Un cosmo di pietra.
In cima alle colonne che sorreggono le chiese romaniche si annidano volti mostruosi, figure chimeriche, scene bibliche. Contrariamente a quanto accadeva nell’arte classica i capitelli diventano vivi, unici, pieni di sorpresa e di mistero.
capitello romanico del duomo di Parma
capitello romanico del duomo di Parma
Le parole “capitolo” e “capitello” si assomigliano in quasi tutte le lingue perché derivano dalla stessa radice latina: caput, ossia inizio, testa. Questo tipo di similitudine risultava particolarmente significativo in epoca medievale, quando si riteneva che le coincidenze celassero sempre una spiegazione di ordine superiore: secondo la mentalità dell’epoca, se due parole risultavano simili era per via di qualche parentela nascosta tra loro, un legame segreto voluto da Dio. Il concetto di casualità era infatti guardato con estremo sospetto, perché nel Creato non poteva esserci posto per il caos e per l’irrazionalità. Così, poiché ogni chiesa, basilica o cattedrale riproduceva simbolicamente non solo l’assemblea dei fedeli, ma anche il corpo di Cristo crocifisso e il libro delle Sacre Scritture, allo stesso modo i capitelli delle navate erano interpretabili come capitoli della Bibbia. Tutto ciò viene spesso argomentato per fornire una spiegazione a un fatto che pone molti dubbi agli storici dell’arte e agli iconografi del Medioevo. Non si comprende bene, infatti, in che modo gli architetti del periodo romanico (ma la cosa era cominciata bene prima, già in epoca romano-barbarica) abbiano cominciato a usare i capitelli di pieve, chiese, basiliche e cattedrali come superfici illustrative. In epoca medievale si era soliti reimpiegare i materiali di spoglio antichi, ricavandoli da templi pagani e palazzi in rovina. Fra questi, soprattutto i magnifici capitelli dei tradizionali ordini architettonici di età classica, i quali erano a volte riccamente decorati, come per esempio quelli corinzi, con le loro foglie d’acanto. Ma l’arte greco-romana non destinava mai quelle superfici a forme di narrazione scultorea; i nuovi architetti, invece, iniziarono a decorare i capitelli dando sfogo alla massima libertà espressiva. Ciò avvenne per gradi, prima di tutto allontanandosi dai canoni dell’arte classica.
capitelli nel chiostro dell'abbazia di Moissac, nei Pirenei francesi (1115)
Giuseppe conduce l’asinello che porta Maria e Gesù Bambino lontano da re Erode, che ha ordinato la morte di tutti i neonati di Giudea.
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NOVITA’ DALLA BORGOGNA. Già nella prima metà del VII secolo, la chiesa longobarda di Sant’Eusebio a Pavia presentava curiosi capitelli dotati di forme concave ovali o triangolari, probabilmente ispirate all’oreficeria delle’epoca e, forse, originariamente riempite di paste vitree colorate. Rispetto alla severità imposta dagli ordini architettonici classici, gli scultori medievali facevano sfoggio di una sfrenata libertà espressiva. Essa derivava anche dall’esempio dei Bizantini, a loro volta ormai lontani dai canoni greco-romani: nei territori soggetti a Costantinopoli, i capitelli mostravano motivi vegetali e l’uso del trapano per la creazione di fori capaci di suscitare sorprendenti effetti di chiaroscuro.
Il nuovo gusto romanico, invece, si concentrò sulla maestria di sfruttare le limitate superfici dei capitelli per rappresentare scene bibliche, raffigurazioni di animali o fantastiche. Un’abilità che, in certi casi, raggiunse picchi virtuosistici, come nel caso della cattedrale di Autun. Della basilica di Vézaly o dell’abbazia di Cluny, tutte in Borgogna. Quest’ultima, edificata tra il 909 e 1130, dev’essere considerata la culla dello stile scultore romanico, nonché la più famosa e prestigiosa istituzione monastica dell’intero Medioevo: sfortunatamente venne saccheggiata durante la Rivoluzione Francese , dopodiché fu utilizzata come cava di pietre per edifici fino al 1813. Conserviamo ancora alcuni capitelli del deambulatorio, precedenti l’anno 1095, in cui troviamo soggetti molto diversi tra loro e, spesso, ispirati all’arte classica, ma rivisitati con tutta la fantasia, l’energia e l’immediatezza medievali: apicoltori, atleti, stagioni dell’anno (un tema, questo, molto apprezzato da tutta larte romanica, soprattutto in Francia e in Italia), virtù cardinali e teologali, allegorie dei Vangeli e perfino una reinterpretazione del tipico motivo a foglie d’acanto dell’ordine architettonico corinzio.
Originalissimo è anche il modo in cui gli scultori dell’epoca affrontano il problema del collegamento tra le diverse facce del capitello. Spesso gli animali o i personaggi scolpiti condividono un’unica testa angolare per due corpi, e ciò ha indotto alcuni studiosi a riconoscere in tali raffigurazioni delle mostruosità tratte dai bestiari o dai racconti fantastici dei viaggiatori dell’epoca; in effetti si tratta soltanto di un modo molto ingegnoso di risolvere i problemi prospettici, dilatando i volumi per offrire più punti di vista del medesimo soggetto.
L’episodio dell’impiccagione di Giuda Iscariota, narrato negli atti di Matteo e Luca, è il soggetto di uno dei capitelli di Autun. La scena è altamente drammatica, resa ancora più terrificante dalla presenza di due demoni ghignanti che tirano il cappio con cui il traditore di Cristo viene appeso all’albero di fico. Il suicidio, dunque, è perpetrato per mano di Satana. La borsa con i 30 denari compare al fianco di Giuda. Le spirali formate dalle fronde degli alberi circostanti concorrono a dar vita ad un’atmosfera surreale e sinistra, che anticipa i paesaggi infernali che attendono l’anima dell’ex discepolo di Cristo. anche la sua nudità allude all’imminente distacco dell’anima dal corpo. La bocca spalancata assomiglia a quella dei diavoli venuti a condurlo alla rovina e a prelevarne l’anima.
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UN SEGRETO CHE FORSE NON C’E’. Alcuni soggetti risultano così frequenti da costituire un enigma interpretativo per gli studiosi di oggi. Centauri e sirene, per esempio, appaiono sui capitelli delle chiese di mezza Europa in numero così copioso da farci sospettare che il loro simbolismo fosse condiviso da tutto il mondo cristiano d’Occidente. Questi ibridi animale-uomo derivano sicuramente dai miti classici, ma dovevano apparire sotto una luce tutta diversa agli occhi medievali, probabilmente come allegorie spirituali. Il caso delle sirene è particolarmente curioso, perché esse occupano spesso un settore ben preciso della chiesa, ossia quello in prossimità del portale settentrionale, tradizionalmente dedicato alla Madonna.
Il tentativo di rintracciare un sistema nella posizione dei simboli raffigurati sui capitelli di età romanica ha impegnato gli studiosi di molte discipline. Nel saggio Pietre che cantano, il musicologo tedesco Marius Schneider (1903-1982) ritiene di aver rintracciato un particolare valore musicale nelle sculture che decorano i capitelli di alcuni chiostri spagnoli. Ma le interpretazioni simboliche sono infinite e spaziano dall’esegesi biblica all’alchimia, dai miti barbarici al folclore. I più ritengono che no vi possa essere un’unica chiave capace di dischiudere il segreto della scultura medievale, e che anzi tale segreto forse non esista affatto. Escludendo le raffigurazioni di sicura matrice biblica o quelle legate al simbolismo cristiano, ciò che rimane potrebbe essere un coacervo di temi derivanti da tradizioni diverse: elementi di provenienza classica, barbarica o bizantina, ma ormai privati di ogni valenza semantica o allusiva, andata perduta nel tempo o nella lontananza dei modelli di provenienza. Insomma, gli scultori medievali si trovarono a disposizione di un gran numero di soggetti sicuramente familiari alla gran parte dei loro contemporanei e molto decorativi, ma non per questo dotati di significati ancora condivisi. Il lapicida che scolpiva una chimera forse non le attribuiva nessun significato particolare, e tantomeno la inseriva in una posizione precisa all’interno del disegno complessivo dell’architettura di cui quel capitello faceva parte. Più che di simbolismo, bisognerebbe allora parlare di puro virtuosismo estetico. Il fatto che noi ci scervelliamo per rintracciare il senso nella selva di bizzarrie creata dai capitelli di età romanica deriva dal fatto che cerchiamo disperatamente una coerenza fra la mentalità dell’epoca e l’operato dei suoi artisti. Come afferma Marie-Madelein Davy (1903-1998) nel Simbolismo medievale, “la conoscenza medievale è un tutto: ogni elemento è collegato all’altro. Come se ne afferra uno, tutti gli altri sono ben presto circoscritti”. Ciò è sicuramente vero in termini ideologici, spirituali e culturali, ma potrebbe non esserlo nella concretezza delle opere che i nostri antenati medievali ci hanno tramandato.
Questo è forse uno dei capitelli più eleganti e famosi fra quelli di Autun. È notte: i Re Magi, venuti dall’Oriente per cercare e adorare il Cristo, dormono, avvolti da un’unica coperta, il cui lembo tondeggiante pende fino a lambire i fiori dell’ornamento inferiore. Un angelo appare loro in sogno per ammonirli a non tornare da Erode: “Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (Vangelo di Matteo). Nella scultura, l’angelo indica loro la stella che hanno seguito per trovare il luogo natale di Gesù. La composizione scultorea risulta perfettamente bilanciata e riesce a trasmettere la solennità dell’episodio evangelico. Lo stesso tema fu affrontato nella cattedrale di S. Mercuriale di Forlì nel 1210 ca.
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In nessun’altra epoca artistica il capitello è stato più valorizzato che nei secoli della piena fioritura romanica, fra il X e il XII secolo. Questo stile ha rappresentato il vero collante culturale europeo: una pieve lombarda e una borgognona, toscana o renana non erano molto diverse l’una dall’altra: poggiavano sulla medesima interpretazione del mondo, dell’uomo e della spiritualità e si avvalevano dello stesso patrimonio di simboli, ornamenti e riferimenti culturali per tenere unito il popolo dei fedeli e istruirlo sulla parola di Cristo.
Articolo in gran parte di Georg A. Feldermann studioso d’iconografi medievale pubblicato su medioevo misterioso. Altri testi e immagini da Wikipedia.
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