lunedì 8 ottobre 2018

La battaglia di Abukir

La battaglia di
Abukir – un braccio di ferro per il Mediterraneo.
La battaglia segnò il trionfo della Marina Britannica su quella Francese. Nonché l’inizio della leggenda di Horatio Nelson che venne salutato in tutto il continente come il salvatore dell’Europa.

The Battle of the Nile.jpg

 La distruzione de L'Orient nella battaglia del Nilo


la battaglia del Nilo, anche nota in Francia come battaglia della Baia d'Abukir (propriamente Abū Qīr), fu un'importante battaglia navale connessa al conflitto fra la Francia rivoluzionaria e la Gran Bretagna, in particolare alla spedizione comandata da Napoleone Bonaparte e nota come campagna d'Egitto, che si svolse tra la flotta britannica comandata dal Contrammiraglio Sir Horatio Nelson e la flotta francese sotto la guida del Viceammiraglio François-Paul Brueys D'Aigalliers. Ebbe luogo tra la sera del 1º agosto e la mattina del 2 agosto 1798. La battaglia segnò il trionfo della marina britannica, nonché l'inizio della leggenda di Nelson, che venne salutato in tutto il Continente come il "Salvatore dell'Europa".



Il genio militare di Horatio Nelson, l’inadeguatezza dell’Ammiraglio francese, la conferma del predominio navale inglese: questa in sintesi fu la battaglia del Nilo, più nota in Francia come quella della Baia di Abukir (località a nord est di Alessandria), combattuta la sera del primo agosto 1798, quando la parabola politico-militare di Napoleone Bonaparte era appena agli inizi. Eppure nello scontro egiziano era già possibile leggere i prodomini della futura sconfitta francese a Trafalgar, e il segno di quella inferiorità sui mari che zavorrò il volo dell’aquila corsa.
Uscito trionfatore dalla prima Campagna d’Italia, nel 1798, Napoleone era l’astro nascente dell’esercito rivoluzionario: anche per questo il Direttorio assecondò l’audace piano dell’ambizioso generale che prevedeva di conquistare l’Egitto, così da assicurare al Paese l’egemonia sul Mediterraneo e il contrasto degli interessi inglesi verso le Indie. Il progetto, seppure spericolato, per il governo parigino portava in dote due pregi: allontanava temporaneamente dalla scena un protagonista che, per quanto giovane, era già politicamente ingombrante e, allo stesso tempo, assecondava lo spirito di rivincita della borghesia ancora scottata dalla sconfitta subita per mano inglese in India, disfatta che l'aveva estromessa dalla partita commerciale che si giocava a Oriente (vedi articolo su questo blog un duello per l’India). Nel più assoluto riserbo – solo il governo e Napoleone erano a conoscenza del vero obiettivo della spedizione via mare – l’Armée d’Orient salpò da Tolone il 19 maggio 1798. Durante la navigazione l’avrebbero raggiunta altre divisioni imbarcate a Marsiglia, Genova e Civitavecchia. La flotta si riunì in alto mare a est della Sardegna: l’insieme era formato da non meno di 55 navi da guerra, tra le quali 13 vascelli e 6 fregate, che scortavano 280 navi cariche di 54mila uomini, 1200 cavalli e 171 cannoni. Furono aggregati all’impresa anche 167 scienziati e artisti con i quali Bonaparte si riprometteva di creare in seguito l’Institut d’Egypte, dedicato allo studio dell’antica civiltà dei Faraoni.
Le fasi della battaglia.
FASE 1 – La tenaglia di Nelson. Le flotte si scontrano in prossimità del tramonto il 1° agosto. I francesi sono ancorati nella baia, in acque basse vicino ad una secca profonda meno di 8 metri. Gli inglesi hanno 14 vascelli, di cui 13 da 74 cannoni. I francesi dispongono di 13 navi, una da 120 cannoni, 3 da 80 e 9 da 74, oltre a 4 fregate. Nelson ordina alla sua linea di fila di diversi in due: una divisione passa fra la linea francese e la secca, l’altra si avvicina da ovst così da prendere il nemico tra due fuochi.
Gli inglesi attaccano la linea di combattimento francese, di Thomas Whitcombe.
FASE 2 – L’attacco. Il comandante Thomas Foley, sulla Goliath, guida altri quattro vascelli inglesi attraverso le secche, affianca le navi d’avanguardia nemiche (Le Guerrier e le Conquerant) e le cannoneggia fino a distruggerle in soli dieci minuti. Intanto Nelson sulla Vanguard attacca Le Spartiate, terza nave della fila francese. Nello scontro l’ammiraglio inglese viene ferito.

Mappa delle posizioni delle navi e dei loro movimenti durante la battaglia del Nilo. Le navi britanniche sono rosse, le francesi sono blu. Le posizioni intermedie delle navi sono mostrate con un colore più chiaro. Basata su una mappa da Intelligence in War di John Keegan, 2003.
FASE 3 e FASE 4 – La fine dell’Orient. Si sta facendo buio. Al centro dello schieramento francese la nave ammiraglia Orient si difende con la forza della disperazione. Alle 18,30 il veliero inglese Bellerophon, duramente colpito, deve uscire dalla formazione, destino condiviso dal Majestic. L’Alexander e lo Swiftsure, giunti di rinforzo al Bellerophon, cominciano un fuoco inesorabile sull’Orient. L’ammiraglio Bruyers, già ferito al capo, vuole rimanere sul ponte di comando fino all’ultimo. Alle 20 l’Orient prende fuoco: la pittura fresca alimenta le fiamme che si levano indomabili. I francesi combattono fino all’ultimo, ma alle 22 l’ammiraglia esplode lanciando un’enorme quantità di rottami in tutte le direzioni. La battaglia si protrae fino all’alba ma non cambia di segno: la disfatta dei napoleonici è tale da compromettere l’esito della Campagna d’Egitto, votata al fallimento dopo la distruzione della flotta.  

LA RISPOSTA DEGLI INGLESI. Le spie britanniche dislocate a Tolone intuirono che si stesse preparando un’azione nei Paesi arabi, ma non furono in gradi di riferire a Londra quale fosse il vero obiettivo di Parigi. Così al giovane contrammiraglio Horatio Nelson fu impartito un ordine al buio: intercettare i francesi e danneggiarne la flotta. Entrato nel Mediterraneo, a causa di una violenta tempesta, Nelson dovette rispedire due malconce fregate a Gibilterra, incidente che gli fece perdere tempo e lo costrinse a un’infruttuosa caccia ai francesi. Le informazioni raccolte a Napoli e da alcune navi incrociate sulla rotta lo convinsero che l’obiettivo del nemico fosse l’Egitto ma, a causa della lenta navigazione e della nebbia, gli inglesi per ben due volte passarono vicino alla flotta napoleonica senza accorgersene. In questo modo Bonaparte arrivò indisturbato ad Alessandria il 1° luglio e il giorno successivo era già in marcia con l’esercito diretto al primo scontro con i Mammelucchi. Restava da stabilire dove riparare la squadra navale. Nel piano consegnato al direttorio, Napoleone aveva indicato il porto vecchio di Alessandria, o in alternativa quello di Corfù, ma l’ammiraglio François-Paul Brueys d’Aigalliers, comandante in capo della flotta, decise invece per Abukir, una baia poco profonda e protetta da un promontorio di sabbia dove c’era un forte.
Il 1° agosto 1798 alle 14,45 le vedette sulle coffe delle navi inglesi, al termine del lungo inseguimento, avvistarono finalmente la lunga fila dei navigli francesi: 13 vascelli, 4 fregate e 4 brigantini, una formazione che garantiva a Bruyes una seppur minima superiorità. Nelson, infatti, disponeva di 13  vascelli da 74 cannoni e uno da 50 (Leander) per un totale di 938 cannoni, contro i 1182 francesi. Ma la squadra napoleonica fu colta completamente di sorpresa: l’ammiraglio era impegnato nei preparativi di una cena con l’alto comando e una parte degli equipaggi aveva raggiunto terra con le scialuppe per fare rifornimento d’acqua. Seppure convinto che gli inglesi non avessero intenzione di ingaggiare invece scelse di affrontare l’eventuale scontro con le navi all’ancora. Confidava nell’efficacia subito battaglia, il comando francese tenne comunque un improvvisato consiglio di guerra, durante il quale soltanto la minoranza degli ufficiali ritenne opportuno alzare le vele. Bruyers dello schieramento lungo la costa e nell’appoggio delle bocche da fuoco del forte, ma la formazione non fu eseguita alla perfezione e concesse agli inglesi un vantaggio che si sarebbe rivelato fondamentale. L’avanguardia francese era infatti posizionata troppo distante dal forte, il che rese impossibile a obici e cannoni di colpire da terra le navi inglesi. Inoltre, la fila di Bruyes, per timore delle secche, si era posizionata troppo lontana dalla costa, offrendo al nemico un seppur esiguo canale navigabile, nel quale, con un’azione rischiosa, Nelson fece infilare cinque dei suoi vascelli per cogliere il nemico tra due fuochi.

La Généreux cattura la HMS Leander disalberata in un dipinto di C. H. Seaforth e Charles Hullmandel.

FURIBONDI COLPI DI ARTIGLIERIA. Fu il capitano Thomas Foley sul Goliath a sfidare le secche e aprire la strada sottocosta al seguito dei vascelli inglesi Zealous, Orion, Theseus, Audacious, che presero posto di traverso alla prime navi francesi: le Guerrier, le Conquerant, le Spartiate, l’Aquilond e la Peuple-Souverain. Alle 18.00 il Guerrier esplose il primo colpo di cannone che segnò l’inizio della battaglia. Mezz’ora dopo la linea inglese penetrata oltre le secche cominciò a bombardare la zona prodiera dell’avanguardia nemica, colpita duramente da altri vascelli scivolati lungo la destra della fila francese. Nelson sulla tolda della Vanguard entrò nella battaglia ancorandosi di fronte allo Spartiate, il terzo vascello della linea nemica. Nel furibondo scambio di colpi d’artiglieria gli inglesi inizialmente ebbero la peggio – lo stesso Nelson, colpito alla testa, dovette riparare sottocoperta – e soltanto l’intervento di altri due vascelli di Sua Maestà costrinse, verso le 22, alla resa la Spartiate. Presa tra due fuochi, l’avanguardia francese non ebbe scampo: lo scarso numero di cannonieri risalito a bordo con le scialuppe non permetteva infatti ai rivoluzionari di rispondere al fuoco contemporaneamente da entrambi i lati.
L’Orient, la nave ammiraglia francese al comando dell’ammiraglio Brueys, posta al centro dello schieramento, entrò in battaglia più tardi respingendo, grazie alla superiorità  dei suoi cannoni, l’assalto di due velieri inglesi, il Bellerophon e il Majestic, quest’ultimo gravemente danneggiato e obbligato ad allontanarsi dalla mischia. A ribaltare il rapporto di forze intervennero altri vascelli di Nelson che concentrano tutti i loro sforzi contro l’Orient. Spazzata via l’avanguardia e ferocemente attaccato il centro della linea, soltanto l’intervento della retroguardia comandata dal contrammiraglio  Pierre Villeneuve avrebbe potuto salvare i francesi, muovendo per tempo i suoi vascelli in modo da mettere a sua volta tra due fuochi la fila inglese. Sembra che un ordine in tal senso fosse stato dato, ma che Villeneuve, tra il fumo e i bagliori dello scontro, non l’avesse inteso. Sprovvisto di spirito d’iniziativa, il contrammiraglio di Napoleone restò per quattro ore semplice spettatore della battaglia e, il giorno dopo, all’approssimarsi delle navi inglesi pronte al combattimento, scelse la fuga per salvare quei pochi vascelli rimasti integri. Sottoposto al tiro incrociato inglese, l’Orient resistette per tre ore. Lo stesso Brueyes ripetutamente ferito morì durante lo scontro. Alle 20.00 a bordo dell’ammiraglia martoriata dalle cannonate nemiche si sviluppò un incendio, alimentato dai contenitori di vernice e diluente lasciati sul ponte dopo la recente tinteggiatura a cui la nave era stata sottoposta. Alle 22.00 le fiamme raggiunsero il deposito delle polveri e l’esplosione che ne seguì squarciò le tenebre in un fragore tale da essere sentito fino ad Alessandria. I vascelli vicini furono investiti dai detriti infiammati della nave e un troncone dell’albero maestro finì direttamente sul ponte della Swiftsure, il cui capitano ne fece dono all’ammiraglio Nelson. Il singolare regalo resterà sempre nella cabina dell’ammiraglio, che vi sarà deposto dopo essere stato ferito a morte durante la battaglia di Trafalgar (vedi articolo la Battaglia di Trafalgar su questo blog).

La penuria di cannonieri napoleonici.
Non fu soltanto lo scarso numero di uomini rientrati precipitosamente a bordo dei vascelli francesi in vista della battaglia a condannare, ad Abukir, i napoleonici alla sconfitta. I cannoni navali del tempo avevano bisogno, a seconda della loro grandezza, di un numero di serventi che andava dagli otto ai quattordici, un contingente di artiglieri troppo numeroso, ragione per cui gli ufficiali non avevano quasi mai la possibilità di attivare contemporaneamente tutte le bocche da fuoco presenti a bordo. In ragione della formazione assunta e della direzione da cui proveniva il nemico, si sceglieva un lato su cui concentrare i serventi, lasciando praticamente disarmata l’altra murata. Dividere i cannonieri infatti avrebbe rallentato troppo il ritmo del fuoco rendendolo poco efficace. Anche per questo motivo, la manovra inglese che prese tra due fuochi le navi poste all’avanguardia della fila francese le condannò alla disfatta, essendo queste in grado di rispondete al fuoco soltanto da un lato. 

UN CIMITERO DI NAVI. L’Orient si inabissò portando con sé morti e feriti – dei mille componenti dell’equipaggio se ne salvarono solo un centinaio – e l’inestimabile tesoro sottratto da Napoleone ai Cavalieri di Malta durante l’assolto all’isola. La luce livida dell’alba del 2 agosto illuminò una baia ridotta a un cimitero del mare, trafficata di cadaveri, alberi spezzati, gomene strappate, scialuppe sfondate; contro il filo dell’orizzonte si stagliavano carcasse di velieri incagliati o alla deriva, privi di vele e alberature, trapassati da centinaia di cannonate. I francesi avevano perso, tra morti e feriti, più di 5mila uomini e dei tredici vascelli alla fonda ad Abukir, nove caddero in mano inglese e altri due, finiti nelle secche, furono bruciati dall’equipaggio. Soltanto Villeneuve poté allontanarsi dalla scena della disfatta con due vascelli e due fregate, senza che gli inglesi avessero la forza di inseguirlo. L’eco della battaglia e della rotta francese tardò ad arrivare alle orecchie europee: la Lander, nave scelta dagli inglesi per portare le notizie in patria, fu catturata nel viaggio dalla Genereux, una delle imbarcazioni francesi superstiti. Ma quando la notizia si diffuse, come una bomba che riaccese tutti i focolai di resistenza anti-francese, indusse l’impero Ottomano a dichiarare guerra a Napoleone e affrettò anche la discesa in campo di Napoli. La sconfitta navale ebbe come conseguenza l’isolamento dell’Armée d’Orient, l’interruzione dei collegamenti tra Napoleone e Parigi e fu causa del fallimento della spedizione in Egitto. La via con le Indie rimase esclusivo appannaggio dell’Inghilterra che ad Abukir si confermò padrona dei mari e, due anni dopo, estese il proprio dominio anche sul Mediterraneo sottraendo proprio ai francesi Malta: l’isola, insieme a Gibilterra, permise alla Royal Navy di decidere chi, da quel momento in poi, avrebbe potuto o meno navigare nell’ex Mare Nostrum.

curiosità: riuscì a ritornare in Francia, piantando in asso il suo esercito, decimato da malattie, guerre continue e la feroce opposizione degli abitanti.

La battaglia stabilì la superiorità della marina inglese nel resto delle guerre rivoluzionarie francesi, e fu un importante contributo alla crescente fama dell'ammiraglio Nelson. Non era mai accaduto che una flotta tanto numerosa fosse totalmente annichilita. Nelson inaugurava così la serie delle sue vittorie schiaccianti, che dovevano cambiare il volto stesso della strategia navale.

La versione di Alberto Guglielmotti[modifica | modifica wikitesto]

Padre Alberto Guglielmotti, nel suo più faticoso lavoro Storia della Marina Pontificia[4], ci dà un'altra lettura della celebre battaglia del Nilo o di Abukir, come la chiamano i Francesi.
Si è sempre creduto che i partecipanti a quello scontro navale fossero solo la flotta Inglese di Nelson e quella Francese di Bonaparte. In realtà a quella tragica battaglia prese parte anche la flotta pontificia di stanza, come buona parte di quella francese, nel porto di Civitavecchia che assieme allo Stato Pontificio si trovava sotto il dominio Francese.
La flotta pontificia non era formata da galere"ma dalle più modeste ma bene armate mezze galere. Essendo un naviglio agile, adatto al pattugliamento delle coste per evitare invasioni turco/saracene, erano l'ideale per destreggiarsi nelle acque del Nilo.
La flotta papalina con a bordo un equipaggio formato in maggior parte da civitavecchiesi, fu, al pari di quella transalpina, totalmente distrutta e quasi tutti gli uomini perirono. Solo alcuni si salvarono, di questi alcuni vennero uccisi in terra ed altri perirono nel deserto a causa di fame sete, dissenteria o uccisi da arabi.
Dopo diversi anni, solo in pochi tornarono nella natia Civitavecchia ed in condizioni pietose. Di due se ne rammenta il nome: Giannozzi, un marinaio, e Freddi, un pilota, che in seguito divenne console in Sardegna.
Poca cosa, poi, fu il risarcimento che Napoleone intese dare allo stato Pontificio: due brigantini che presero il nome di San Pietro e San Paolo.
La città del Guglielmotti, Civitavecchia, dopo la battaglia subì un crollo economico che durò per molti anni. L'intera economia cittadina, infatti, si basava sulla costante presenza in porto sia della flotta pontificia che di quella francese. Molti commercianti e provveditori marittimi con tutto il loro indotto andarono in rovina.



Articolo in gran parte di Mario Galloni pubblicato su LE GRANDI BATTAGLIE NAVALI, edizione Sprea. Altri testi e immagini da Wikipedia.

L’invenzione del vapore.


L’invenzione del vapore.
cosa bolle in pentola?
Dalla fine del Settecento, macchine per la filatura, telai, pompe, gru, battelli e treni erano ormai mossi dal vapore, grazie a un’intuizione di James Watt che diede il via alla Rivoluzione industriale.

francobollo commemorativo di James Watt. 


Il motore della civiltà, dalla preistoria fino alla seconda metà del Settecento, era stata la forza umana o animale, con l’eccezione di vento e acqua. Solo dopo le prime sperimentazioni del ‘600, il vapore, ottenuto da caldaie messe sotto pressione, riuscì a muovere macchine metalliche di peso e dimensioni fino ad allora inimmaginabili. E lo fece con una forza tale da investire l’intero pianeta con una rivoluzione: quella industriale. A darle una spinta decisiva fu la geniale intuizione dello scozzese James Watt (1736-1819), l’uomo che trasformò la macchina a vapore nel simbolo per eccellenza della modernità, dando il via a un’epoca di esaltanti conquiste tecnologiche: dall’antenata dell’automobile (a tre ruote) alimentata a vapore realizzata nel 1769 dal francese Cugnot, che poteva trasportare quattro persone alla velocità di 3,5 km/h, si arrivò, negli anni ’90 dell’Ottocento, a locomotive che raggiungevano i 180 km/h.
Primato britannico.
Nel Settecento in Inghilterra si creò un insieme di condizioni favorevoli che permisero un rapido sviluppo economico.
Istituzioni che favorivano l’iniziativa individuale.
Un polo finanziario (Londra).
Inclinazione alla sperimentazione.
Un’avanzata ricerca scientifica.
Grandi e medi proprietari terrieri aperti a innovazioni agricole.
Disponibilità di risorse minerarie.
Industrie manifatturiere.
Manodopera a basso costo.
Un’articolata rete di trasporti.
Florido commercio marittimo.
Nascita dell’impero coloniale.

Macchina a vapore di Watt


PAESE ALL’AVANGUARDIA. Tutto partì dalla Gran Bretagna, e non fu un caso. Dalla fine del XVII secolo, Oltremanica si erano formate le condizioni ideali per il sorgere di un modello economico, basato sull’innovazione tecnologica, completamente diverso da quello che per millenni aveva caratterizzato le società agricole. Grazie alla macchina a vapore di Watt  (brevettata nel 1769), usata per l’estrazione del carbone e ovunque occorresse energia, si riuscì a produrre di più in meno tempo permettendo all’Inghilterra di aprirsi alla nuova era industriale. E per agevolare gli spostamenti e il commercio vennero costruite ferrovie e ponti di ferro, realizzati ora in tempi molto più veloci rispetto al passato.
“A fronte di un secolo in cui l’Europa continentale appariva socialmente arretrata ed economicamente depressa, l’Inghilterra aveva grandi vantaggi: acqua e carbone per alimentare le nuove macchine, ferro per costruirle, fiumi per il trasporto delle merci a basso costo e porti in cui far arrivare le materie prime e da cui far partire i prodotti lavorati. A ciò bisognava aggiungere il ruolo assunto a livello internazionale, visto che dalla metà del Settecento la Gran Bretagna divenne la principale potenza navale e coloniale del mondo, soppiantando la concorrenza olandese e francese.”, spiega lo storico Vittorio H. Beonio Brocchieri, autore del saggio “il Setteccento e la Rivoluzione industriale (Rizzoli).

Pressione rivoluzionaria.
il Pistone di Papin
L’acqua che bolle in una pentola ne fa sobbalzare il coperchio che la copre. Questa semplice esperienza quotidiana è alla base della macchina a vapore: energia tecnica che si trasforma in movimento. Le innovazioni di Newcomen e Watt, infatti, non sarebbero state possibili senza il francese Denis Papin (1647-1714), medico con l’hobby della fisica, che brevettò la prima pentola a pressione detta “digestore”.
PENTOLONE MAGICO. Era un contenitore di metallo con valvole di sicurezza, all’interno del quale l’acqua raggiungeva temperature altissime. Papin, con la sua invenzione, nel 1698, ispirò al collega inglese Thomas Savery una pompa a vapore. A quel punto la forza era imbrigliata e la pentola fu trasformata in una macchina che imprimeva un movimento continuo a uno stantuffo. 

OTTIMISMO SFRENATO. L’apice della tecnologia rivoluzionaria arrivò alla fine del XVIII secolo. Magli e presse a vapore spingevano la produzione dell’industria pesante, piroscafi a pale solcavano i mari senza temere più le bonacce, l’industria tessile andava a gonfie vele. L’opinione pubblica del tempo era proiettata verso un ottimismo festoso dove il progresso, esaltato dai filosofi illuministi, era simboleggiato proprio dal vapore. La Rivoluzione industriale, oltre a portare indubbi benefici economici, introdusse importanti cambiamenti sociali, portando alla nascita di una nuova borghesia industriale formata da imprenditori, banchieri e professionisti. E proprio in questo clima di diffuso ottimismo, in cui studio e innovazioni tecnologiche andavano a braccetto, la Scozia fu una delle regioni con il più alto tasso di alfabetizzazione. Qui si formarono personaggi destinati a lasciare un’impronta indelebile: filosofi come David Hume (1711-1776), padre dell’emperismo; economisti come Adam Smith (1723-1790), capostipite del pensiero economico liberale; e scienziati come James Hutton  (1726-1797), fondatore della geologia.

SPIRITO PRATICO. Anche James Watt era scozzese, per la precisione di Greenock, cittadina costiera dove nacque il 18 gennaio 1736. Figlio di un facoltoso armatore, fu un bimbo gracile e malaticcio che, nonostante la salute cagionevole, seguì sempre il padre nei cantieri in cui lavorava, dimostrando una precoce passione per gli strumenti di navigazione. Così, tra compassi, bussole e quadranti, a 17 anni decise di fabbricare e riparare apparecchiature scientifiche, imparando il mestiere prima a Glasgow e poi a Londra. Una volta tornato in Scozia, Watt riuscì a trovare impiego come tecnico all’Università di Glasgow, col compito di fabbricare e riparare strumenti di precisione. Fu allora che strinse amicizia con le migliori menti del tempo, tra cui Adam Smith e lo scienziato Joseph Black celebre per i suoi studi sul calore. “Watt incarnava il particolare sistema di formazione sviluppatosi nel Regno Unito tra Sei e Settecento, in grado di mettere in contatto scienziati e tecnici, saldando il sapere teorico dei primi alle competenze pratiche dei secondi” precisa l’esperto.

NON TUTTI I MALI VENGONO PER NUOCERE. La serie di eventi che farà entrare l’inventore nella Storia iniziò da una banale riparazione. Era il 1764 e James Watt si ritrovò davanti la “macchina a vapore di Newcomen”, un congegno elaborato qualche decennio prima, dotato di una pompa a pistone azionata attraverso la pressione del vapore acqueo contenuto in un cilindro. Nel dettaglio, la pressione del vapore spingeva il pistone verso l’alto, e a fine corsa, diminuendo la temperatura dell’acqua, ritornava giù. Molto usato nel campo dell’estrazione mineraria, questo congegno disperdeva troppa energia, perché i continui cicli di riscaldamento e di raffreddamento del vapore costringevano a bruciare una quantità troppo elevata di carbone. Watt provò a ingegnarsi per ovviare a questo spreco e nella primavera 17665, mentre passeggiava in un parco di Glasgow, ebbe l’intuizione che avrebbe risolto il problema: creare un condensatore separato dal cilindro ma collegato a esso, in modo da far funzionare il meccanismo a una temperatura stabile, evitando perdite di calore. Inoltre, l’inserimento di un’apposita valvola avrebbe consentito al pistone di ricevere una pressione costante dentro il cilindro, producendo energia in modo continuo.
Per finanziare le modifiche, Watt entrò in società con l’inventore industriale John Roebuck, ottenendo nel 1769 il brevetto per il suo “nuovo metodo di diminuire il consumo di combustibile e di vapore”. Una data storica, che segnerà l’inizio della prima Rivoluzione industriale. “In realtà, non si trattò dell’invenzione di un solo uomo, ma il risultato di un lungo processo di sviluppo tecnologico e di perfezionamento di macchinari termici simili, che vide protagonisti personaggi come Denis Papin e lo stesso Thomas Newcomen”, precisa Brocchieri.

AFFARI D’ORO. Pochi anni dopo, Watt perdeva sia la moglie, morta nel 1772, sia il socio, fallito nello stesso anno. Ma di fronte alle difficoltà non si diede per vinto e seppe trovare i giusti finanziatori: nel 1774 iniziò un fruttuoso sodalizio con Matthew Boulton, intraprendente uomo d’affari di Birmingham. Instancabile, nei decenni successivi continuò a migliorare la sua macchina, introducendo accorgimenti tra cui il motore a rotazione, l’indicatore  di pressione, il sistema a doppio effetto (in grado di aumentare la potenza utilizzando un solo cilindro) e il cosiddetto “parallelogramma di Watt” (per migliorare il moto del pistone). Gli apparecchi prodotti dalla Boulton & Watt andarono a ruba tra imprese agricole, minerarie e navale, alimentando anche telai e macchinari nelle fabbriche di cotone, carta e ferro. “Dalla fine del XVIII secolo la macchina a vapore divenne il principale strumento per fornire energia meccanica in campo tessile”, spiega lo storico.


 Matthew Boulton
MONDO NUOVO. Nel 1785, i due soci divennero membri della Royal Society, la più prestigiosa istituzione scientifica britannica. I loro nomi divennero noti in tutta Europa, e oltre a onori e riconoscimenti arrivarono grandi soddisfazioni economiche. Ormai erano ricchi, e nel 1800, dopo quasi trent’anni di partnership, decisero di andare in pensione e lasciare l’attività ai rispettivi figli.
Nonostante i problemi di salute, Watt fece in tempo a viaggiare in Francia e Germania con la sua seconda moglie, sposata nel 1777, prima di spegnersi alla veneranda età di 83 anni, nel 1819. Neò 1882 il suo cognome sarà scelto per indicare l’unità di misura internazionale della potenza. Grazie alla macchina a vapore, nel frattempo, la Rivoluzione industriale aveva preso piede nel resto d’Europa e oltreoceano, aprendo nuovi scenari nella storia umana.

Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 138, altri testi e immagini da Wikipedia.

Cleomene il re più famoso di Sparta.

Cleomene il re più famoso di Sparta.
Fece di Sparta ima grande potenza, ma le sue ambizioni politiche e la disonestà mostrata corrompendo gli oracoli spinsero i concittadini ad allontanarlo dal potere e a incatenarlo a un ceppo, fino alla fine dei suoi giorni.

moneta raffigurante Cleomene I

Sparta i re avevano un ruolo più simbolico che politico. Sparta i re avevano un ruolo più simbolico che politico. Sparta i re avevano un ruolo più simbolico che politico. Nel sistema amministrativo della città, infatti, i compiti del sovrano si limitavano soprattutto al comando dell’esercito. Tuttavia, grazie alla sua grande personalità e al suo valore, Cleomene riuscì a lasciare una forte impronta nella storia di Sparta.
Durante il suo lungo regno, durato più di trent’anni, dal 520 al 488 a.C., la città divenne la prima potenza della Grecia. Eppure, le fonti antiche gli sono avverse e lo presentano come un uomo collerico, crudele e mentalmente instabile, che disprezzava non solo le norme umane, ma anche quelle divine. A quanto scrisse Plutarco, Cleomene aveva una sola regola: “Il danno che puoi infliggere ai nemici è più importante della giustizia”.
Sparta ruins.PNG

resti della polis di Sparta, non aveva mura perché confidava nel valore dei suoi guerrieri

Una vita per la guerra.

520 a.C. Cleomene sale al trono di Sparta. Nel 510 a.C, espelle da Atene il tiranno Ippia
491 a.C. Si libera dell’altro re, Demarato, che accusa di essere figlio illegittimo.
494 a.C. Cleomene sconfigge Argo a Sepeia ed elimina gli opliti nemici con l’inganno.
488 a.C. Al ritorno dell’esilio in Arcadia, è vittima di un raptus di follia e finisce per suicidarsi.


EREDE PER ERRORE. Perfino le circostanze della sua nascita furono insolite. Suo padre, il re Anassandrida, era sposato con una nipote e non riusciva ad avere figli. Questo fatto generava somma preoccupazione fra gli efori, i cinque uomini eletti annualmente che a Sparta avevano il potere supremo e svolgevano varie funzioni, tra cui il controllo del sovrano. Gli efori vegliavano sula continuità dinastica e perciò proposero ad Anassandrida di ripudiare la moglie in favore di una donna che potesse dargli un erede. Ma il re amava profondamente la consorte e si rifiutò. Secondo Erodoto, gli efori gli fecero una nuova e singolare proposta: “Poiché ti sappiamo legato a tua moglie, non ti chiediamo di ripudiarla, ma di prenderne pure un’altra che ti dia dei figli”. Anassandrina acconsentì e così si ritrovò con due famiglie. Ben presto la nuova moglie diede alla luce un figlio, Cleomene, ma poco dopo la prima moglie ne ebbe altri tre. Stando alle di Sparta, la successione ricadeva sul primo maschio nato dopo l’ascesa al trono del padre, e quindi Cleomene fu considerato il legittimo erede. Sebbene il giovane avesse mostrato sin da giovane i sintomi di un malessere mentale, alla morte di Anassandrida gli spartani ne accettarono la guida e lo proclamarono re.
Il suo primo intervento fuori dalla patria ebbe luogo nel 510 a.C., quando guidò l’esercito spartano contro Atene per destituire il tiranno Ippia. Gli spartani volevano interrompere le buone relazioni di Atene con Argo, la loro grande nemica. Tali rapporti risalivano al padre di Ippia, Pisistrato, che aveva come concubina una donna argiva. Inoltre Ippia stava dando prova di benevolenza verso i persiani, e ciò impensieriva gli spartani, che ne temevano l’espansione in Occidente. Cleomene invase la regione di Atene, l’Attica e vinse Ippia. Entrò in città e assediò il tiranno, che aveva cercato riparo nell’Acropoli, protetta da mura difensive. Gli spartani evitavano sempre di combattere sulle mura, perché in tal modo sarebbero potuti morire senza gloria. Questa volta, però, la fortuna fu dalla loro parte, riuscirono a fermare i figli del tiranno mentre questi ultimi fuggivano dall’Acropoli in gran segreto. Ippia trattò la ritirata assieme alla famiglia e lasciò Atene.
L’espulsione di Ippia, avvenuta grazie a Cleomene, consolidò la fama di Sparta come nemica della tirannia. Due anni più tardi, Cleomene tornò in un’Atene dilaniata dalla lotta politica tra Clistene e Isagora. Il primo proponeva riforme politiche che concedessero maggiore partecipazione al popolo, al contrario di Isagora, che proponeva di mantenere il potere nelle mani dell’aristocrazia. Durante il precedente soggiorno ad Atene, Cleomene si era legato a Isagora (le malelingue dicevano che era stato l’amante della moglie). Quindi quando Clistene affidò il potere al popolo, Isagora chiamò il potente amico. Cleomene si presentò con pochi soldati, a indicare che si trattava di una questione privata, ed entrò ad Atene.     

UMILIATO DUE VOLTE. Il re di Sparta consegnò a Isagora il comando della città ed espulse i sostenitori di Clistene, all’incirca 700 famiglie. Il popolo, però, si rifiutò di obbedire, e nella rivolta che ne seguì Clemene, Isagora e i loro fedeli dovettero rifugiarsi sull’Acropoli. Dopo due giorni di assedio, pattuirono una tregua per uscire indenne, ma comunque, narra Erodoto, gli ateniesi favorevoli a Isagora vennero giustiziati. Clistene e le 700 famiglie furono richiamati in patria, Cleomene si sentì umiliato e volle vendicarsi degli ateniesi. Reclutò quindi un esercito tra gli alleati del Peloponneso e invase l’Attica. Stavolta la spedizione era autorizzata ufficialmente da Sparta, e al suo comando vi erano entrambi i re della città: Cleomene e Demarato, membro di un’altra casa reale. Gli alleati degli spartani ignoravano che lo scopo ultimo dell’impresa fosse imporre Isagora come tiranno. Quando, ormai ad Atene, vennero a conoscenza del piano, alcuni di loro (come i corinzi si ritirarono). Se ne andò anche Demarato, contrario all’audace politica estera del collega Cleomene. Alla ritirare del re, pure gli altri alleati partirono. Cleomene penò allora di reintegrare Ippia in qualità di tiranno ateniese. Nel 504 a.C. convocò gli alleati a Sparta per una riunione cui anch’egli era presente. Cleomene usò la scusa di aver saputo dagli oracoli che gli spartani avrebbero patito molto per colpa di Atene (quando era stato lì, aveva portato con sé gli oracoli dell’Acropoli). Ciononostante gli alleati, e in particolare Corinto, che veniva da una lunga tirannide, si rifiutarono di appoggiare i piani del re. Ippia non venne quindi rimesso sul trono e tornò al suo esilio. 

L’oracolo di Clistene.
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santuario di Apollo a Delfi.
L’atenise Clistene, nemico del tiranno di Ippia, fece sì che la pizia, la profeta di Apollo a Delfi, corrotta a furia di denaro, offrisse a qualsiasi spartano la medesima risposta: la volontà degli dei era di liberare Atene.
Alla fine, poiché ricevevano sempre la stessa risposta, gli spartani obbedirono a quello che credevano fosse il volere di Apollo e Cleomene marciò contro Ippia e lo depose. Così narra Erodoto.
Sacrilegio ad Argo.
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il teatro di Argo
Quando Cleomene sconfisse l’esercito di Argo nel 494 a.C., i sopravvissuti si rifugiarono in un bosco sacro dedicato all’eroe che dava il nome alla città. Cleomene non volle entrarvi e ucciderli per paura di commettere un sacrilegio. Preferì ingannarli: gli fece sapere da un messaggero che era arrivato il riscatto e che potevano uscire senza timore appena sentivano il   loro nome (che lo spartano aveva saputo dai disertori). E così ne uccise cinquanta, finché gli altri che si trovavano ancora nel bosco capirono. Comandò allora agli iloti, gli schiavi degli spartani, di ammucchiare legna attorno al bosco e di appicare il fuoco. Gli argici furon sterminati e gli iloti si presero la colpa del sacrilegio. 
Gorgo la brillante figlia del re.
Cleomene ebbe una sola figlia, Gorgo, che sin da piccola dimostrò una vivace intelligenza. Quando Aristagvora cercò di corrompere il padre perché aiutasse i ribelli ioni contro la Persia, Gorgo, che aveva otto anni, esclamò: “Padre se te non te ne vai di qui, il forestiero di corromperà!, in un'altra occasione, quando una donna le chiese come mai solo a Sparta le donne comandassero gli uomini, rispose: “Perché solo le donne di Sparta generano veri uomini”.

IL MASSACRO DEGLI ARGIVI. Poiché non era riuscito a piegare Atene, Cleomene concentrò la sua politica estera sull’egemonia spartana nella penisola del Peloponneso. Per questo nel 494 a.C. attaccò Argo, l’acerrima nemica. I due eserciti si accamparono molto vicini, in attesa della battaglia decisiva. Secondo Erodoto, gli argivi si limitava a copiare ogni ordine dato all’araldo spartano al suo esercito. Quando se ne accorse, Cleomene comandò all’araldo di dare il segnale del pasto. Gli argivi si apprestarono a fare lo stesso e Cleomene li colse alla sprovvista, massacrandoli. I sopravissuti si rifugiarono in un bosco sacro all’eroe Argo, ma Cleomene li sterminò lo stesso: atto empio che avrebbe comportato una maledizione.
In seguito il re sciolse l’esercito e con mille uomini scelti si diresse all’Heraion, il santuario più importante per gli argivi, dove  offrì un sacrificio solenne alla dea Era. Fu però fermato da un sacerdote che lo accusò di empietà in quanto era proibito agli stranieri compiere sacrifici sugli altari, ma Cleomene lo fece frustare ed eseguì il rito. Quindi, pur avendo Argo alla sua mercé tornò a Sparta. I detrattori, tra i quali molto probabilmente stava il colle Demarato, lo accusarono di aver accettato denaro pur di ritirarsi, ma Cleomene ribatté sostenendo che, mentre rendeva il sacrificio sull’Heraion, le fiamme risplendenti sul petto della statua l’avevano convinto a non espugnare la città. A quanto pare, i devoti spartani presero per valida quella spiegazione. In realtà è probabile che Cleomene ritenesse che a Sparta sarebbe convenuta una Argo decimata, ma non distrutta: altrimenti le altre città del Peloponneso, come Corinto, avrebbero accresciuto il proprio potere sulle spalle di Argo. Quello che è certo è che Argo rimase senza uomini. Erodoto fissa in seimila il numero degli argivi morti mentre un altro storico, Pausania, parla di cinquemila perdite. La città impiegò del tempo per riprendersi dal massacro e avrebbe giustificato con la mancanza di uomini la neutralità nella futura guerra contro i persiani.
Nel 491 a.C., il re persiano Dario I mandò messaggeri in tutta la Grecia per chiedere terra e acqua, un gesto di solito indice di sottomissione. Gli ateniesi gettarono i messi in una vecchia cava, e gli spartani li scagliarono in un pozzo consigliandogli con scherno di prendere da lì l’acqua e la terra. Tuttavia, l’isola di Egina, nemica di Atene, accettò di sottomettersi al re persiano. Gli ateniesi si rivolsero a Sparta e accusarono gli egineti di tradimento. Cleomene si presentò a Egina per chiedere degli ostaggi, ma gli egineti glieli negarono con il pretesto che non erano venuti entrambi i re di Sparta, come stabiliva la legge. Gli egineti erano ammaestrati da Demarato che, intanto, secondo Erodoto, diffamava Cleomene a Sparta. Di sicuro Demarato doveva essere il portavoce di molti spartani, ostili a Cleomene. Si erano opposti a Ippia, amico dei persiani, e non gradivano il comportamento sempre collerico e vendicativo del re, che creava tensione tra gli alleati di Sparta nel Peloponneso. La fazione avversa a Cleomene mandava sempre avanti Demarato, come a Egina. Cleomene se ne risentì e, prima di castigare gli egineti, volle liquidare Demarato.

Le ragioni di un suicidio.
La terribile fine di Cleomene, esempio della resistenza al dolore tipica degli spartani, incontrl diverse spiegazioni. Nella versione locale, Cleomene impazzì per il vizio di bere vino puro (non mischiato ad acqua); altri lessero la sua morte come un castigo divino per il sacrilegio commesson le bosco di Argo, e si pensò pure che fosse il culmine di un disturbo mentale già manifestatosi in gioventù.

TRIONFO E CADUTA. Il sovrano approfittò di certi sospetti sulla legittimità del collega e suggerì di consultare l’oracolo di Delfi. Cleomene aveva corrotto i capi di Delfi e così, alla formulazione della domanda, la pizia dichiarò che i dubbi erano fondati (vedi riquadro sotto). Dematrio fu deposto e per un certo tempo rimase a Sparta, vittima delle beffe, finché scappò in Asia e si rifugiò alla corte di Dario. Al suo posti Cleomene insediò Leotichida. Entrambi si recarono a Egina e presero degli ostaggi. Come speciale vendetta nei confronti degli egineti, Cleomene li lasciò nelle mani degli ateniesi, i loro peggiori nemici. Poco dopo la corruzione della pizia scoperta e Cleomene cadde in disgrazia. Temendo rappresaglie fuggì in Arcadia, dove cercò di riunire i popoli nella lotta contro Sparta. Gli spartani lo lasciarono allora rientrare, ma appena tornato, in preda a un raptus di follia cominciò a prendere a bastonate chiunque gli capitasse a tiro.
I familiari lo legarono a un ceppo finché un giorno che era rimasto sotto la sorveglianza di un servo ilota, Cleomene gli chiese un pugnali. L’iliota si rifiutò, ma Cleomene lo minacciò di vendicarsi una volta libero. L’ilota cedette, e a quanto narra Erodoto, Cleomene “cominciò a straziarsi le gambe, fendendosi le carni nel senso della lunghezza passò dalle gambe alle cosce, dalle cosce alle anche e ai fianchi, fino a raggiungere il ventre e morì così, sbudellandosi completamente e tagliando a pezzi la carne come liste”. Altre fonti aggiungono che rideva con un smorfia di dolore mentre si lacerava il corpo. Oggi gli storici credono che furono gli spartani a giustiziarlo quando divenne un pericolo per lo stato: la sua politica personalistica e ambiziosa metteva a rischio l’equilibrio delle forze nel Peloponneso, e quindi la stessa Sparta.

La storia di Demarato, il ripudiato.
Nelle storie (libro VI, 61-72) Erodoto racconta l’origine di Demarato, che Cleomene accusa di essere figlio illegittimo e che per questo lascia il trono.

«Δημάρητος, ἔλεγε τάδε. ‘[...] πρῶτα μὲν ὅτι οὐκ ἔστι ὅκως κοτὲ σοὺς δέξονται λόγους δουλοσύνην φέροντας τῇ Ἑλλάδι, αὖτις δὲ ὡς ἀντιώσονταί τοι ἐς μάχην καὶ ἢν οἱ ἄλλοι Ἕλληνες πάντες τὰ σὰ φρονέωσι. ἀριθμοῦ δὲ πέρι, μή πύθῃ ὅσοι τινὲς ἐόντες ταῦτα ποιέειν οἷοί τε εἰσί: ἤν τε γὰρ τύχωσι ἐξεστρατευμένοι χίλιοι, οὗτοι μαχήσονταί τοι, ἤν τε ἐλάσσονες τούτων ἤν τε καὶ πλεῦνες.’»
(IT)
«Demarato parlò così [a Serse]: "[...] Prima di tutto, non accadrà mai che [gli Spartani] accettino le tue proposte di schiavitù. In secondo luogo, si opporranno a te in battaglia, anche se tutti gli altri Greci si dovessero schierare dalla tua parte. Quanto al numero, non chiedere mai quanti sono: anche se sono mille, pronti a combattere, o anche meno di mille, questi qui ti daranno comunque battaglia."

Un re senza eredi. Aristone, re di Sparta, si è sposato già due volte, ma non ha figli. Non ammette che sia sua la colpa della mancanza di eredi e vuole sposarsi ancora: inganna quindi l’amico Ageto. Quest’ultimo ha una moglie molto bella, e Aristone ne è innamorato. Pur di averla, Aristone dice ad Aceto che gli farà un regalo e che, in cambio, potrò scegliere una delle sue proprietà. Entrambi suggellano l’accordo con un giuramento.
Il figlio prematuro. Ageto non si è preoccupato del fatto che Aristone gli possa prendere la moglie, in quanto ne ha già due, e sceglie quello che più gli piace dei bene di Aristone. A sua volta, Arisotne gli chiede la moglie e Ageto non può rifiutarsi, perché ha giurato e quindi la bella moglie, di cui ignoriamo il nome, sposa Aristone. Prima del compimento del non mese di gravidanza la donna partorisce un figlio, cui danno il nome di Demarato. 
Un figlio ripudiato. Mentre Aristone è riunito con gli efori (i magistrati più importanti di Sparta), un servo gli comunica che è diventato padre. Inizia a contare i mesi trascorsi dalle nozze ed esclama: “non può essere mio), convinto che la moglie in realtà era incinta di Ageto. Gli efori lo sentono. Con il tempo Aristone si persuade che il figlio è suo. Demorato riceve questo nome perché gli spartani   avevano augurato al sovrano la nascita di un erede maschio.
La risposta del Dio. Quando Aristone muore, Demarato diventa uno dei re di Sparta e si scontra con l’altro re, Cleomene, per disfarsi del rivale, Cleomene si basa su qunato sentito dagli efori e denuncia l’illegittimità di Demarato. Se il figlio Ageto, infatti, Demarato non piuò aspirare al trono. Gli spartani consultano l’oracolo di Apollo, ma Cleomene ha corrotto la pizia, la quale afferma che ffettivamente Demarato non è figlio di Aristone.
La verità della madre. Un altro nobile, Leotichide, sostituisce Demarato e lo schernisce per la sua origine illegittima. Deciso a chiarire la propria provenienza, Demarato sacrifica un bue a Zeus, chiama la madre e le mette in mano parte delle viscere, cosicché non possa peccare con una bugia. Quindi, le chiede chi sia suo padre. La madre gli racconta che, la prima notte di nozze, un’apparizione identica ad Aristone ha giacuto con lei e le ha lasciato due corone.
La liberazione. Poi, continua a raccontare la madre, è venuto Aristone e le ha chiesto chi avesse lasciato le corone. Alla risposta di lei, Aristone nega di aver giaciuto con la donna. La madre, invece, giura di aver detto la verità. Si scopre che le corone vengono da un tempietto vicino alla porta di casa dedicato all’eroe Astrabaco. Perciò “tuo padre è Aristone o Astrabaco”, gli dice la madre. Sollevato, Demarato va in Asia, dove Dario lo prende al suo servizio.

Articolo in gran parte di Francisco Javier Murcia Ortuno, filologo classico, pubblicato su Storica National Geographic del mese di agosto 2018. Altri testi e immagini da Wikipedia.