loro sommergibili poterono andare a caccia di mercantili isolati anche lungo le coste americane. Ma presto la US Navy si riorganizzò e insieme alla flotta britannica iniziò a organizzare convogli ben scortati. Divenne determinante il ruolo delle navi di scorta, che furono in gran parte americane, nel senso che anche quelle britanniche erano spesso di produzione americana. A creare una superiorità sui temibili U-Boot tedeschi contribuirono i progressi tecnologi sviluppati soprattutto dagli Stati Uniti. Le navi moderne infatti venivano tutte dotate di radar e di sonar, nonché di efficaci bombe di profondità.
Inoltre gli Stati Uniti realizzarono un numero enorme di portaerei di scorta (classificate CVE, Carrier Vessel Escort), spesso mercantili riadattati ma comunque efficaci nel portare un numero di aerei sufficiente a individuare in tempo i sommergibili nemici e anche ad attaccarli con bombardamenti aerei. Le portaerei di scorta erano grandi circa un terzo delle unità standard, avevano la velocità dei migliori mercantili e ospitavano tra i venti e i trenta aerei, prevalentemente in funzione anti-sommergibile. Oltre a difendere i convogli, le CVE furono usate per trasportare aerei attraverso gli oceani. Queste navi (che si distinsero in un ruolo analogo anche sul fronte del Pacifico) furono realizzate tutte a guerra in corso, con numeri impressionanti: gli Stati Uniti avevano cominciato la guerra nel 1941 con otto portaerei classiche e un po’ antiquate, rischiando anche di perderne una quota significativa a Pearl Harbor, ma per loro fortuna quel 7 dicembre 1941 non erano in porto; alla fine del conflitto avevano messo in mare 143 portaerei, di cui venti maggiori, 10 leggere e il resto portaerei di scorta, 38 delle quali vennero trasferite alla Marina britannica.     
Portaerei di scorta, classe Long Island
   

Marine, il soldato-simbolo americano.
Fra i protagonisti dell’immaginario della Seconda guerra mondiale, i Marine hanno sempre rappresentato un Corpo autonomo fondato nel 1775, nel 1834 furono inseriti nel Dipartimento della Marina, lavorando fianco a fianco con la Marina statunitense ma restandone autonomi. Proprio in prossimità del secondo conflitto mondiali ci furono tentativi per riassorbire i Marine nelle altre strutture, ma il loro eccezionale comportamento durante la guerra fece sì che nel 1947 Washington votasse una legge per l’indipendenza dell’United States Marine Corps. I Marine furono destinati all’impiego quasi esclusivo nel teatro del Pacifico: in Europa la loro presenza fu limitata e circoscritta ad azioni speciali; anche gli sbarchi furono condotti da unità dell’Esercito, a cui team dei Marine fornirono l’addestramento necessario. Nella lotta contro il Giappone i Marine ebbero modo di essere utilizzati al meglio delle loro capacità, cioè dando vita a operazioni anfibie per la riconquista delle isole che erano state occupate dai giapponesi. La strategia scelta dai comandi americani prevedeva il salto da un’isola all’altra, valorizzando al massimo le specializzazioni dei fanti di marina, che presto conquistarono anche l’immaginario collettivo e vennero identificati con il soldato-tipo delle forze americane. Ma questo non vuol dire che essi ebbero vita facile, anzi.
I Marine furono impegnati nelle più aspre battaglie del teatro del Pacifico: Guadalcanal, Bougainville, Tarawa, Peleliu, Iwo Jima e Okinawa. In alcuni casi dovettero vedersela da soli per settimane contro i soldati dell’esercito giapponese, ben trincerati e determinati a combattere fino alla morte. I Marine disponevano di una loro aviazione e di mezzi navali, benché per il grosso degli sbarchi contassero sulla Marina. I soldati in virtù del loro impiego tattico disponevano di un equipaggiamento leggero, non avevano armi pesanti e contavano molto sull’apporto dei loro aerei, non a caso specializzati in attacchi al suolo. Anche l’Aviazione dei Marine era autonoma ma integrata con la Marina così da operare dalle portaerei; arrivò a contare 118mila arruolati. I Marine crearono anche una propria unità di paracadutisti, che si distinse conquistando molte medaglie ma non effettuò mai alcun lancio. Dalle due Brigate che contava inizialmente (19500 effettivi, compresi ufficiali e personale di supporto) l’US Marine Corps arrivò a schierare sei divisione e cinque squadroni aerei, più venti battaglioni di difesa (i marine si occupavano anche della difesa a bordo delle navi, nonché della sicurezza di basi e ambasciate). Nel Corpo durante la guerra furono arruolati 600mila uomini e donne, facendo registrare alla fine 20mila morti e 67mila feriti.  

BATTAGLIE NAVALI A DISTANZA. Le portaerei leggere (CVL) nacquero per l’urgenza seguita alla perdita di tre unità principali nella guerra del Pacifico. Le classi Indipendence eWright vennero realizzate a partire da scafi di incrociatori leggeri già in corso di costruzione. Esse erano destinate a rafforzare le Task Force navali in cui era organizzata la Marina militare statunitense, di solito intorno alle portaerei di flotta (cioè le maggiori) e alle corazzate. Da notare che all’inizio della guerra gli Stati Uniti, al pari delle altre potenze, avevano ancora puntato sulle corazzate come principali navi da battaglia, ma, soprattutto nel Pacifico, si resero presto conto di come l’equilibrio in mare stava cambiando a tutto vantaggio delle portaerei. Benché la forza navale statunitense si incrementò anche con diverse corazzate (dalla South Dakota alla Iowa), con gli incrociatori pesanti delle classi Baltimore e Alaska, gli incrociatori leggeri delle classi Brooklyn e Cleveland, e con i cacciatorpediniere della classe Fletcher, la costruzione di portaerei divenne una priorità. Così, se nell’autunno 1942 erano rimaste solo le portaerei Saratoga, Enterprise e Ranger in servizio sui mari, alla fine del 1943 le portaerei operative dei vari tipi erano diventate oltre 50. senza portaerei la guerra nel Pacifico durante gli anni 1941-1945 sarebbe stata del tutto diversa. Furono le battaglie aereonavali a risultare decisive per l’esito del conflitto in quel teatro. Nel maggio 1942 , nel Mar dei Coralli avvenne il primo scontro navale della storia in cui le navi avversarie non si vedevano, ma tutto l’onere della battaglia ricadeva sugli aeroplani che fecero il loro dovere: oltre a seri danneggiamenti, fu affondata una portaerei per parte. In tutta la guerra quasi tutte le portaerei statunitensi, giapponesi e britanniche, furono affondate per merito di aerei decollati da altre portaerei.
Sempre nel Pacifico fu molto importante anche la guerra sottomarina. Gli Stati Uniti applicarono al Giappone quello che U-Boot tedeschi facevano nell’Atlantico. Gli Americani infatti decretarono una guerra indiscriminata attaccando tutte le navi dirette ai territori giapponesi. I sommergibili USA mutuarono dai tedeschi anche la tattica dei “branchi di lupi”, cioè l’attacco a gruppi. Eppure all’inizio il Giappone era in lieve vantaggio in quanto a sottomarini: nel 1941 ne aveva 60 contro 55 e a differenza degli americani non doveva preoccuparsi dell’Atlantico. Ma anche in questo settore a vincere fu soprattutto l’industria americana: fino alla fine della guerra gli Usa produssero il doppio di nuovi battelli rispetto ai nipponici, 204 contro 106. Inoltre Tokyo perse un numero di scafi molto superiore a Washington, nonostante questa combattesse su più fronti: 125 contro 54. I sommergibili statunitensi furono responsabili della perdita del 55% dei mercantili giapponesi, contribuendo in modo determinante al tramonto del Sol Levante.

Le 10 battaglie più importanti degli americani.
Due di queste battaglie Midway e Golfo di Leyte sono state già trattate nei rispettivi capitoli in questo blog.  Seguiranno le altre battaglie.

MIDWAY, OCEANO PACIFICO 4-6 giugno 1942.

Presso le isole Midway i giapponesi cercarono di attirare in trappola la flotta statunitense per dargli il colpo di grazia dopo Pearl Harbor. Gli ammiragli americani accettarono la sfida. E in pochi minuti cambiarono le sorti della Guerra nel Pacifico. La possente flotta giapponese infatti non riuscì a intercettare quella americana, mentre furono i velivoli delle portaerei Enterprise e Yorktown a piombare in picchiata sulle portaerei giapponesi. In appena cinque minuti ne ridusse tre in rottami fumanti. Dalla Hiryu partì un contrattacco aereo, che riuscì a individuare la Yorktown e la mise a sua volta fuori gioco. Fu l’ultima impresa di quella portaerei giapponese perché altri Dauntless della Enterprise  la raggiungessero e la distrussero. A quel punto la flotta giapponese optò per la ritirata.
GUADALCANAL, ISOLE SALOMONE, 7 agosto 1942-9 febbraio 1943
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Marines della 2ª Divisione si riposano durante una pausa nei combattimenti sull'isola di Guadalcanal (novembre 1942).
Fu l’inferno nella giungla, ma la battaglia di Guadalcanal fu anche una delle battaglie più decisive della Seconda guerra mondiale, perché rappresentò l’evento di svolta nello scontro tra le forze statunitensi e quelle giapponesi: la prima azione di riconquista di un territorio dopo la travolgente ondata di invasioni nipponiche. L’operazione fu lunga, complicata  e drammatica, anche per le condizioni dell’ambiente naturale, ma in questa occasione emersero con evidenza la volontà e l’intraprendenza dei Marine, i quali già il primo giorno conquistarono il loro obiettivo, una pista aerea che poi difesero strenuamente nelle settimane successive pur essendo isolati. Poi in novembre le navi americane riconquistarono il controllo del mare e portarono i rinforzi che fecero vincere la battaglia. 
CAMPAGNA DI TUNISIA, NORD AFRICA 17 novembre 1942 – 13 maggio 1943
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Truppe statunitensi sbarcano presso Orano

La prima azione condotta dagli Stati Uniti in Occidente fu l’operazione Torch, lo sbarco in Marocco e in alcune località algerine, dopo il quale si ottenne rapidamente il cambio di campo delle colonie francesi. restava ancora la Tunisia, dove si erano asserragliate le truppe dell’Asse, spinte via da Egitto e Libia dall’8a armata britannica di Montgomery. Lo scontro in Tunisia fu però più duro del previsto. A dicembre il contrattacco tedesco mise in grande difficoltà gli americani. I leader alleati si unirono a Casablanca e si resero conto della necessità di riorganizzare il fronte d’attacco, costituendo finalmente un comando supremo alleato (Allied Force Headquarters, o AFHQ) affidato al generale Eisenhower. Le forze dell’Asse però colpirono ancora con la vittoria del passo di Kasserine, ma alla fine l’ondata montante delle truppe Alleate, supportata da una schiacciante superiorità aerea, si dimostrò inarrestabile. Tunisi cadde il 7 maggio

SBARCO IN SICILIA, ITALIA 10 luglio – 17 agosto 1943

Il piano di sbarco e la dislocazione delle forze italo-tedesche in Sicilia
Vinta la guerra in Africa, le forze anglo-franco-americane ancora non erano riuscite a mettere piede in Europa. L’operazione “Husky” fu la prima azione di guerra terrestre sul suolo del Vecchio Continente. Per lo sbarco in Sicilia furono radunate tremila navi. Agli americani spettava occuparsi del teatro della parte occidentale dell’isola: in campo c’era la VII Armata del generale George Patton. Il giorno dello sbarco il tempo non fu clemente e le azioni aviotrasportate non ebbero buon esito. Procedettero meglio le azioni anfibie, con lo sbarco delle truppe avvenuto senza eccessivi contrasti. Consolidate l teste di ponte sull’isola e fatte affluire ingenti rinforzi, Patton – i cui soldati si macchiarono di atti feroci verso i prigionieri italiani – occupò Palermo e poi si diresse a est lungo la costa, operando nuove operazione anfibie ogni volta che ritenesse utile aggirare capisaldi difensivi dell’Asse. Il 17 agosto raggiunse Messina. 
       
SBARCO DI ANZIO, ITALIA 22 gennaio-26 maggio 1944

Per aggirare le ostiche difese tedesche, in particolare quelle incentrate sulla linea Gustav e imperniate su Monte Cassino (dove era impegnata la 5a Armata statunitense del generale Mark Clark), e per facilitare la presa di Roma, il comando Alleato decise di effettuare uno sbarco tra Anzio e Nettuno (operazione Shingle). Fu il VI Corpo d’Armata statunitense, guidato dal generale John Lucas, a effettuare con successo lo sbarco approfittando della sorpresa iniziale dei nemici. Già la stessa notte del 22 gennaio 27mila americani, 9mila britannici e 3mila veicoli avevano occupato la testa di sbarco, larga 25 chilometri e profonda dai 4 ai 6. quel primo giorno furono registrate solo tredici vittime. Poi però il generale tedesco Albert Kesselring riuscì a organizzare tanto la resistenza che i contrattacchi e così bloccò gli americani nella loro testa di ponte, da cui riuscirono ad uscire solo dopo aver conquistato Cassino.
SBARCO DI NORMANDIA, FRANCIA  6 giugno 1944

Gli americani e i loro Alleati si erano preparati a lungo per quella che ritenevano l’operazione più importante della guerra. Con lo Sbarco in Normandia avrebbero rimesso piede in Francia. Già la notte del 5 giugno i primi paracadutisti anglo-americani cominciarono ad   atterrare in Francia, per preparare lo sbarco che iniziò poco dopo. La più grande operazione anfibia della storia fu anche un’enorme operazione aerea e di forze speciali. All’alba del 6 giugno oltre 5mila navi provenienti dall’Inghilterra coprì il mare. Dalle imbarcazioni si staccarono i mezzi da sbarco che in più ondate si riversarono sulle spiagge. Per gli americani gli obiettivi furono quelle denominate Utah e Omaha, mentre gli anglo-canadesi si occuparono di Sword, Juno e Gold. In totale, nei giorni successivi gli americani portarono nel nord della Francia 13 divisioni di fanteria, 5 divisioni corazzate e 2 divisioni aviotrasportate. 
BATTAGLIA DEL GOLFO DI LEYTE, FILIPPINE 23-26 ottobre 1944.
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24 ottobre 1944: la nave da battagliagiapponese Musashi sotto il fuoco degli aerei statunitensi della Task Force 38.
La riconquista delle Filippine aveva una valenza strategica, dal momento che fungevano da base aerea e navale naturale per controllare le rotte tra il Giappone e l’Asia sud-orientale. Per questo i giapponesi gettarono nello scontro gran parte della flotta superstite. Fu questo che rese lo scontro di Leyte la battaglia navale più grande della storia moderna. Fu anche la battaglia in cui per la prima volta i nipponici utilizzarono in modo organizzato gli squadroni kamikaze. I giapponesi tentarono di attirare lontano la maggior parte delle navi combattenti americane, ma gli statunitensi avevano navi sufficienti per impegnare tutte le squadre nemiche, senza doverne trascurare alcuna. Un gruppo navale nipponico riuscì comunque a penetrare all’interno del Golfo di Leyte, trovandovi solo tre gruppi di portaerei di scorta, armati soprattutto di aerei antisommergibile: lì avrebbero potuto vincere, ma poiché era notte e l’indemoniata potenza di fuoco delle non grandi unità statunitense fece credere ai giapponesi di avere di fronte il grosso delle forze nemiche. Così i nipponici si ritirarono.  
BATTAGLIA DELLE ARDENNE, FRANCIA 16   dicembre 1944-28 gennaio 1945.

Truppe statunitensi in marcia nella regione di Saint-Vith.
Nella Battaglia delle Ardenne (che gli anglo-americani chiamano Battle of the Bulge) i tedeschi lanciarono la loro maggiore controffensiva in Francia dopo lo Sbarco in Normandia, sperando ancora di poter capovolgere le sorti della guerra. In effetti gli Alleati furono totalmente sorpresi dall’attacco tedesco, che inizialmente riuscì in più punti a sfondare in profondità. Ma inesorabilmente le forze americane ripresero il controllo della situazione e del territorio, dopo che le truppe della 1a Armata americana erano riuscite a rallentare l’avanzata tedesca. a Bastogne, nodo cruciale di tutta l’operazione,  rimasero intrappolate numerose unità americane fra cui si distinsero le truppe aviotrasportate, le quali riuscirono da sole a resistere per settimane all’assedio nemico. il 26 dicembre la III Armata di Patton raggiunse Bastogne e, seppur lentamente, la controffensiva americana proseguì inesorabile fino al Reno.   
IWO JIMA, GIAPPONE, 19 febbraio-26 marzo   1945.
L'isola di Iwo Jima con i tre aeroporti (il terzo in costruzione), la stazione meteorologica e le principali vie di comunicazione
Un’isola non più larga di 4 chilometri, con un solo rilievo alto appena 169 metri. Eppure la battaglia di Iwo Jima, che rappresentò l’epopea dei Marine e incarna uno dei simboli della vittoria americana grazie alla fotografia in cui viene issata la bandiera a stelle e strisce, fu un atroce e prolungato massacro, l’unica battaglia in cui gli americani ebbero più caduti dei giapponesi, 26mila contro 21mila. L’isola di Iwo Jima insieme a quella di Okinawa strategicamente erano luoghi ideali per collocare le basi aeree per colpire il Giappone con i bombardieri B29. il generale Kuribayashi aveva fortificato l’isola, scavando una complessa rete di grotte e di gallerie della lunghezza di oltre 20 chilometri, puntando su una strategia di resistenza e logoramento. Fu contro questa barriera sotterranea che si dovette andare a infrangere l’ondata dei Marine, che dopo essere sbarcati sull’isola il 19 febbraio rimasero a lungo inchiodati sulla spiaggia, sotto il fuoco di artiglierie e mitragliatrici. Nelle settimane successive dovettero conquistare palmo a palmo ogni anfratto dell’isola, mentre anche in mare infuriava la battaglia, che infine arrise agli americani.    
OKINAWA, GIAPPONE, 1 aprile-2 luglio 1945
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Un Marine cerca riparo dal tiro di una mitragliatrice giapponese nel settore soprannominato "Death Valley"

La battaglia di Okinawa può essere considerata la più grande battaglia della storia fra quelle combattute contemporaneamente in terra, cielo e mare. L’isola era stata massicciamente fortificata dai giapponesi per resistere il più a lungo possibile mentre la flotta d’invasone veniva bersagliata dagli aerei basati a Taiwan e nel Giappone meridionale. E così fu: continue ondate di 150-200 aerei giapponesi misero in seria difficoltà la gigantesca flotta statunitense, anche con un susseguirsi di attacchi kamikaze. Intanto a terra, la X armata statunitense formati da fanti e Marine viene inchiodata nel centro dell’isola dalla 32a armata giapponese trincerate nelle alture a sud e impegnata in assalti sanguinosi, che coinvolsero anche la popolazione civile come fino ad allora non era accaduto se non nei bombardamenti. Gli americani fra morti e feriti contarono 50mila vittime, persero  768 aerei di vaio tipo e contarono 36 navi affondate e 368 gravemente danneggiate. Però alla fine l’isola strategica era stata conquistata, ma il prezzo era stato così alto che incise sulla decisione di usare le bombe atomiche per limitare le proprie perdite. 


Le nuove armi che cambiarono le sorti del conflitto.
La guerra fu decisa anche dalla tecnologia e   da nuove armi. Gli Stati Uniti, rispetto ad altre potenze come la Germania, adottarono un atteggiamento stranamente conservatore, pur contando su una ricerca tecnologia avanzata. D’altro canto, furono gli USA a inventare l’arma che oltre a determinare la fine della guerra segnò poi tutta la storia successiva, fino ad oggi: la bomba atomica, senz’altro il prodotto più sconvolgente di tutto il conflitto. A questo caso eclatante gli americani hanno affiancato alcuni avanzamenti che hanno determinato l’efficacia e affidabilità di armi caratterizzate da buona qualità: un esempio il ruolo decisivo giocato dai caccia Mustang quando raggiunsero un’autonomia di volo sufficiente a fare da scorta ai bombardieri in Europa, una altro è il fucile Garand, semplice ma così efficace da essere sopranominato il fucile che ha vinto la Seconda guerra mondiale.
LE SUPERFORTEZZE
B29
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TIPO bombardiere
EQUIPAGGIO 10-14
MOTORI 4 radiali Wright R-3350 turbocomplessi.
LUNGHEZZA 30,18 m
APERTURA ALARE 43,05 m
ALTEZZA 8,46 m
SUPERFICE ALARE 161,6 Mq
Peso 54 T Carico
VELOCITA’ 576 km h
ARMAMENTO fino a 9 t bombe, 12 mitragliatrici Browning M2 calibro 12,7 mm, un cannone calibro 20mm nella cda

I grandi bombardieri americani furono decisi per l’esito del conflitto. Il quadrimotore  B29  entrò in azione sul finire della Seconda guerra mondiale e venne impiegato solo sul fronte del Pacifico. Si trattò del progetto tecnologico militare più costoso di tutto il conflitto e del più grande e avanzato aereo schierato dagli Alleati nella guerra. La Difesa cercava bombardieri dal raggio più lungo possibile: così nacque il B29, che aveva un raggio operativo di 4500 chilometri, con la capacità di trasportare fino a 9 tonnellate di bombe, un record. In un anno di guerra contro il solo Giappone questi bombardieri parteciparono a 34mila missioni d’attacco. Ai B29 venne inoltre affidato il compito di trasportare e lanciare le prime bombe atomiche. Segnarono diverse novità tecnologiche come la cabina interamente pressurizzata  e i computer analogici per comandare dal remoto le mitragliatrici. Di fatto furono i progenitori dei bombardieri strategici .
I FUORISTRADA AVIOLANCIABILI
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JEEP FOR-WILLYS
TIPO 4x4 aviolanciabile
EQUIPAGGIO 2+4 Passeggeri
MOTORE Willys 442 4 cilindri a valvole laterali
LUNGHEZZA 3,33 m
LARGHEZZA 1,575 m
ALTEZZA 1,83 m con il top, riducibile a 1,32m 
PESO 1,105 t
VELOCITA’ 97 km h

La comparsa di una vettura compatta 4x4 utilizzabile per molteplici scopi (la parola jeep deriva dalla pronuncia di GP che stava per General Purpose, traducibile appunto con “uso versatile”) contribuì alle sorti della guerra quanto i mezzi armati. Grazie ad essa, prodotta in centinaia di migliaia di esemplari, gli spostamenti divennero semplici, tanto per gli ufficiali che dovevano percorrere il fronte quanto per le truppe aviotrasportate, dato che le jeep avevano anche una versione aviolanciabile.

IL FUCILE CHE VINSE LA GUERRA
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M1 GARAND
TIPO fucile semiautomatico
PESO 4,3-5,3 kg
LUNGHEZZA 1100 mm
LUNGHEZZA CANNA 610 mm
CALIBRO7,62 mm
TIRO UTILE 500 m
CADENZA DI TIRO 30 colpi al minuto., di fatto ridotta a 16 a causa del riscaldamento.
Il Garand fu il fucile di ordinanza tanto nell’Esercito che dei Marine statunitensi, fu utilizzato su tutti i fronti e prodotto in migliaia di esemplari. Fu il primo fucile semiautomatico prodotto in grandi quantitativi. Soprattutto all’inizio della guerra “americana”, dal 1941, il Garand assicurava al fante statunitense una chiara superiorità in termini di potenza di fuoco nei confronti dei nemici. Infatti ogni militare armato di questo fucile semiautomatico, che si caricava con clip da otto proiettili, poteva sparare 30 colpi al minuto comprendendo il tempo necessario per il caricamento, cioè più del doppio rispetto alla cadenza di fuoco della maggior parte degli altri fucili disponibili. Il Garand poi si dimostrò molto affidabile e venne impiegato con successo su qualsiasi tipo di terreno operativo, dalla sabbia del deserto nordafricano al fango dell’Europa, dall’umidità e dal caldo delle isole dell’Oceano Pacifico alla pioggia e al gelo dei fronti nordeuropei. Per questo fu soprannominato il fucile vinse la guerra e secondo il generale Patton era il più grande ritrovato bellico mai introdotto. 

IL LANCIARAZZI PORTATILE
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TIPO Lanciarazzi
PESO 6 kg
LUNGHEZZA 1390 mm
LUNGHEZZA CANNA 60 mm
GITTATA MASSIMA 700 m
TIRO UTILE 200 m

Nella corsa allo sviluppo degli armamenti, i carri armati fecero in poco tempo passi da gigante, mentre i fanti restavano legati ai fucili classici o alle loro versioni anti-materiale, presto rese inutili dalla crescita della corazzatura. Gli eserciti in guerra si misero alla ricerca di un’arma per i fanti: i tedeschi svilupparono il Panzerfaust, gli americani nel 1942 l’M1 Rocket Launcer 2,36
Bazooka. Si trattava di un lanciarazzi che aveva il pregio dell’essenzialità: era praticamente un tubo con impugnature a pistola e grilletto per l’accensione, costruito in funzione del razzo M6A3 calibro 60mm a carica cava, ritenuto adatto a perforare le corazzature dei panzer. 
IL CACCIA DALL’AUTONOMIA RECORD.

I tre tipi di tettuccio utilizzati sul Mustang
P51 MUSTANG
TIPO caccia e caccia-bombardiere
EQUIPAGGIO 1
MOTORE V12 Packerd V-1650-7 Merlin
LUNGHEZZA 9,9 m
APERTURA ALARE  11,9 m
APERTURA ALARE 11,9 m
VELOCITA’ 703 km h
ARMAMENTO 6 mitragliatrici Browning da 12,7 mm, 2 bombe da 227 kg o 8 razzi aria-terra

La svolta portata dall’arrivo di questo caccia nel 1942 derivava dalla sua autonomia, superiore a quella di qualsiasi velivolo di quel tipo prodotto fino ad allora. Poteva restare in aria per sette ore e mezza e questo permise ai caccia che partivano dall’Inghilterra di sorvolare l’Europa fino alla Germania (ma fu operativi anche nel Pacifico) per scortare efficacemente i bombardieri che fino ad allora avevano dovuto percorrere almeno parte dei loro tragitti sprovvisti di aerei di sostegno. I Mustang riuscirono a ridurre di dieci volte la percentuale di perdite nelle missioni aree sulla Germania. Avevano inoltre una aerodinamica innovativa e una velocità superiore agli altri aerei di categoria, senza rimetterci negli altri aspetti, come le prestazioni ad alta quota. Altra caratteristica era la visibilità a 360 gradi, grazie al tettuccio apribile e alla posizione sopraelevata del pilota, i Mustang avrebbero abbattuto in Europa circa 4950 aerei nemici, la metà di tutti gli aerei distrutti dagli americani. Utilizzato inoltre come bombardiere in picchiata, compì migliaia di missioni in Europa con oltre 8mila tonnellate di bombe sganciate tra il 1942 e il 1944.

IL CARRO ARMATO ANFIBIO
M4 SHERMAN DO

Un carro armato britannico M4 Sherman e un aliante da trasportoAirspeed Horsa in Ranville,Normandia, 10 giugno 1944
TIPO Carro armato anfibio
EQUIPAGGIO 5
MOTORE Continental R975
LUNGHEZZA 6,4 m
LARGHEZZA  2,7 m
PESO 31 t
VELOCITA’ 7 km-h in acqua, 39 km-h a terra
ARMAMENTO
1 CANNONE 75-37 mm, due mitragliatrici 7,62 mm, 1 mitragliatrice 12,7 mm

Uno dei problemi degli sbarchi in massa di truppe condotti dagli Alleati era garantire un fuoco di appoggio mirato. C’era il bombardamento aereo e navale delle zone bersaglio, ma non c’erano armamenti tattici sul campo di battaglia. In collaborazione con i britannici in vista dello sbarco in Normandia (ma la soluzione fu ripetuta anche in seguito) vennero allestiti carri armati anfibi. Si trattava degli onnipresenti M4 Sherman, un tank americano già di per sé decisivo per l’esito della guerra grazie alla produzione e alla sua versatilità, che furono attrezzati con uno schermo di tela, ripiegabile, e 36 camere d’aria di gomma, che potevano essere gonfiate in un quarto d’ora grazie a due bombole d’aria. La combinazione di schermo e camere d’aria garantiva il galleggiamento del mezzo, che si muoveva grazie a eliche posteriori. Venne chiamato Duplex Drive (DD) proprio per la doppia trazione, a motore e a elica.
LA BOMBA ATOMICA.
MK 1 LITTLE BOY


TIPO bomba atomica aeronautica all’uranio
PESO 4,037 kg
LUNGHEZZA 3 m
DIAMETRO 71 cm
ESPLOSIVO 64,13 kg di uranio arricchito all’80%

Fu la determinazione suicida dei soldati giapponesi a spingere il presidente americano Truman ad autorizzare l’impiego delle bombe atomiche in Giappone. Truman infatti temeva che una conquista territoriale dell’arcipelago del Giappone sarebbe costata troppo in termine di vite umane, soprattutto fra i soldati a stelle e   strisce. Il programma per arrivare alla bomba atomica era comunque iniziato da tempo. Il Progetto Manhattan venne avvitato dal presidente Roosevelt dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, ma già nel 1939 Albert Einstein in persona aveva messo sull’avviso che la Germania nazista stava studiando un’arma di distruzione di massa e bisognava  quindi batterla sul tempo. Costato più di due o forse tre miliardi di dollari di allora, il progetto coinvolse non solo le migliori menti dell’epoca – in gran parte venute da diversi angoli d’Europa, compreso l’italiano Enrico Fermi,che guidò l’esperimento in cui si ottenne per la prima volta una reazione a catena controllata: la pila di Fermi – ma anche molte decine di migliaia di lavoratori di ogni tipo in tutti gli Stati Uniti. Gli scienziati di spicco di questa ricerca, guidati da Jiulius Roberto Oppenheimer, nel 1943 furono trasferiti nella base segreta del laboratorio nazionale di Los Alamos, in New Mexico. Vennero sviluppati due progetti  paralleli di bomba a fissione: una ad uranio arricchito con l’isotopo U-235, con un sistema di innesco dal funzionamento simile a una pistola, con un proiettile di uranio sparato contro un bersaglio dello stesso materiale; mentre la seconda, più raffinata, usava un meccanismo a implosione, nel quale un nucleo di plutonio veniva compresso da esplosivo ad alto potenziale, in modo da raggiungere la massa critica e scatenare la reazione a catena incontrollata. A questo secondo tipo apparteneva The Gadget, la bomba utilizzata nel Trinity Test all’alba del 16 luglio 1945. Pochi giorni dopo due possenti B29 vennero modificati per trasportare e sganciare gli ingombranti e delicati ordigni, che intanto furono inviati via mare alle basi delle isole Marianne. Lunedì 6 agosto 1945 il bombardiere Enola Gay lanciò la bomba chiamata Little Boy sulla città di Hiroshima, una bomba all’uranio che sprigionò una potenza di 15 chilotoni. Le vittime dell’esplosione furono circa 80mila. Non ci fu neanche il tempo di riprendersi dallo choc che aveva per sempre cambiato il mondo che il 9 agosto la scena  si ripeté. Stavolta la bomba, al plutonio si chiamava Fat Man, il B29 Bockscar e il bersaglio fu il porto di Nagasaki. L’esplosione scatenò 21 chilotoni di potenza provocando decine di migliaia di vittime. Il risultato strategico fu ottenuto: il Giappone finalmente si arrese, senza rendere necessaria la sua invasione.




Articolo in gran parte di Osvaldo Baldacci pubblicato su Storie di guerre e guerrieri Sprea editori. Altri testi e immagini da Wikipedia