venerdì 14 settembre 2018

Il popolo degli indesiderabili

Il popolo degli indesiderabili.

Prostitute e carnefici, saltimbanchi e giocolieri, attori e balie da latte: la “corte dei miracoli” medievale era formata da una miriade di uomini e donne, tutti accomunati dall’identico marchio d’infamia.
Un articolo con altri reietti nel Medieovo era stato pubblicato sul blog vedi il titolo Vite ai margini.


                                                             Franz Schmidt il boia di Norimberga
Per gran parte della lunga epoca medievale, esercitare un mestiere “infamante” portava a una riduzione, spesso consistente, dei diritti individuali e a una marginalizzazione della vita sociale. Ciò non accadeva solo in Italia, ma in tutti i Paesi della cristianità europea: in Francia, tali lavori si definivano con il termine latino illecites, mentre nell’aerea di lingua tedesca li si etichettava come unehrliched, disonorevoli. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un tipo d’infamia ipso iure,ossia un marchio che ricadeva sul soggetto nel momento stesso in cui costui iniziava a praticare l’attività degradante, senza bisogno di alcun processo. Sant’Agostino, elaborando una sintesi tra mestieri infamanti del diritto romano e quelli identificati dalla religione ufficiale del tardo Impero, distingueva tra occupazioni infami (come ladro, cocchiere, gladiatore, commediante) poco onorevoli (quasi tutte legate al commercio) e quelle che invece permettevano di mantenere l’onestà morale come agricoltore, e artigiano. Nei secoli successivi alla caduta di Roma, però il numero di mestieri infamanti divenne molto più ampio. Città e campagne medievali erano infatti molto gerarchizzate, e ancor più di quelle di età romana mostravano la tendenza a disegnare una piramide di categorie sociali. Alcuni studiosi hanno tentato di sistematizzare le varie specie dei mestieri infami, dividendoli essenzialmente in tre categorie. La prima comprendeva i lavori che avevano un qualche tipo di rapporto con il sangue, la morte e le deiezioni: parliamo di becchini,boia, scuoiatori, barbieri (che spesso erano anche chirurghi), macellai e così via.
Chi esercitava questi mestieri lavorava a stretto contatto con cose sporche, immonde, che segnavano per sempre chi se ne occupava. Gli appartenenti al secondo gruppo, invece, si macchiavano con il guadagno ottenuto attraverso l’esposizione o la vendita del proprio corpo. In questa categoria ricadevano, com’è facile immaginare, le prostitute, ma anche gli attori e i commedianti. Quanto al terzo tipo di mestieri infamanti, esser era composto da mendicanti, girovaghi e scapestrati, ossia coloro che oggi definiremmo “senza fissa dimora”. L’esempio più utilizzato, sia nelle fonti dell’epoca che nella storiografia odierna, per definire le caratteristiche del mestiere infamante è quello del boia. In Germania, l’esecutore capitale doveva provenire da un nucleo familiare con una tradizione in tal senso: in pratica, il figlio di un boia nasceva con il marchio d’infamia già cucito sulla pelle. Inoltre, egli adempiva spesso ad altri compiti degradanti che avevano poco a che fare con il suo ruolo fondamentale, come pulire le strade o controllare l’andamento delle case di tolleranza. Queste ultime rappresentavano, a propria volta, un covo di persone infami: le prostitute diventavano tali non appena iniziavano a esercitare la professione, così come chi le sfruttava, ossia i lenoni.

prostitute in un bordello nel medioevo
Il Gesù descritto nei Vangeli ha un atteggiamento molto personale nei confronti delle prostitute, non solo le tratta gentilmente ma fa di loro addirittura un esempio di fede: "In verità vi dico, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli" (Matteo 21.31). Nel cristianesimo delle origini la prostituta è colpevole di un grave errore morale, ma può essere salvata dalla fede: "... neanche io ti condanno. Va e non peccare più. La tua fede ti ha salvata."
Durante il Medioevo, la prostituzione si poteva comunemente ritrovare nei contesti urbani. Anche se tutte le forme di attività sessuale al di fuori del matrimonio sono stati considerati come peccaminoso dalla Chiesa Cattolica Romana, la prostituzione era di fatto tollerata (seppur in maniera riluttante) perché si riteneva evitasse mali maggiori come lo stupro, la sodomia e la masturbazione[18]; nonostante ciò erano molti i canonisti che premevano ed esortavano le prostitute a convertirsi e cambiare vita.
Molti governi cittadini stabilirono che le prostitute non dovessero esercitare il loro mestiere all'interno delle mura cittadine, ma solamente al di fuori della giurisdizione comunale; in varie regioni francesi e tedesche si adibirono certe strade come aree in cui la prostituzione era consentita. A Londra i bordelli di Southwark erano di proprietà del vescovo di Winchester[19].

epigrafe che prescrive il divieto della prostituzione in via di Castelvecchio aSiena, datata 12 agosto 1704
In seguito divenne pratica comune nelle grandi città dell'Europa del Sud di istituire bordelli sotto il controllo delle autorità, vietando al contempo qualsiasi forma di prostituzione svolta al di fuori di tali locali; l'atteggiamento a cui ci si atteneva maggiormente in gran parte dell'Europa del nord era invece quello del laissez faire[20]. La prostituzione trovò infine un mercato molto fruttuoso durante tutto il periodo delle Crociate


La dinastia dei boia.
Le vicende relative alla trasmissibilità dell’infamia sono ben spiegate  da un episodio avvenuto nella Germania di metà Cinquecento. Nel 1553, dopo aver preso la città bavarese di Hof, il condottiero tedesco Albrecht II di Alcibiades decise di mettere a morte tre armaioli locali che avevano complottato per ucciderlo. Invocando un’antica tradizione cittadina, ordinò che a eseguire fosse una delle persone presenti nella piazza. Tra tutti indicò un tale  Heinrich Schimidt. Per capire il motivo della scelta bisogna andare indietro nel tempo, a un episodio che aveva avuto come protagonista Peter Schmidt, padre di Heinrich, e il suocero Gunther Bergner (Peter aveva sposato la figlia di Gunther). A causa di alcuni problemi con la giustizia, quest’ultimo aveva ricevuto un marchio d’infamia formale e la messa ala bando di tutti i mestieri.  Era diventato quindi boia, mentre Peter Schmidt aveva continuato a esercitare il suo mestiere, così come il figlio Heinrich. Qualche decennio dopo, in quel di Hof,qualcuno indicò proprio quest’ultimo ad Alcibiades, ricordandogli che in fondo, avrebbe potuto avere qualche conoscenza del mestiere.
Heinrich supplicò Alcibiades di non costringerlo a eseguire una condanna a morte, gettando l’infamia su tutta la sua famiglia, ma il condottiero fu irremovibile. La più importante dinastia di carnefici della Germania ebbe così inizio: Heinrich passò infatti il mestiere al figlio Franz, che divenne il più rinomato boia dei Paesi tedeschi.    .
  
DI PADRE IN FIGLIO. I mestieri infami erano comunque fondamentali per l’organizzazione di città, campagne e villaggi. Gli studiosi si sono spesso soffermati sulla dicotomia tra le parole mestiere, che si presenta come intrinsecamente virtuosa, e infamante, aggettivo del tutto negativo. In questa ambigua locazione sta tutta la contraddittorietà di un’epoca che accettava, e anzi cercava di inserire nel proprio disegno etico e sociale, ruoli e soggetti che risultavano al contempo indispensabili e rivoltanti. Non si trattava, infatti di persone che praticavano attività criminali o fuorilegge, come i briganti o i ladri, bensì di uomini e donne impegnati in lavori socialmente utili per quanto intrinsecamente ripugnati e disdicevoli. 
Marchiare come infame una persona era anche un modo per circoscrivere l’esercizio delle pratiche più degradanti all’interno di un certo gruppo sociale, senza contaminare l’intera comunità. L’infamia passava di padre in figlio: così come spesso i buoni natali erano fondamentali per entrare in una corporazione, nell’ordine ecclesiastico o al servizio di qualche potente locale, altrettanto accadeva per le pratiche indesiderabili. Attorno a figure reputate infami ve n’erano altre la cui fortuna dipendeva dalle consuetudini, dagli usi e dalle leggi locali. A volte si trattava di diventare bersaglio di un pregiudizio culturale ed esser considerati, usando una locuzione latina, personae viles et abiectae; altre volte, invece, si veniva legalmente privati di alcuni diritti  parliamo sempre di professioni in cui il contatto con le impurità, sia organiche (umane o animali) che inorganiche, si trasmetteva dall’oggetto al soggetto. Soprattutto le secrezioni corporee umane portavano a una contaminazione fisica e spirituale irrimediabile. Nella lunga e mutevole scala di grigi che andava dagli infami alle personae vilies et abiectae, rientrarono, a seconda dei tempi e dei luoghi, macellai, custodi di bagni pubblici, musicisti, acrobati, buffoni e diverse altre categorie di professioni. L’esclusione sociale si manifestava anche nell’impossibilità di formare una propria corporazione, in un’epoca (specie fra il Due e il Seicento) in cui tali gilde formavano il vero volano economico nella maggior parte dei Paesi europei.
Una delle testimonianze più interessanti in materia di mestieri medievali e rinascimentali è la piazza universale di tutte le professioni del mondo, un volume scritto da Tommaso Garzoni nel 1585. Si tratta di un’opera ricca di dettagli e considerazioni sul lavoro dell’uomo. Quando si parla di degradazione l’autore non usa mezzi termini: dedica un intero paragrafo a chi ha a che fare con escrementi, latrine e pozzi neri che, allora come oggi, andavano svuotati a intervalli regolari per evitare che il contenuto tracimasse: di ciò si occupavano i cavatori di pozzi o “purgatori”. L’autore è quasi dispiaciuto che debbano esistere persone di tal genere, ma afferma che si tratta pur sempre di pozzi, dove gettare le deiezioni. Ancora peggiori sono, per Garzoni, i ‘curadestri’ (in latino Purgatores latrina rum), che provengono dalla “peggiore feccia del volgo”. A differenza dei cavatori a costoro toccava svuotare le latrine pubbliche. In alcune piazze e vie c’erano infatti angoli preposti all’espletazione dei bisogni corporali, e probabilmente bastavano poche ore affinché si creassero accumuli nauseabondi che andavano rimossi. Garzoni è, in questo caso, esplicito quando scrive che i “I curadestri che col solo nome putiscono (puzzano) da sterco per ogni banda, non dovrebbero venire in questa piazza ad ammorbare tanta honorata gente, come in essa si ritrova; ma perché anco in piazza vi son de’ luoghi acconci per loro, gli assegneremo i canti del piscio remotissimo dal luogo, ove passeggia la nobiltà per non imbrattare con le loro toghe de’ dottori, o le spade dei soldati, che vanno volentieri sguzzando per terra a rischio ogn’ora di pigliar su qualche immondizia, come quella de’ curadestri”.
Si tratta della ripugnanza morale di cui abbiamo parlato all’inizio che confinava questi soggetti ai margini della vita cittadini non solo in senso lato, ma anche in senso stretto: erano letteralmente indegni di calpestare la stessa terra dei ceti superiori. Ed è per questo motivo che, nel passo di cui sopra,  l’autore parla espressamente della necessità di relegarli ai “cantoni del piscio”.  Prima dei poveri cura destri, Garzoni parla di un’altra categoria: “A quei mestieri, che han del vile, e del sordido assai, si può numerare ancor il mestiero de’ spazzacamini (…). È parimenti huomo di maloaugurio, perché per il più è nato questo, che, quando i Spazzacamini vanno in volta ,il tempo si conturba, quasi che il cielo di sdegni di ricevere il fumo, e la caligine, che da’ camin leva il rasciatore della spelonca fumicosa per sua onta, e dispetto”. Ancora una volta, sono il contatto con la sporcizia e l’aspetto volgare a disegnare un alone di disgrazia intorno a questi soggetti. E non basta: gli spazzacamini, nell’immaginario comune registrato dall’autore, portano anche sforno e sono, di fatto, invisi al cielo per i fumi che gli levano contro. E il cielo, nel Medioevo, ha uno stretto rapporto con il divino.

Senzatetto in uniforme
In Spagna, come altrove, le professioni considerate infamanti furono condannate e emarginate in vario modo. Basti pensare che un’ordinanza reale comminava una pena consistente ai vagabondi, corrispondente a 8 anni di servizio nell’Esercito o in Marina.
Le caratteristiche distintive del vagabondo venivano specificate nell’ordinanza stessa: chi, senza motivo plausibile, rendeva sua moglie infelice così da provocare scandalo pubblico (e quindi chi abbandonava il tetto coniugale per un certo periodo), chi esercitava il mestiere di giocatore o saltimbanco; i mercanti foranei che percorrevano il Paese vendendo ciambelle,, confetti ecc. Com’è facile da immaginare, si trattava di una norma che non definiva in modo esaustivo la figura del vagabondo, mettendosi all’arbitrio del giudice. Provvedimenti simili furono comuni fino al Novecento inoltrato.


STREGATI DA UNA BALIA. A ricevere il marchio d’infamia sono anche mestieri del tutto insospettabili, almeno nei nostri giorni. nella Piazza universale troviamo gravi accuse nei confronti di balie e nutrici: “Fra gli altri loro difetti ce n’è uno gravissimo, che qualche volta ammaliano i fanciulli (nel senso di “fare una malia o un maleficio” come le streghe che sono, e li fascinano in modo che, con dolore estremo delle madri, e furore infinito dei padri, passano miseramente di questa vita. E altre, come maledette furie infernali gli ammaccono il cervello, o gli succhiano il sangue, o gli sorbiscono il fiato, con pietà immensa veramente di quelle povere e infelici creature”. Ma non è solo l’Europa cristiana a prevedere un marchio d’infamia per questo o quel mestiere. Anche nelle città islamiche, dall’altro lato del Mediterraneo, esistevano lavori considerati ripugnanti. L’usuraio, per esempio, era moralmente condannato (così come in Europa, dove però la sua colpa era di carattere personale), così come i venditori di vino o di maiale, i cantori e le cantanti, i commedianti, le ballerine, i lottatori, i macellai, i cacciatori. A parte le ovvie differenze dovute alle prescrizioni contenute nel Corano, c’era una certa omogeneità, quindi, tra i mestieri infami e disprezzati in Europa e nell’Islam: l’esibizione del corpo e il contatto con sangue e feci (umane e animali) portava spesso alla discriminazione sociale. Allo stesso modo, la mancanza di una residenza fissa faceva sospettare alle autorità civili e religiose, una simmetrica mancanza di moralità e di principi. La società medievale vedeva nei rapporti gerarchici, sia tra le famiglie che tra le varie componenti della comunità, i momenti fondamentali per la costruzione di quella regolarità e quell’ordine che permettevano alla società di procedere correttamente. Viandanti e artisti itineranti rappresentavano l’esatto contrario: la mancanza di legami, di stabilità nei rapporti e nella vita sociale. Anche in questo caso, ci viene in soccorso, con la sua testimonianza diretta, Tommaso Garzoni. Gli attori, sia comici che tragici, vengono considerata alla stregua di cialtroni e buffoni; colpevoli, oltretutto, di essere diventati molto peggiori, quanto a volgarità e scherno, rispetto ai loro omologhi latini. Ma sono i buffoni a ricevere le critiche maggiori: “Ora nei moderni tempi la buffoneria è salito in pregio, che le tavole signorili son più ingombre di buffoni, che di alcuna specie di virtuosi (…) non arrossisce il buffone a vedersi nell’alta catedra, perché tra le altre cose, non conosce cosa sia la vergogna, e sebbene porta le bolle alla fronte dell’infamia, reputa un sommo onore essere circondato da tante persone per virtù famose” (vedi articolo su questo blog c’è poco da ridere).


Articolo in gran parte di Gabriele Campagnano storico medievista pubblicato su Medioevo misterioso Sprea Editori.   

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