giovedì 13 settembre 2018

L'Italia dei castelli

L’italia dei castelli.

Difficile dire quanti castelli sorgano in Italia, dalle Alpi alla Sicilia. La storia particolare del nostro Paese, frammentato in una miriade di piccoli feudi, ha fatto sì che rocche, manieri e fortilizi sorgessero uno accanto all’altro, come simboli e strumenti di amministrazione dei poteri locali. Si stima che ve ne siano almeno 3100, ma se conteggiassimo anche le rovine, le torri di avvistamento e i palazzi fortificati il loro numero salirebbe sicuramente.
Questo dossier ci porta alla coperta di alcuni fra in nostri castelli più particolari e suggestivi, che spesso sorgono a pochi chilometri dalle città o dalle mete delle nostre vacanze.

Il medioevo dipinto.

CASTELLO DI ISSOGNE (AOSTA).
L’italia dei castelli.


Difficile dire quanti castelli sorgano in Italia, dalle Alpi alla Sicilia. La storia particolare del nostro Paese, frammentato in una miriade di piccoli feudi, ha fatto sì che rocche, manieri e fortilizi sorgessero uno accanto all’altro, come simboli e strumenti di amministrazione dei poteri locali. Si stima che ve ne siano almeno 3100, ma se conteggiassimo anche le rovine, le torri di avvistamento e i palazzi fortificati il loro numero salirebbe sicuramente.
Questo dossier ci porta alla coperta di alcuni fra in nostri castelli più particolari e suggestivi, che spesso sorgono a pochi chilometri dalle città o dalle mete delle nostre vacanze.

Il medioevo dipinto.


CASTELLO DI ISSOGNE (AOSTA).


Armi e armature sono appese alla rastrelliera, mentre le guardie, sedute a tavola, giocano a carte in compagnia di alcune prostitute; nella sua bottega, il sarto misura e taglia pezze di tessuto; il pane viene infornato e il beccaio, l’antico macellaio, gira lo spiedo da cui un gatto dispettoso è intento a rubare i bocconi; il salumiere espone formaggi dalla tipica forma della fontina (la più antica raffigurazione del tradizionale prodotto valdostano). Sono le scene di vita quotidiana fissate nelle lunette del porticato sul lato est del cortile del castello di Issogne, in Valle d’Aosta, un raro esempio di pittura alpina dell’epoca. L’opera risale al periodo di massimo splendore del castello, quando, sul finire del Quattrocento, Luigi di Challant, erede del casato che legò indissolubilmente il proprio nome al maniero e suo cugino , il priore Giorgio di Challant-Varey, completarono i lavori di trasformazione dell’antica residenza vescovile (già citata in una bolla di papa Eugenio III del 1151) in un’elegante dimora. Lo stile è quello del gotico cortese, il quale prende forma in un unico palazzo strutturato a ferro di cavallo che circonda un ampio cortile. Furono questi gli anni in cui a Issogne si fermarono ospiti illustri: ò’imperatore Sigismondo di Lussemburgo durante un suo viaggio di ritorno in Germania, nel 1414, e re Carlo VIII di Francia, nel 1494. Durante il secolo successivo, Renato di Challant fece del castello una raffinata corte rinascimentale, a onta del suo aspetto esterno di arcigna dimora fortificata, poco appariscente e priva di decorazioni. Gli affreschi, invece, abbondano all’interno, sia nel porticato che sulle facciate che affacciano sul cortile, dove trovano posto gli stemmi dei diversi rami della famiglia, o nella grande sala di rappresentanza al pianterreno, nella cappella e nell’oratorio al primo piano e in quello privato di Giorgio di Challant al secondo, dove il committente è ritratto, inginocchiato, ai piedi della Croce.
Nel Seicento ebbe inizio il lungo declino del castello, culminato nell’Ottocento con la spoliazione di tutti gli arredi a seguito della morte dell’ultimo rappresentante della famiglia Challant. Sul finire del secolo, però, il pittore torinese Vittorio Avondo rilevò la proprietà all’asta ed ebbe cura di restaurare il castello e recuperare sul mercato antiquario parte dei mobili originali. Ritornato allo splendore di un tempo, il maniero venne poi donato allo Stato italiano nel 1907.
         
la sala del re di Francia

Il fantasma di Bianca Maria
Secondo una leggenda, di notte su un loggiato del castello apparirebbe il fantasma di Bianca Maria Scarpardone, prima moglie di Renato di Challant. La bella e irrequieta giovane fuggì da Issogne a causa delle perduranti assenze dello sposo e finì giustiziata a Milnao, nel 1526, con la gravissima accusa di aver ordito l’omicidio del suo amante, Ardizzino Valperga.
Dettagliatissime istantanee d’epoca.
Particolare dell'affresco della lunetta del mercato sotto il porticato

interno del porticato corredato con panche a muro in legno e lunette affrescate in una fotografia del 1898

Il bellissimo ciclo di affreschi, mostrava l’abbondanza assicurata dal buon governo del signore di Issogne. I dipinti, che svelano moltissimi dettagli della vita professionale dell’epoca, sono attribuibili al maestro Colin da un graffito nella lunetta del corpo di guardia, dove si legge: “Magister Collinus”-

La sentinella del lago.

ROCCA DI ANGERA (VARESE).
 Angera Rocca vistadaArona.jpg
la rocca vista dalla sponda opposta del lago 
Baluardo medievale perfettamente conservato, la Rocca di Angera domina l’estremità meridionale del Lago Maggiore. Si trova in posizione strategica per il controllo militare e commerciale della zona, che infatti fu sede di una base militare romana sul lago. L’abitato fu distrutto dai Visigoti e poi dai Franchi, quindi conquistato e ricostruito, sul finire del VI secolo, dai Longobardi, a cui si deve forse un prima edificazione della fortificazione sullo sperone di roccia che sovrasta il paese. Uno dei manieri con la vista più suberba che si trovino in Europa.
Ma la storia della rocca è legata soprattutto alla lotta tra le famiglie Visconti e Torriani per il dominio della di Milano. Goffredo da Langosco, capo delle forze viscontee, occupò Arona nel 1276 e lì venne raggiunto da molti sostenitori di Ottone Visconti. A poca distanza dal castello, presso il ruscello Guassera, le forze di Langosco furono sconfitte e la rocca venne forse danneggiata. Ottone, dopo aver capovolto la situazione con la battaglia di Desio (1277), divenne il signore di Milano e per accrescere il proprio potere fece ricostruire la rocca di Angera. Accanto alla più antica torre castellana venne eretta l’ala meridionale, detta viscontea; intorno al 1350, il complesso fu ampliato dall’arcivescovo Giovanni II Visconti. Successivamente fu il terribile Bernabò Visconti, dal 1375 al 1385, a far innalzare l’ala settentrionale detta scaligera, in onore della terza moglie Beatrice della Scala. Nel Cinquecento i Borromeo (la famiglia aveva acquistato la rocca nel 1449 dalla Repubblica Ambrosiana9à completarono il maniero, erigendo la magnifica ala verso il lago con il suo belvedere mozzafiato. La Rocca di Angera ospita il più grande museo d’Europa dedicato a bambole e giocattoli, oltre a un giardino medievale con moltissime piante medicamentose e officinali.

La  lotta per Milano
la sala della giustizia
Al secondo piano della rocca, la Sala di giustizia conserva una parte del ciclo di affreschi realizzato nel Ducento da un anonimo artista denominato Maestro d’Angera. L’opera ripercorre la vita e le imprese dell’arcivescovo Ottone Visconti, in particolare la sua vittoria sulla famiglia rivale dei Torriani che, dopo la battaglia di Desio del 1277, lo vide entrare trionfalmente con il suo seguito a Milano.

La reggia del magnifico signore.

CASTELVECCHIO (VERONA).


Ripreso il controllo della città di Verona dopo il colpo di mano del fratellastro Fregnano (che aveva approfittato della sua assenza per sfilargli il potere), Cangrande II della Scala cominciò a progettare un palazzo fortezza che lo mettesse al riparo tanti da pericoli esterni quanto da quelli interni. Nacque così sulla riva dell’Adige, a partire dal 1354, il più grande edificio medievale veronese. Originariamente denominato castello di San Martino in Acquaro, dal nome di una chiesa preesistente, era insieme reggia e fortezza, chiuso su tre lati dalle muraglie e abitato in contemporanea dalla guarnigione militare, dalla famiglia del signore e dal personale di corte.
Castelvecchio è una residenza molto vasta, che colpisce per il suo aspetto imponente e per la forma decisamente militare, accentuata dalle merlature che si susseguono lungo le mura e dalle sette torri angolari coperte, di cui l’antico uso residenziale è ancora oggi ben testimoniato dai resti dell’originaria decorazione a fresco visibile in alcune sale. Il complesso è costituito da due parti, divise dalle imponenti mura duecentesche. La reggia vera e propria è protetta da uno stretto cortile a doppio ordine di mura. Al centro svetta l’alta torre principale (Torre del mastio), da cui si slancia sul fiume il ponte fortificato Scaligero a tre arcate, che va a integrare il sistema difensivo del castello. Sull’altro lato della fortezza è presente un grande cortile a pianta rettangolare, originalmente destinato a piazza d’armi. Per quanto poderosa e sorvegliata dalle milizie armate, Castelvecchio non riuscì a svolgere il compito per cui era nata: proteggere il signore che l’abitava dalla ritorsione dei fratelli che si erano visti sfilare il potere: nel 1359, Cangrande II fu ucciso dal fratello Cansignorio, il quale, pur d’imporre la successione a favore dei suoi figli naturali, non esitò a eliminare anche l’altro fratello, Alboino.
Nel gennaio 1944, a Castelvecchio si celebrò il processo di chi aveva tradito il Duce durante la seduta del Gran consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943. Ciano e altri quattro gerarchi vennero condannati a morte e fucilati (vedere l’articolo Ciano traditore o vittima sacrificale? Su questo blog).
 La statua equestre di Cangrande nel cortile del castello

                                                     
Il ponte in discesa.
Una carrozza trainata da un cavallo si dirige verso il ponte Scaligero
Eretto nella seconda metà del Trecento, con le sue tre potenti arcate il Ponte Scaligero scavalca l’Adige e fornisce a Castelvecchio una via d’accesso privilegiata sull’altra riva del fiume (per Cangrande il ponte doveva rappresentare soprattutto una potenziale via di fuga in direzione del Tirolo, dove regnava suo genero Ludovico il Bavaro, nel caso di sommosse cittadine). Lungo più di 120 m. e largo oltre 7, munito di mura merlate, il ponte è in discesa verso la riva sinistra dell’Adige, proprio per favorire l’eventuale fuga dal castello alle campagne. Distrutto nella Seconda guerra mondiale, fu ricostruito già nel 1945.
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La rocca infestata sul cammino degli Abati.

CASTELLO DI BARDI (PARMA).
particolare delle mura del Castello

Dall’alto di uno sperone di diaspro rosso, da oltre un millennio il Casello di Bardi controlla il territorio alla confluenza dei fiumi Ceno e Noveglia, nel Parmense. Sotto le sue mura passava, nel Medioevo, l’importante via degli Abati, il cammino che metteva in comunicazione Bobbio con Pavia, già capitale del Regno dei Longobardi; non lontano il traffico di pellegrini lungo la via Francigena. Già nel IX secolo, il vescovo di Piacenza Everardo fece del maniero il suo rifugio per proteggersi dalle incursioni ungare. Ma fu con il ghibellino Ubertino di Piacenza che la rocca, a partire dal Trecento, conobbe i suoi secoli migliori: prima imprendibile fortilizio, poi residenza principesca impreziosita da pinacoteca, archivio di famiglia e ricca biblioteca. Dall’alto delle sue mura a strapiombo, dotate di un cammino di ronda (ancora interamente percorribile) coperto, le guardie potevano avvistare con largo anticipo il nemico in avvicinamento. All’interno, vigeva la classica organizzazione della fortezza, con la piazza d’armi, gli alloggi delle milizie, le prigioni: tutte collegate da strette e tortuose scale.
A pochi chilometri dalla rocca, il 29 novembre 1321 fu combattuta una furiosa battaglia tra guelfi e ghibellini: da una parte il cremonese Giacomo Cavalcabò, dall’altra Gian Galeazzo Visconti, che ebbe la meglio e poté così proseguire la politica espansionistica impressa sotto il suo dominio dalla signoria milanese che appoggiava l’Impero.
La fortezza ospita il Museo della civiltà valligiana e alcune sale dedicate alla memoria del capitano Pietro Cella, prima medaglia d’oro del Corpo Alpino. Vi hanno inoltre sede il Museo della fauna e del bracconaggio e il Museo archeologico della Valle del Ceno. Fino agli Settanta del Novecento era in rovina, dopo aver ospitato una prigione militare.

Lo spirito di Moroello.
La prima foto del fantasma del castello di Bardi (la forma chiara sopra la testa del giornalista Daniele Kalousi).
Ogni maniero che si rispetti ospita il suo fantasma, ma quello che alberga a Bardi ha una particolarità unica: pare che si sia lasciato fotografare (ammesso che si voglia identificarlo nell’alone biancastro che compare in una foto degli anni Novanta). Vero o falso che sia lo scatto, se di spirito si tratta non può che essere quello del povero Moroello, il bel cavaliere che si tolse la vita al ritorno dalla guerra, una volta appresa la notizia del suicidio della sua dolce Soleste. Credendolo morto, la giovane si era gettata dal mastio dopo aver visto avvicinarsi al castello truppe con le insegne nemiche. L’infelice non poteva però sapere che quelle divise erano state indossate da Moroello e dai suoi uomini in spregio al nemico battuto.
      

Un guardaroba di ferro.

CASTEL COIRA (BOLZANO).



Oltre cinquanta armature perfettamente conservate, complete di armi e accessori, compongono il “guardaroba di ferro dei conti”, la più grande armeria privata d’Europa: tutti pezzi originali appartenenti alle famiglie Matsch e Trapp. La sala delle armature è il vanto del Castello di Sluderno (Bolzano), in Val Venosta, da mezzo millennio di proprietà dei conti Trapp, che ancora lo abitano alcuni mesi all’anno. Fu eretto intorno al 1260 per volere del principe-vescovo di Coria, sotto la guida rientrava allora la ValVenosta, allo scopo di contenere l’espansione della famiglia Matsch. Il nucleo originario del castello era formato dal mastio, il muro di cinta e il palazzo. Quando la diocesi di Coira perse la disputa territoriale con Mainardo II di Tirolo-Carinzia, il maniero passò di mano e finì, ironia della sorte, proprio in quelle dei Matsch, che lo mantennero fino all’estinzione del casato, nel Cinquecento, quando subentrò loro la famiglia ancora oggi proprietaria del castello.
Con i Trapp, Castel Coira divenne una dimora rinascimentale e si arricchì di bastioni, terrazze e giardini. Allo stesso periodo risale il loggiato cuore del palazzo, collocato intorno a un cortile interno e impreziosito da una decorazione pittorica e scultorea che lo abbraccia interamente. Sulle pareti spiccano gli affreschi di animali tratti dalle favole di Esopo insieme a creature fantastiche. Le volte, invece, sono affrescate con un motivo a foglie che non è solo un ornamento, ma un modello originale per rappresentare l’albero genealogico dei Matsch e dei Trapp.
Poiché il castello non fu mai distrutto, vanta ancora al suo interno moltissimi oggetti antichi perfettamente conservati. Fra  tutti spicca una scultura della Madonna del 1270, oltre a un favoloso porticato dipinto, la cui volta rinascimentale venne realizzata con il prezioso marmo di Lasa. Uno splendido giardino e le terrazze gotiche creano atmosfere davvero fiabesche.

Ulrico il gigante.
Al centro dell’armeria del castello troneggia l’armatura di Giacomo VI Trapp e del suo cavallo realizzata nel 1540, ma quella che impressiona più delle altre e risalente al 1450, opera degli armaioli milanesi Missaglia, pesante 46 kg: apparteneva a Ulrico IX di Matsch (1480-1481), capitano generale del Tirolo dal 1471 al 1476, un vero e proprio gigante, alto più di due metri.

Il nido inespugnabile.

CASTELLO DI ARECHI (SALERNO).



Il castello e la cinta resero Salerno “per natura e per arte imprendibile, non essendovi in Italia una rocca più munita di essa”. Così, nell’VIII secolo, il cronista Paolo Diacono rendeva merito al lavoro degli architetti del principe longobardo Arechi II che, trasferita la capitale del suo ex ducato da Benevento a Salerno, fece della rocca una fortezza inespugnabile.
Sulla cima del monte Bonadies, a 300 m sul livello del mare, in una posizione che permettevi controllare l’intera città e il suo golfo, una fortificazione militare era già presente nei tempi romani, anche se un primo embrione di rocca nacque solo con i bizantini. Arechi ne perfezionò la funzione di baluardo della città, ponendola al vertice di un complesso sistema difensivo che, calando le mura lungo il colle, si spingeva a cingere l’antica Salerno. Il luogo restò inespugnabile per tutta la sua storia. Quanto, nel 1077, l’ultimo principe longobardo, Gisulfo II, dovette arrendersi all’assedio posto al castello dal normanno Roberto il Guiscardo, fu soltanto per fame e non perché il nemico fosse riuscito a far breccia sulle mura. Il nucleo centrale del castello è protetto da torri unite tra loro da un cinta muraria merlata e da ponti levatoi : a nordovest è possibile ammirare la torre di guardia, quella più nota e dall’aspetto imponente, che ne sottolinea la validità difensiva: si tratta della “Bastiglia”, costruiti dai Normanni su uno sperone roccioso a nord del castello originario.
Nel 1820, il castello fu teatro di una congiura carbonara: l’intento era quello di causare un’insurrezione popolare, ma per via del tradimento di un affiliato il tentativo non andò in porto. Dopo un periodo di abbandono del maniero, gli ultimi proprietari, i conti Quaranta di Fossalopara, il 19 dicembre 1960 lo vendettero alla Provincia di Salerno, che lo restaurò. Nel 1992, le Poste italiane dedicarono un francobollo a questo gioiello architettonico.
 

La "Imago Urbis" di Salerno con il Castello e la cortina di mura nel periodo Aragonese

Arechi II, da duca a principe dei Longobardi.

Arechi II fu uno dei più potenti duchi longobardi. A Benevento, sua prima capitale, diede vita a una corte splendida, e arricchì la città con monumenti e chiese, come Santa Sofia, che dotò di reliquie di santi per trasformarla in santuario nazionale. Dopo la conquista del Regno dei Longobardi da parte di Carlo Magno, prese per sé il titolo di principe per mantenere viva l’eredità del suo popolo. Sposato con Adelperga, figlia dell’ultimo re Desiderio, si trasferì però a Salerno, dove morì nel 787.

Rifugio di pietra contro i pirati.

CASTELLO ARAGONESE D’ISCHIA (NAPOLI).


Posto su un isolotto di origine vulcanica collegato al versante orienta di Ischia da un ponte lungo 200 m., il Castello Aragonese ha rappresentato per secoli un rifugio per la popolazione contro i saccheggi di Visigoti, Vandali, Ostrogoti e Saraceni. La costruzione della prima rocca risale addirittura al V secolo a.C. per volere di Gerone, tiranno di Siracusa, che intervenne a favore dei Cumani e ottenne come ricompensa il possesso dell’isolotto. La fortezza fu poi occupata dai Partenopi e successivamente dai Romani ma è agli Aragonesi, in particolare ad Alfonso V, che si deve la moderna fisionomia del castello, non dissimile dal Maschio Angioino di Napoli: un solido fortilizio a forma quadrangolare con mura fornite di quattro torri. All’interno trovavano posto gli alloggi reali e dei cortigiani, quelli per la truppa e dei servi, ma alla bisogna, quando incombeva il pericolo dei pirati, era tutta la popolazione a rifugiarsi nel maniero. Fu proprio Alfonso a collegare l’isolotto dove sorgeva il castello al resto dell’isola attraverso un ponte di legno a volere il tunnel scava nella roccia per oltre 400 m., che ancora oggi permette l’accesso alla struttura. Prima di allora la fortezza era raggiungibile soltanto via mare e grazie a una scala esterna.
Nel Cinquecento, nel periodo del suo massimo splendore, il castello arrivò a ospitare quasi 2000 famiglie: al riparo delle sue mura convivevano il principe e la sua corte, la guarnigione militare, il vescovo con il capitolo e il seminario, il convento delle clarisse e l’abbazia dei monaci basiliani di Grecia. Sull’isola d’Ischia vi erano in tutto ben 13 chiese, compresa la cattedrale.

Ospiti di genio.
Vittoria Colonna galeria colonna, rome.jpg
Ritratto della Marchesa Vittoria Colonna, (Girolamo Muziano)
Nobildonna e poetessa di valore il 27 dicembre 1509 Vittoria Colonna si sposò nel Castello Aragonese con il marchese di Pescara e condottiero Ferdinando Francesco d’Avalos. La donna soggiornò sull’isola dal 1501 al 1536, periodo che coincise con un momento di rigoglio culturale di Ischia, proprio grazie alle frequentazioni della Colonna, la quale si contornava di artisti e pensatori del calibro di Michelangelo Buonarotti, Ludovico Ariosto e Pietro Aretino.

Il covo del brigante Ghino di Tacco.

ROCCA DI RADICOFANI (SIENA).

Ghino di Tacco
La possente Rocca senese svetta da più di mille anni sulla cima di un’imponente rupe alta 896 m. dalla quale domina tutto il territorio posto fra il monte Cetona, la Val d’Orcia e il monte Amiata. Ai suoi piedi correva un antico passo della via Cassia, poi Francigena o Romea, e fu senza dubbio questo a determinare la sua nascita e la sua storia, legata a questa strada, fin dalle sue origini.
Data la sua importanza strategica, la Rocca fu da sempre contesa, epicentro delle lotta tra Siena e l’alleata dei fiorentini Orvieto, con la costante intromissione del papato. Sul finire del Duecento divenne il rifugio di uno dei più famosi briganti medievali italiani, Ghino di Tacco. Sebbene di nobile stirpe, il padre era il conte ghibellino Tacco di Ugolino, insieme con la famiglia Ghino formò una banda dedita a furti e rapine. Catturati e giustiziati il padre e lo zio, il giovane si rifugiò proprio a Radicofani e, al sicuro della rocca, proseguì la sua carriera di bandito rapinando i viandanti che passavano sulla sottostante via Francigena. Evitando inutili violenze, egli depredava i malcapitati dei lori averi, lasciando però il necessario per proseguire il viaggio. Prima del rilascio offriva anche un banchetto, e se la vittima dell’imboscata si rivelava uno studente o un povero, il ladro gentiluomo la lasciava libera di proseguire senza problemi.
Dopo una vita ricca di scorribande, secondo alcune fonti Ghino sarebbe morto a Sinalunga intorno al 1313, mentre tentava di sedare una rissa scoppia tra soldataglie e contadini.
La rocca possiede una struttura difensiva esterna di forma pentagonale e una interna a tre lati, di cui spiccano ancora le rovine delle torri angolari e un corpo centrale (o cassero), oggi restaurato e visitabile. Il parco pubblico di Radicofano, affacciato sulla Val d’Orcia ospita una statua di Ghino di Tacco. Sotto tale pseudonimo era solito scrivere sull’Avanti il leader socialista Bettino Craxi.

L’ultimo baluardo.

Durante la guerra tra Firenze e Siena, la fortezza di Radicofani assunse un ruolo importante nel conflitto, essendo l’ultimo baluardo difensivo della Repubblica di Siena. L’eroica resistenza si protrasse fino al tramonto del 17 agosto 1559, quando venne ammainata la gloriosa Balzana, ossia lo stendardo bianco e nero, simbolo secolare della città toscana.



Articolo in gran parte di Mario Galloni pubblicato su Medioevo Misterioso, altri testi e immagini da Wikipedia.

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