Combattere in trincea
L’attacco frontale.
Durante la prima guerra mondiale in un infinito dedalo di buche di fango si lottava per la vita e la vittoria, cercando di contrastare l’avanzata del nemico e guadagnare terreno. Ecco come cambiarono le tattiche militari.
attacco frontale e ammaestramento tattico
Ivan Stanislavovic Bloch (polacco: Jan Gotlib Bloch; russo: Иван Станиславович Блиох, Ivan Bliokh; tedesco: Johann von Bloch; francese: Jean de Bloch; Radom, 24 luglio 1836 – Varsavia, 25 dicembre 1902) è stato un banchiere e un finanziere delle ferrovie polacco.
Dedicò la sua vita privata allo studio della moderna guerra industriale. Fu affascinato dalla devastante vittoria dellaGermania/Prussia sulla Francia del 1870, che gli suggerì che la soluzione dei problemi diplomatici attraverso la guerra industriale era diventata obsoleta in Europa. Pubblicò il suo capolavoro in sei volumi La Guerre Future a Parigi nel 1898, reso popolare nella versione inglese Is War Now Impossible?.
Il banchiere ebreo polacco Jan Gotlib Bloch (1836-1902) era stato testimone della Guerra Franco-prussiana. Fu così impressionato dai terribili effetti delle armi che vi furono impiegate, che dedicò il resto della sua vita allo studio dei progressi bellici nella sua epoca in ogni campo, dagli armamenti alle produzioni industriali e agricole. Verso la fine dell’Ottocento pubblicò, inizialmente in russo, una voluminosa opera (migliaia di pagine) intitolata: E’ oggi possibile la guerra? Basandosi su calcoli matematici era arrivato alla profetica conclusione che la successiva guerra avrebbe confrontato gli apparati industriali prima che gli eserciti, e che sarebbe stata una guerra di trincea, vita dalla nazione con la maggiore capacità di resistere alle privazioni e a una carneficina senza precedenti: sempre che l’esasperazione delle popolazioni non sfociasse prima in una rivoluzione. A conflitto concluso l’Europa sarebbe stata un irriconoscibile cumulo di macerie morali, prima ancora che sociali e politiche. Animato da un sincero spirito umanitario, Bloch le tentò tutte per farsi ascoltare, compreso convertirsi al Calvinismo, li di religione ebraica, per avere udienza tra i potenti della Terra. Ascoltare lo ascoltarono, perché nientemeno che lo zar Nicola II organizzò una conferenza di pace all’Aia nel 1899, dove il banchiere venne invitato e poté distribuire ai partecipanti il suo lavoro. Il tentativo di composizione pacifica delle tensioni internazionali però fallì e le previsioni di Bloch si avverarono: lo zar di Russia fu seppellito dalla rivoluzione, mentre l’imperatore di Germania e il re-imperatore di Austria-Ungheria, sconfitti, verranno deposti dall’avvento di regimi repubblicani. La ricezione delle idee di Bloch da parte dei vertici militari non fu in realtà fredda. Lessero il lavoro e ne rimasero anche impressionati. Certo l’autore del trattato non apparteneva all’élite di militari di professione, eppure l’attenzione che ricevette superò questo ostacolo. Dato che però la guerra sembrava ormai inevitabile, per i militari la questione era completamente diversa: volevano sapere come vincere il conflitto, non che sarebbe stato difficile farlo. Nessuno però aveva ancora capito come vincere una guerra di trincea, tanto più che quella in arrivo sarebbe stata di dimensioni mai prima conosciute.
Tra l’altro i calcoli di Bloch sulle perdite potenziali potevano anche essere sbagliati: e in effetti lo erano, però per difetto, non avendo previsto il banchiere la terribile letalità delle artigliere a tiro curvo. Su un punto i militari si ritrovarono d’accordo con Bloch: qualsiasi tattica sarebbe fallita se il morale delle truppe non fosse stato abbastanza alto. Il Darwinismo sociale aveva fortemente influenzato le culture politiche e le ideologie dell’Occidente: per i popoli come per le specie animali valeva la regola della sopravvivenza del più adatto, e in guerra era più adatta la nazione con il più alto spirito di sacrificio. Dal punto di vista militare questo si traduceva nell’esaltazione del valore di un popolo misurandolo in base al numero dei morti e di privazioni che era disposto a sopportare per giungere alla vittoria: una supremazia antropologica che le dottrine tattiche tradussero inevitabilmente in un’irresistibile congenita propensione all’offensiva del fante armato di fucile e baionetta. Così i francesi nel loro Réglement del 1913, opera in gran parte del colonnello Louis de Grandmaison, precisavano che “L’esercito francese, tornando alle proprie tradizioni, da ora in poi non conosce altra legge che l’offensiva”. E per i tedeschi le cose non erano diverse: la guerra sarebbe stata furor gallicus contro furor teutonicus. Lo scopo principale dell’addestramento era quello di coltivare ed esaltare nelle truppe le proprie naturali inclinazioni belliche e a questo scopo puntavano anche espedienti psicologici come l’uniforme con i pantaloni rossi con i quali le truppe francesi affrontarono i primi mesi di battaglie: un orgoglioso retaggio del passato che doveva collegare i combattenti di oggi alla tradizione dei loro padri e nonni, ma che li distingueva nitidamente dal paesaggio circostante, trasformandoli in bersagli perfetti. In questo clima dottrinario la funzione di coordinamento tattico degli ufficiali diveniva secondaria, rispetto a quello più urgente di esaltare negli uomini, con il proprio esempio e lo stimolo, le loro caratteristiche etniche. In Italia, nel 1888 il trentottenne maggiore Luigi Cadorna aveva spiegato in un articolo della Rivista militare, come per vincere una guerra moderna, si dovesse puntare unicamente all’annientamento del nemico. Un obbiettivo che era inevitabilmente destinato a sfociare in un brutale attacco frontale e che sarebbe stato risolto a vantaggio del combattente più determinato e numeroso. Quasi trent’anni dopo il “generalissimo” Cadorna non aveva cambiato opinione. Quel suo articolo, con poche revisioni e modifiche, diventò nel 1915 la dottrina ufficiale dell’Esercito italiano, pubblicata in un libretto con la copertina rossa intitolato: attacco frontale e ammaestramento tattico. Attaccando una vasta fronte dello schieramento nemico si poteva individuare il punto di cedimento sul quale esercitare un’ulteriore pressione allo scopo di provocargli il massimo delle perdite. Semplice, razionale, infallibile. Inutile anzi, controproducente, cercare soluzioni di attacco alternative, quando, in definitiva, quell’imbuto logico avrebbe inevitabilmente condotto a uno scontro frontale tra masse disciplinate e determinate. Se non funzionava, la colpa andava cercata nell’indisciplina e nella svogliatezza delle truppe e di chi le comandava sul campo.
Con la Prima battaglia della Marna (15-12 settembre 1914) sul Fronte occidentale, si concluse quella che noi oggi chiamiamo la Fase di movimento della Grande Guerra e con essa l’illusione che il conflitto potesse essere breve. Durante le prime settimane delle operazioni era già parso evidente che bastava una minima pausa o il minimo intoppo nella conduzione di un’operazione offensiva per consentire ai difensori di attestarsi in un trinceramento. Per quanto improvvisato e precario fosse (e ben lontano dalle elaborate opere degli anni successivi) esso era comunque sufficiente per garantire ai difensori di resistere a forze molto superiori, con un chiara economia di soldati che potevano esser impiegati altrove. La posizione campale aveva alle proprie spalle una lunga storia. Durante le fasi conclusive della Guerra civile americane, per esempio, i Confederati erano ricorsi a estesi trinceramenti, che anche precedentemente nella Battaglia di Fredricksburg (11-15 dicembre 1862) erano costati agli Unionisti perdite gravissime. E in tempi più recenti le Guerre Balcaniche (1912-13) e la Guerra Russo-giapponese (1904-1905) avevano conosciuto un ampio impiego di trinceramenti e fasi della guerra di posizione. Non si può dire, quindi, che per le armate europee le trincee costituissero una sorpresa. Fu piuttosto la dimensione del fenomeno a cogliere alla sprovvista i militari e soprattutto la sua rapida evoluzione verso un sistema già molto sofisticato nell’autunno 1914. alla cristallizzazione del conflitto contribuirono diversi fattori correlati tra loro in una catena diabolica capace di trasformare una banalissima buca nel fango in un incubo per gli apparati militari, con un’infinita serie di problemi che da quella buca risalivano fino agli alti comandi strategici dislocati nelle retrovie. In primo luogo, la combinazione tra copertura e potere di fuoco creava agli attaccanti un vero e proprio enigma tattico. Le fortificazioni campali fornivano protezione ai difensori durante la fase di fuoco preparatorio di artiglieria: pensati per appoggiare un attacco in campo aperto, i cannoni erano a tiro diritto e non penetravano le postazioni difensive, risultando scarsamente efficaci. Appena questo fuoco cessava per permettere l’assalto delle fanterie, i difensori uscivano dai propri rifugi e prendevano posizione facendo fuoco sui nemici, ormai allo scoperto. Ben presto i difensori impararono a tenere in prima linea il minor numero di truppe possibili, in modo che bombardarla fosse praticamente inutile, tenendo il grosso dei soldati in rifugi arretrati, al riparo dai cannoneggiamenti più violenti. Anche se alcuni difensori erano stati messi fuori combattimento dal fuoco preparatorio, i moderni fucili con la loro cadenza di 20 colpi al minuto, e a maggior ragione le mitragliatrici capaci di spararne 600, consentivano a pochi uomini di avere la meglio su forze largamente superiori, dando alle riserve fresche il tempo necessario per occupare le trincee. La mitragliatrice aveva alle sue spalle una storia relativamente recente: i primi modelli di armi automatiche moderne erano stati usati sui campi di battaglia nella Guerra Civile americana (vedi articolo sulla Gatling, pubblicato su questo blog) e della Guerra Russo-giapponese e in varie operazioni coloniali. Qualche dato di esperienza sulla loro efficacia era dunque disponibile, ma le conclusioni cui erano arrivati gli alti comandi erano, purtroppo, solo parzialmente esatte. La prima, quella che più interessava i militari, viste le dottrine offensive del primo Novecento, riguardava l’inutilità della mitragliatrice nell’attacco: era infatti troppo pesane e ingombrante per seguire l’azione in avanzata e, paradossalmente, sparava troppi colpi e quindi richiede di essere accompagnata da una squadra di portamunizioni, aggravando ulteriormente la sua praticità d’uso. La seconda considerazione riguardava i dubbi sul suo funzionamento: l’arma non era ancora perfezionata, si inceppava frequentemente e si surriscaldava dopo poche raffiche, divenendo inutilizzabile. Francesi e tedeschi iniziarono la guerra con solo due mitragliatrici per battaglione: una quantità risibile eppure sufficiente a cambiare il corso della guerra di movimento in guerra di posizione. Una squadra di mitraglieri poteva valere quanto una compagnia di fucilieri e confondeva gli attaccanti sull’entità delle forze avversarie. Inoltre era sufficiente la raffica di una mitragliatrice occultata in un approntamento difensivo improvvisato per arrestare l’avanzata anche di forze consistenti, che dovevano organizzare un assalto in piena regola per averne ragione, con un conseguente rallentamento dell’azione che poteva avere ripercussioni sul coordinamento generale delle operazioni. All’efficacia delle mitragliatrici contribuì notevolmente l’impiego su vasta scala del filo spinato. Nato per contenere le grandi mandrie di bestiame, il filo spinato proteggeva le trincee con disposizioni intricate e profonde anche decine di metri che incanalavano l’attaccante verso il tiro incrociato delle mitragliatrici. L’artiglieria non lo danneggiava in modo significativo e le fanterie erano costrette a sforzi enormi per avanzare anche solo pochi passi. Questo senza parlare delle artiglierie, la cui qualità e il cui numero crebbero molto negli anni di guerra. Come abbiamo visto, inizialmente erano a tiro dritto, una caratteristica che le rendeva poco utili contro un nemico in trincea. Dal punto di vista operazionale la trincea presentava altri dilemmi di non facile soluzione per manovre di aggiramento alle quali si suppliva con uno studio maniacale del terreno e della disposizione delle forze nemiche come in una gigantesca partita a scacchi. L’unica opzione disponibile per l’offensiva sembrava essere l’attacco frontale a ondate di linee di fanterie, ma come anticipato pochi uomini e poche armi automatiche erano sufficienti a tenere una posizione contro forze preponderanti, tanto più che gli enormi eserciti popolari degli stati nazione, permettevano di ammassare un numero di uomini mai raggiunto prima: in media 16 e più per metro lineare del sistema ininterrotto di trincee che dal Canale della Manica proseguiva fino alle Alpi svizzere, per riprendere poi su quelle italo-austriache. Questa abbondanza di truppe consentiva di conservare consistenti riserve alle spalle delle unità nella prima linea, non solo per rimediare a un suo eventuale sfondamento, ma soprattutto per un contrattacco che riconquistasse il terreno perduto. I sistemi difensivi trincerati si fecero via via sempre più sofisticati e profondi, orientati ad assorbire lo sforzo nemico: le difese tedesche raggiunsero anche i 15 chilometri , ma quelle alleate non erano di molto inferiori.
Il piano britannico per l'assalto frontale alle trincee tedesche nella Battaglia della Somme
L’assalto frontale.
carica alla baionetta.
L’assalto frontale a ondate successive fu la tattica più comune per larga parte della Grande Guerra. Dispendiosa in termini umani e materiali, non otteneva mai risultati eclatanti, ma fu anche l’unico sistema che si riteneva avesse qualche probabilità di riuscita. Nel corso della guerra questa tattica fu costantemente perfezionata utilizzando tecniche organizzative d’avanguardia: per esempio programmando fasi di intervento, coordinando tra loro azioni con direttrici di attacco diverse, stabilendo con precisione inizio e fine dei bombardamenti.
PRIMA FASE –
Prima di un attacco i comandi svolgevano una lunga e meticolosa preparazione. La conformazione geografica dell’obiettivo era attentamente studiata utilizzando ogni strumento possibile: dall’osservazione diretta alla fotografia aerea. Venivano poi predisposte le posizione di artiglieria affinché bombardassero l’area in modo coordinato a seconda del loro raggio di tiro. Un eventuale successo dell’attacco doveva poi essere accompagnato da un avanzamento della stessa artiglieria e anche queste sue future posizioni dovevano essere stabilite in anticipo. Nelle retrovie si accumulavano riserve di munizioni, proporzionate all’entità del martellamento di artiglieria. Le unità da impegnare nell’attacco venivano fatte affluire in centri di raccolta, per quanto possibile lontani dalla vista del nemico.
SECONDA FASE- L’ASSALTO
L’assalto frontale a ondate veniva condotto con altrettanta meticolosità, secondo una precisa tabella di marcia. Quando si riteneva che il bombardamento avesse ottenuto i risultati sperati, pattuglie armate di cesoie iniziavano ad aprire il varco nei reticolati nemici, per sgombrare la strada alle truppe d’attacco. All’ora designata le unità sarebbero andate all’assalto succedendosi l’una dietro l’altra seguendo lo stesso schema: la prima linea era composta da uomini armati di fucile e mitragliatrici leggere, distanziati tra loro da due a dieci metri, il cui scopo era rispondere con maggior efficacia possibile al fuoco nemico, come una piattaforma di fuoco mobile. Seguiva una linea di rincalzi e di uomini armati di lanciagranate o mortai leggeri che con il loro tiro curvo contribuivano al fuoco di soppressione contro il nemico trincerato.
TERZA FASE: IL COMBATTIMENTO ALL’INTERNO DELLA TRINCEA.
Una terza e ultima linea era composta dagli assaltatori armati soprattutto di bombe a mano e strumenti per il corpo a corpo, ai quali spettava l’arduo compito della conquista materiale della trincea. Questa era una fortezze in se stessa e veniva contesa metro per metro. Nella conformazione a “greca”, come in altre similari, le parti rientranti, chiamate traverse, servivano ad impedire che il difensore fosse colpito di infilata. L’interno della trincea diventava teatro di un lungo e faticoso combattimento condotto passo passo con meticolosa determinazione dagli assalitori e strenuamente difeso dagli occupanti: bombe a mano lanciate oltre la traversa preparavano l’intervento degli assaltatori con armi bianche e contundenti che finivano nemici feriti o storditi, o venivano impiegate nei corpo a corpo contro chi poteva opporre resistenza.
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L’ORGANIZZAZIONE LOGISTICA. Per avere ragione di un simile apparato difensivo, l’attaccante doveva ammassare nelle retrovie enormi quantità di uomini e materiali: un’operazione di tale impegno ed entità che non poteva passare inosservata. Richiedeva settimane, se non mesi, di preparazione per il solo tempo necessario ad accumulare le munizioni di artiglieria del bombardamento preparatorio. Il fattore sorpresa era già dunque fatalmente compromesso prima che questo fuoco di ammorbidimento preliminare avesse inizio. La sua durata poteva poi prolungarsi per settimane per essere di qualche utilità, facendo perdere qualsiasi dubbio su quale fosse il settore del fronte che il nemico era intenzionato ad aggredire. Infine, quella buca nel fango creava un problema di organizzazione logistico-strategica di dimensioni assolutamente inedite. Una guerra che doveva durare poche settimane stava al contrario bruciando risorse inimmaginabili e non preventivate persino dai profeti di sventura. Al di là degli sforzi produttivi delle industrie nazionali per tenere il passo dell’avidità delle munizioni e armi da guerra, nessun sistema di trasporto dell’epoca, su ferro o su gomma, poteva soddisfare questa insaziabile fame di uomini e armamenti, e la scarsità di proiettili favoriva il difensore, che ne necessitava in quantità molto inferiore all’attaccante. Già nelle prime settimane del 1915 gli eserciti avevano consumato le loro riserve e si trovarono a combattere con i colpi contati. Questo congiurare di fattori verso la cristallizzazione del conflitto in una guerra di trincea era un problema che le gerarchie militari si affannarono inutilmente a risolvere. Le dottrine non prevedevano alternative all’attacco frontale, anzi le sconsigliavano. La prima risposta ai suoi sanguinosi fallimenti fu perfezionarlo con l’esperienza, accumulando più uomini e più cannoni e soprattutto introducendo bocche da fuoco di calibro sempre maggiore a tiro curvo, più efficaci contro le trincee. Gli assalti di fanteria fallivano comunque, perché difesa e con attacco erano troppo avvantaggiate. I gas aggiunsero forza all’azione offensiva ma si dimostrarono ugualmente incapaci di favorire uno sfondamento decisivo degli approntamenti difensivi disposti in profondità.
La battaglia di Verdun, durata quasi l’intero 1916, ideata dal generale tedesco Erich von Falkenhayn, rappresentò una completa rivoluzione tattica e un implicito rovesciamento delle dottrine con le quali gli eserciti europei avevano iniziato il conflitto. La fanteria era universalmente considerata la regina delle battaglie e l’artiglieria il suo supporto, ma Verdun ribaltò il paradigma: il nuovo dogma divenne “L’artiglieria conquista, la fanteria occupa”. I grandi calibri delle artiglierie a tiro curvo, e magari anche i gas, potevano polverizzare l’avversario, purché fossero in numero e con munizioni sufficienti, e ai fanti sarebbe bastato farsi una passeggiata sulle macerie per vincere la battaglia. C’erano però due errori in questa svolta tattica: il primo era quello di riservare alle fanterie un ruolo subalterno che negava tutte le pretese di superiorità antropologica sbandierate prima del conflitto, compromettendo la forza morale degli uomini, il secondo era che l’artiglieria poteva effettivamente distruggere ogni essere vivente nella prima e magari anche nella seconda linea difensiva, ma poi ce n’erano una terza e una quarta e forse anche una quinta intatte, di fronte alle quali la fanteria sfiduciata si trovava a combattere senza alcun sostegno. Il progresso tattico nella Grande Guerra era destinato a conoscere nuovi passaggi evolutivi che si dimostrarono forieri di grandi sviluppi negli anni successivi, ma che non furono comunque sufficienti a risolvere il dilemma trincea. I tedeschi elaborarono già a partire dal 1916 la dottrina di impiego delle unità d’assalto, le Sosstruppen che venivano specificatamente addestrate per aprire varchi nelle difese nemiche, attraverso i quali sarebbero penetrate altre forze per il proseguimento dell’azione. Precedute da un bombardamento breve ma intenso e concentrato in una ristretta porzione del fronte, le Stosstruppen facevano un uso esteso di armi d’appoggio come lanciafiamme, mortai d’accompagnamento e lanciagranate, mitragliatrici leggere, cannoni di fanteria. Potere di fuoco e aggressività effettivamente consentivano rapidi sfondamenti e penetrazioni iniziali, che era però difficile sfruttare in modo altrettanto efficiente con le truppe di rincalzo. Così dopo un iniziale successo l’operazione si arenava prima di ottenere risultati decisivi. I britannici ricorsero invece a una soluzione tecnologica: i Tank. I carri armati, però, erano ancora troppo inaffidabili, lenti e vulnerabili all’artiglieria nemica. Potevano anche ottenere successi iniziali strabilianti, analoghi a quelli delle Stosstruppen, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: le difese trincerate, sviluppate in profondità, resistevano mortificando qualsiasi volontà offensiva. Alla fine la trincea prevalse su qualsiasi tentativo di superarla, regina crudele e inviolabile dei campi di battaglia della Grande Guerra.
Evoluzione della tattica nelle battaglie.
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TANNEBERG 26-30 agosto 1914
Sul fronte orientale i russi avevano forze praticamente doppie rispetto all’esercito germanico e assunsero prepotentemente l’offensiva, rispondendo alla richiesta di aiuto dei loro alleati, in gravi difficoltà sul fronte occidentale. I tedeschi però, in una settimana distrussero i propri avversari, approfittando di un’intercettazione radio che svelò i loro piani. Si comprese così che la tattica militare doveva avvantaggiarsi e padroneggiare le innovazioni tecnologiche, e si ebbe conferma del potere distruttivo raggiunto dalle armi a disposizione, capaci di ribaltare qualsiasi rapporto di forze.
I generali Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff sul campo di battaglia di Tannenberg |
VERDUN
21 febbraio- 20 dicembre 1916
Dissanguare a morte il nemico: questo l’obiettivo dell’alto comando germanico nella battaglia di Verdun, una gabbia dove i francesi dovevano essere confinati e distrutti. Un radicale cambiamento tattico. I ruoli tra fanteria e artiglieria si invertirono: l’artiglieria avrebbe distrutto e la fanteria si sarebbe limitata ad occupare il terreno. 303 giorni di battaglia e forse un milione di morti e feriti da entrambe le parti non furono sufficienti per piegare i francesi. Ampi tratti del territorio di Verdun sono ancora oggi talmente inquinati da essere pericolosi e vietati all’insediamento umano.
i 300 giorni d'inferno di Verdun.
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5-12 settembre 1914
I francesi lo chiamarono il miracolo della Marna, e fu effettivamente una vittoria decisiva che salvò
La manovra dell'esercito tedesco prevista dal piano Schlieffen |
24 ottobre – 12 novembre 1917
Il disastro italiano a Caporetto fu il risultato più eclatante delle innovazioni tattiche della Grande Guerra: gas, bombardamenti intensi e improvvisi e, soprattutto la novità rappresentata dalle Stosstruppen. Superiori di circa un terzo rispetto agli italiani, con il doppio di artiglierie, e anche agevolati dall’impreparazione del dispositivo italiano e all’inadeguatezza della reazione degli alti comandi, le truppe austro-tedesche penetrarono in profondità lungo le valli, aggirando i capisaldi in montagna per provocare il caos nelle retrovie. Morti e feriti furono quasi alla pari, ma i prigionieri italiani furono 265mila.
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SECONDA BATTAGLIA DI YPRES
22 aprile – 25 maggio 1915
La tecnologia entra nuovamente nell’evoluzione della tattica, corroborando la convinzione che la risposta per risolvere il dilemma della guerra di trincea fosse un ulteriore balzo nella distruttività delle armi. A Yepres i tedeschi inondarono i loro avversari con oltre 170 tonnellate di gas cloro, concentrate in poco più di
trincea di Ypres |
CAMBRAI.
20 novembre-7 dicembre 1917
Una forza di 476 tank britannici sferraglianti assalì all’improvviso le difese tedesche. Invulnerabili alle mitragliatrici, nonostante la loro lentezza sfondarono reticolati e travolsero trincee. Furono più i mezzi bloccati da guasti meccanici che quelli distrutti dal nemico e questo bastò a spegnerne l’impeto e a fermarne l’avanzata. Senza il loro appoggio la fanteria britannica si trovò isolata e vulnerabile ai contrattacchi nemici. Il mezzo era senza dubbio interessante, ma il suo sviluppo tecnologico era ancora troppo acerbo per risultare decisivo come sarà invece nella Seconda Guerra Mondiale.
carro armato inglese distrutto durante la battaglia. |
Le truppe d’assalto.
Un soldato delle truppe d'assalto posa con il suo MP 18. È possibile vedere il caratteristico Stahlhelm, la divisa modificata con toppe di rinforzo su gomiti e ginocchia e le ghette a sostituire gli stivaloni del 1914.
L’esercito tedesco fu il primo a dotarsi di truppe d’assolto, le famose Stosstruppen, destinate a diventare un modello al quale si ispirano tutt’ora gli eserciti moderni. Capaci di azioni decise e potentemente dotati di armi d’appoggio quali lanciafiamme, mitragliatrici leggere e cannoni da fanteria, le Stosstruppen agivano su un fronte ristretto rispetto agli assalti frontali, contando sull’effetto sorpresa e sull’avanzata in profondità. L’esercito italiano nel 1917 introdusse i reparti di Arditi: tra i loro successi la conquista da parte del IX reparto d’assalto del Col Moschin, il 16 giugno 1918, del massiccio del Monte Grappa, in 10 minuti di furiosi combattimenti corpo a corpo.
Stoßtruppen in azione nella regione dello Champagne coperti da una cortina fumogena, 1917 circa.
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Il fucile era l’arma più diffusa sul campo di battaglia della Grande Guerra ed aveva caratteristiche abbastanza comuni in tutti i modelli: il calibro oscillava tra i
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