lunedì 24 dicembre 2018

Un secolo di battaglie aeree.

Un secolo di battaglie aeree.
La nascita dell’aviazione militare.
La guerra in Libia, all’inizio del Novecento, divenne il teatro di un modo inedito di combattere. E i nostri piloti furono i protagonisti. Fu italiano il primo bombardamento aereo.
Un articolo sull’aviazione della Prima guerra è già stato pubblicato su questo blog con il titolo assi dell’aviazione.

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domenica 23 dicembre 2018

In difesa dei cavalieri.

In difesa dei cavalieri.
Se la spada rappresenta l’audacia del guerriero, lo scudo ne simboleggia la nobiltà e la fortezza. Nato per proteggere il corpo, con il tempo divenne il volto del cavaliere, lo spazio dove egli dipingeva le sue armi, le sue imprese, le sue aspirazioni.

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lunedì 17 dicembre 2018

Lo spionaggio nell’antica Roma.

Lo spionaggio nell’antica Roma.
L’arte della guerra diventò scientifica con la nascita dei servizi d’informazione, inventati da Annibale. I Romani, però, impararono presto e ai tempi di Cesare lo spionaggio divenne metodo.


 Prätorianer.jpg
Pretoriani del II secolo, da un bassorilievo (oggi presso il Pergamonmuseum di Berlino)
a Roma, l'arte dello spionaggio divenne scientifica all'epoca di Cesare. spesso le spie si muovevano in abiti civili e, se necessario, portavano armi leggere come il pugio (foto sotto)
Pugio second century.jpg
Negli imperi orientali il ricorso allo spionaggio era abbastanza frequente, mentre Atene e Roma non avevano lo stesso interesse, forse per le diverse origini storiche e le finalità politiche che differenziarono i regni dell’Est dai regimi repubblicani dell’Ovest. Egizi, Assiri, Babilonesi e Persiani utilizzarono tutti gli strumenti a loro disposizione (spionaggio compreso) per alimentare le proprie mire espansionistiche e difendere le dinastie regnanti. Atene e Roma repubblicane, invece, si svilupparono a partire da piccole città-stato, gelose della propria indipendenza e autonomia decisionale, quindi meno protese verso l’esterno. Per lungo tempo, l’attività di intelligence, sia nelle città greche sia nell’Urbe (impegnata con le prime conquiste), si limitò alla semplice ricognizione del territorio o alla raccolta di notizie utili alle campagne militari.
Anche le tattiche militari erano diverse. Se Assiri e Persiani privilegiavano la guerra di movimento, i Greci facevano affidamento sulla fanteria pesante. Gli opliti (fanti massicciamente armati e ben protetti) avanzavano a passo cadenzato, stretti l’uno all’altro, contro una massa di nemici organizzati allo stesso modo. Il gruppo più numeroso e compatto faceva indietreggiare l’altro, ipotecando la vittoria. In un contesto fatto di spirito di corpo, pesantezza di armamento e forza pura, c’era poco spazio per pratiche di spionaggio e controspionaggio, per trucchi e trappole. Anche i Romani, all’inizio della loro avventura storica, che li vide trasformarsi da contadini nei migliori guerrieri dell’antichità, davano la priorità alla forza collettiva e all’impeto irresistibile dei centurioni, mentre si mostravano restii alla frode negli scontri diretti.

LA LEZIONE DI ANNIBALE. Fu con Giulio Cesare che capirono l’importanza dello spionaggio, non solo per esigenze militari, ma anche per il controllo della situazione interna, dando origine alle prime forme di polizia politica. Che i Romani non avessero inizialmente una mentalità di intelligence lo si capisce dal celebre episodio delle oche del Capidoglio. Nel 390 a.C., i Galli di Brenno assediarono l’Urbe e tutta la popolazione si rifugiò sul colle del Campidoglio, ultimo bastione di resistenza. Una notte, i barbari tentarono di sorprendere i Romani nel sonno, ma il forte starnazzare delle oche svegliò i difensori che, venuto meno l’elemento sorpresa sul quale contavano gli assalitori, riuscirono a respingere l’attacco. Leggenda o realtà che sia, l’episodio mostra che la trasformazione dei Romani in puri combattenti non era ancora avvenuta. Come spiegare, altrimenti, che non avessero previsto una rete di sentinelle o un turno di guardia in una situazione di così evidente pericolo? Come non aver cercato di ottenere qualche notizia preventiva sulle intenzioni del nemico alle porte?
I Romani cominciarono ad apprezzare le tecniche dello spionaggio grazie al loro peggior nemico: l’uomo che fu sul punto di conquistare Roma: Annibale. Il cartaginese si era trovato più volte sull’orlo del trionfo perché disponeva di informazioni geografiche, topografiche e militari (assai difficili da procurarsi in quell’epoca) che solo un’efficiente rete di spie, sparse nella penisola, poteva fornire. In effetti, fin da quando si trovava in Spagna, in attesa di partire alla conquista di Roma, Annibale aveva creato un’organizzazione spionistica che gli fornì informazioni dall’Italia. Un sistema fatto anche di travestimenti, contraffazioni di documenti, linguaggi cifrati, spedizioni protette, ecc… Tutto questo mancava ancora ai Romani, i cui generali, tuttavia, appresero la lezione di Annibale. Scipione l’Africano, da cui il punico fu sconfitto fu il primo a trarre fruttuosi insegnamenti dalle tecniche spionistiche da Annibale. Ma solo con Cesare il ricorso allo spionaggio e all’intelligence divenne sistematico. Con lui la raccolta preventiva d’informazioni divenne imprescindibile per lo svolgimento delle operazioni militari. Con il tempo, il servizio si consolidò e con il tempo gli agenti segreti si fecero professionali. Ce lo racconta chiaramente Svetonio, a proposito dell’invasione della Britannia, tra il 55 e il 54 a.C. Scrive il grande storico romano: “Durante le sue spedizioni non era mai chiaro se Cesare avesse successo a causa della sua prudenza o della sua temerarietà. Mai, in verità, condusse il suo esercito in strade potenzialmente pericolose senza aver prima esaminato la disposizione dei luoghi, e lo trasportò in Britannia solo dopo aver studiato i porti, la navigazione, i mezzi per sbarcare nell’isola”. In effetti ogni movimento delle truppe di Cesare era preceduto da una meticolosa preparazione ricognitiva, logistica e militare, che teneva conto anche delle notizie raccolte sui luoghi di destinazione, sui popoli da sottomettere e sulle loro tecniche di guerra. Così avvenne anche per l’invasione delle isole britanniche, quando Cesare incaricò Caio Voluseno di una vera e propria missione di spionaggio.

La lezione di Onosandro.

Molto tempo dopo la morte di Cesare, il comandante di origine greca Onosandro scrisse a proposito delle tecniche di spionaggio parole straordinariamente attuali: “Normalmente le spie vanno condannate a morte. Ma se l’esercito è in buono stato e superiore a quello del nemico, esse possono essere graziate, risparmiate e rimandate indietro non senza aver fatto loro osservare la consistenza e l’organizzazione delle truppe”. Visione quanto mai moderna dell’uso strumentale e finalizzato dell’informazione.
Onosandro, d’altra parte, si pose il problema di come trattare le spie anche da un opposto angolo visuale: “Il generale prudente diffida del transfuga nemico, di chi si offre di svelare segreti importanti; il generale intelligente deve tuttavia ben valutare le circostanze riferite e, se le considera probabili, deve assicurarsene di persona, portare la spia con sé, piedi e polsi legati, e  promettendogli la liberazione se ha detto la verità o il supplizio se ha mentito”. Un generale della Seconda guerra mondiale non avrebbe parlato diversamente.  
I travestimenti di Annibale.

Figlio di Amilcare Barca, uno dei più illustri generali cartaginesi, Annibale successe al padre nel 221 a.C., a 26 anni. Particolarmente portato per l’arte degli artifici e degli inganni, il giovane comandante utilizzava spesso parrucche e travestimenti, che gli consentivano di spostarsi da un campo all’altro senza essere riconosciuto, per sondare il morale dei soldati e prevenire eventuali sedizioni. Prima dell’offensiva contro Roma, Annibale disseminò in Italia spie di vario genere che gli davano notizie sulla situazione del Paese che era sul punto di invadere.
Era così ben informato sul piano militare, geografico e topografico che riuscì a evitare di scontrarsi con l’armata romana del Rodano, a evitare le truppe sbarcate a Marsiglia al suo inseguimento e ad attraversare le Alpi con 26mila uomini e 37 elefanti, quando la neve aveva già cominciato a imbiancarne le cime. La sua abilità nelle tecniche di spionaggio era tale che riusciva a comunicare con i suoi alleati persino nelle città controllate da Roma.

Frumentarii
081 Conrad Cichorius, Die Reliefs der Traianssäule, Tafel LXXXI.jpg
Alcuni frumentarii si occupano degli approvvigionamenti, mietendo il grano (Colonna di Traiano, rilievo n.81)
Descrizione generale
AttivaEtà repubblicana e imperiale
NazioneCiviltà romana
Tipotruppe scelte dell'esercito romano
Guarnigione/QGCastra peregrina[1]
DecorazioniDona militaria
Voci su unità militari presenti su Wikipedia
frumentarii o mensores frumentarii[2] o mensores tritici[3] (latino) erano soldati specializzati dell'esercito romano. A partire dall'impero di Adriano vennero ad assumere il ruolo di "corrieri" o di agenti della polizia segreta.
L’INTELLIGENCE DIVENTA PROFESSIONE. Dopo aver raccolto informazioni presso i mercanti che dal Nord della Gallia erano soliti recarsi oltre Manica, Voluseno osservò attentamente le coste nemiche da una nave (non avendo potuto sbarcare), probabilmente nell’attuale regione del Kent. Dopodiché, riferì a Cesare le informazioni raccolte e il frutto delle sue osservazioni, che si rivelarono molto utili per le operazioni militari. Del resto, una delle principali ragioni della vittoria di Cesare sui Galli, qualche anno dopo, fu proprio la mancanza di ogni attività di informazione preventiva da parte di Vercingetorige. Lo dimostra l’esito della celebre battaglia di Alesia nel 52 a.C., in cui le truppe galliche, giunte in aiuto della città assediata dai Romani, si gettarono sul nemico sena aver svolto alcuna attività ricognitiva, trovandosi subito in difficoltà. In caso contrario avrebbero contrastato Cesare, per non farsi prendere a tenaglia dalla doppi minaccia costituita dalle truppe di Vercingetorice in procinto di uscire dalla città e da quelle di Commio, in arrivo, aveva fatto costruire due linee difensive, una rivolta verso l’interno (cioè verso Alesia) e un’altra verso l’esterno, per fermare le truppe di rinforzo. Se i Galli avessero praticato un minimo di spionaggio, avrebbero capito che i Romani erano in grado di combattere su due fronti per impedire il ricongiungimento degli eserciti nemici. Di conseguenza, avrebbero cambiato la loro strategia e forse Alesia non sarebbe caduta, le porte della Gallia sarebbero rimaste chiuse alle legioni romane e la Storia avrebbe avuto un altro corso. I Romani, dunque, erano sempre più convinti dell’utilità dello spionaggio, e con il tempo l’attività d’informazione divenne altamente professionale. I frumentariik intermediari e commercianti preposti all’approvvigionamento delle truppe, furono spesso incaricati, proprio per i contatti che intrattenevano con potenziali fonti sensibili, di raccogliere informazioni utili sul piano militare, economico, tattico e strategico. Inevitabilmente finirono per sostituire gli speculatores, le avanguardie delle truppe in movimento, che svolgevano compiti di limitata ricognizione sul campo. Avvenne così una vera e propria mutazione professionale. Da intermediari commerciali, i frumentarii si trasformarono in agenti segreti. Le loro reti di spionaggio funzionavano così bene che essi divennero anche agenti del controspionaggio interno, una sorta di polizia politica resa a combatterla sovversione interna fin dal suo primo manifestarsi. Con il passare del tempo, tuttavia, divennero protagonisti di eccessi di potere e di derive legate alla loro ampia autonomia. La loro immagine si degradò, la popolazione cominciò a temerne gli interventi, il loro semplice apparire divenne sinonimo di terrore: erano una sorta di Gestapo dell’epoca, tanto che il loro corpo fu soppresso nell’ambito delle grandiose riforme promosse da Diocleziano (284-305 d.C.). Questo non perché l’imperatore non volesse più far ricorso ai servizi segreti, ma perché intendeva istituzionalizzarli, inserirli nelle strutture dello Stato, renderli conformiaglia altri organi del potere e controllarli meglio.

Parole di Roma: Exploratores.
Roman Cavalry 2 - cropped.JPG
explorator a cavallo
Si chiamavano così i soldati romani che, a differenza degli speculatore (che erano per lo più osservatori isolati per diventare poi anche guardie del corpo dell’imperatore e messaggeri), facevano parte di un distaccamento guidato da un centurione.
Avevano il compito di andare in ricognizione per conoscere la posizione del nemico, la sua forza, le vie e il luogo più adatto per la posa dell’accampamento. Fino all’epoca imperiale non furono corpi speciali, ma solo soldati tratti da ogni legione (secondo Igino, 200 uomini ogni tre legioni). Dal II secolo d.C. furono corpi speciali dell’esercito. Si ha notizia di corpi di esploratori in Britannia, Germania, Mauritania e sul Danubio (in Serbia). Il loro lavoro richiedeva spesso l’uso di abiti civili, per cui potevano, a tutti gli effetti, essere considerati spie.  


Una ricostruzione di scitala
La scitala o scitale (in greco anticoσκυτάληskytàlē, "bastone") è considerato tradizionalmente un messaggio cifrato e segreto che veniva inviato dagli efori, i cinque supremi magistrati di Sparta, ai generali e ai navarchi impegnati nelle spedizioni militari.[1] Si tratta di uno dei più antichi metodi di crittografia per trasposizione conosciuti: il meccanismo di codifica permetteva, nel caso la scitala fosse stata intercettata dal nemico, di mantenere segreto il contenuto del messaggio e, nello stesso tempo, consentiva al ricevente di verificarne l'autenticità, in quanto solo chi era dotato di una bacchetta identica a quella utilizzata dal mittente per preparare la scitala, poteva decifrare e leggere il messaggio.[2]
Alcuni studiosi moderni hanno però messo in dubbio l'uso crittografico della scitala, sostenendo che fosse invece usata come un sistema di comunicazione non cifrato.[3]

I PRECURSORI DEI MODERNI 007. In tal modo Diocleziano istituì un nuovo dipartimento dell’amministrazione imperiale, una struttura permanente al servizio degli interessi nazionali costituita da individui efficienti, affidabili e inquadrati chiamati agentes in rebus. Veri agenti di intelligence incaricati della protezione interna ed esterna dell’impero, con modalità operative non dissimili a quelli dell’attuale Cia.
Successivamente venne perfezionata la sorveglianza delle frontiere, dove furono inviate truppe appositamente addestrate per l’attività di spionaggio. Tra queste c’erano i procursatores, soldati d’avanguardia per ricognizioni a breve raggio, e gli exploratores, addestrati a più ampie ricognizioni in territorio nemico: uno spionaggio di tipo strategico, ma anche politico, per consentire ai capi militari di avere una visione generale della situazione prima di una guerra o di una campagna militare. Con l’inizio della decadenza dell’impero, le truppe di frontiera si scontravano sempre più frequentemente con le popolazioni barbare del Nord, desiderose di impossessarsi delle ricchezze di Roma. Aumentò, di conseguenza, la richiesta di uomini per integrare i ranghi delle armate sottoposte al primo impatto degli invasori. In mancanza di effettivi e data l’urgenza delle richieste, si decise di ricorrere al reclutamento anche di barbari (solitamente ottimi combattenti). Furono ingaggiate intere tribù, nella convinzione che quello fosse il modo più appropriato per assicurarne un inserimento graduale e senza traumi nella struttura militare dell’impero. Fu un errore, perché i combattenti barbari finirono per sentirsi legati solo ai rispettivi capitribù, che assunsero uno status e un’autonomia decisionale eccessivi. Con il tempo, questo mise in crisi tutto il sistema militare romano, tanto che le tribù, consapevoli della loro forza e della loro compattezza, decisero di spartirsi il bottino, causando il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, la cui caduta nel 476 a.C., provocò la scomparsa di molte istituzioni, compresi gli apparati di spionaggio e controspionaggio. Questi, che avevano ormai raggiunto un notevole livello di efficienza, continueranno però a esistere nell’Impero Romano d’Oriente, dove la nobile arte della guerra rimarrà per secoli nettamente superiore a quella dei popoli barbarici.

Articolo in gran parte di Domenico Vecchioni, pubblicato su Civiltà Romana n. 1 – altri testi e foto da Wikipedia.   

La guerra finisce a Stalingrado.

La guerra finisce a Stalingrado.
Una serie di errori strategici, sia da parte sovietica che da tedesca, diedero il via alla battaglia più decisiva della Seconda guerra mondiale. Alla fine, fu la capacità di Hitler di trasformare una sconfitta in un disastro irrimediabile.



Nelle prime settimane del 1942, a poco più di sei mesi dall’avvio dell’operazione Barbarossa, Hitler e l’alto comando della Wermacht erano costretti a chiudere gli occhi sulla portata del suo fallimento. L’invasione dell’Urss era stato un azzardo mal calcolato: sbagliata la valutazione delle sue esigenze logistiche, in particolare sui consumi di carburante, sottovalutata la forza dell’Armata Rossa, nonostante i clamorosi successi iniziali, drammaticamente incompleto lo stesso piano dell’operazione, che non aveva previsto alcuna considerazione nel caso che la resistenza russa fosse riuscita a prolungare i combattimenti oltre il mese di novembre, fino al sopraggiungere dei rigori invernali. Le perdite tedesche ammontavano già a più di un terzo dei 3 milioni di uomini e a circa i due terzi dei 7000 mezzi corazzati e blindati che avevano attraversato il confine dell’Unione Sovietica. Persino peggiore la situazione per quanto riguarda l’apparato logistico, decisivo in un terreno difficile come quello russo: solo un veicolo a motore su sei era ancora funzionante e solo un cavallo su tre era ancora in vita.
L’Armata Rossa, nonostante avesse subito immani perdite, rimaneva il più grande esercito del mondo. A  peggiorare le cose, la Germania era contemporaneamente in guerra contro la Gran Bretagna, il più grande impero del mondo, e da dicembre 1941 anche contro gli Stati Uniti, di gran lunga la prima potenza economica del mondo. Sotto il peso di queste forze combinate di portata planetaria, la Germania avrebbe finito inevitabilmente per schiantarsi. In questa lotta contro il tempo, l’unica opzione disponibile era tentare un ultimo azzardo, concentrando le forze disponibili proprio contro l’Unione Sovietica, l’avversario più pericoloso. Con la Russia fuori gioco e le sue risorse in mano tedesca, la Germania avrebbe riequilibrato almeno parzialmente i rapporti di forze con i suoi nemici a Occidente, garantendosi la prospettiva di poter affrontare una guerra di lungo periodo.


Battaglia di Stalingrado
parte del fronte orientale della seconda guerra mondiale
Bundesarchiv Bild 183-R76619, Russland, Kesselschlacht Stalingrad.jpg
Gennaio 1943: soldati sovietici snidano gli ultimi tedeschi tra le macerie di Stalingrado.
Data17 luglio 1942 - 2 febbraio 1943
LuogoStalingrado e regione tra il Don e il VolgaUnione Sovietica
EsitoDecisiva vittoria sovietica
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
1 500 000 uomini (forze complessive dell'Asse).[1]
circa 1 500 mezzi corazzati[2]
1 800 000 uomini.[3]
3 512 carri armati[4]
Perdite
oltre 1 milione di perdite totali tra morti, dispersi e prigionieri.[5][6]
100 000 rumeni e 40 000 italiani morti nella ritirata[7]
185 000 tedeschi morti nell'accerchiamento[8]
circa 400 000 prigionieri (150 000 tedeschi, 50 000 italiani, 60 000 ungheresi e 140 000 rumeni)[5]
circa 1 100 carri armati[9]
tra 580 e 640 aerei[10]
478 000 soldati morti e dispersi[11]
650 000 feriti[11]
2 915 carri perduti nel periodo novembre 1942-febbraio 1943[11]
706 aerei perduti nel periodo novembre 1942-febbraio 1943[11]
Voci di battaglie presenti su Wikipedia
Con il termine battaglia di Stalingrado (in russoСталинградская битва?traslitteratoStalingradskaja bitva, in tedescoSchlacht von Stalingrad) si intendono i duri combattimenti svoltisi durante la seconda guerra mondiale che, tra l'estate del 1942 e il 2 febbraio 1943, opposero i soldati dell'Armata Rossa alle forze tedescheitalianerumeneed ungheresi per il controllo della regione strategica tra il Don e il Volga e dell'importante centro politico ed economico di Stalingrado (oggi Volgograd), sul fronte orientale.
La battaglia, iniziata con l'avanzata delle truppe dell'Asse fino al Don e al Volga, ebbe termine, dopo una serie di fasi drammatiche e sanguinose, con l'annientamento della 6ª Armata tedesca rimasta circondata a Stalingrado e con la distruzione di gran parte delle altre forze germaniche e dell'Asse impegnate nell'area strategica meridionale del fronte orientale.
Questa lunga e gigantesca battaglia, definita da alcuni storici come "la più importante di tutta la Seconda guerra mondiale",[12] segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei suoi alleati e satelliti, nonché l'inizio dell'avanzata sovietica verso ovest che sarebbe terminata due anni dopo con la conquista del palazzo del Reichstag e il suicidio di Hitler nel bunker della Cancelleria durante la battaglia di Berlino.[13]

Operazione Blu[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: operazione Barbarossaseconda battaglia di Char'kov e operazione Blu.

L'avanzata tedesca durante l'operazione Blu, dal maggio al novembre 1942
Nella primavera del 1942 Adolf Hitler era fermamente deciso a riprendere l'iniziativa sul fronte orientale dopo il brusco fallimento della battaglia di Mosca a causa della controffensiva dell'Armata Rossa durante il rigido inverno russo.[14] Freddo, ghiaccio e neve, uniti ai potenti e inaspettati contrattacchi sovietici, avevano notevolmente indebolito la Wehrmacht che, pur mantenendo la sua coesione e avendo evitato una rotta "napoleonica" (secondo Hitler grazie alla sua risolutezza e alla sua decisione di ordinare la resistenza sul posto alle truppe), non disponeva più delle forze sufficienti a sferrare una nuova offensiva generale paragonabile all'operazione Barbarossadell'estate precedente.[15]


Una città simbolo.
Le caratteristiche della città, con le sue enormi fabbriche e i densi insediamenti abitativi, si rivelarono un ostacolo insormontabile all’efficace coordinamento di corazzati, artiglieria, aerei e fanteria che erano al centro delle tattiche della Wehrmacht. La città si allungava per 40 km., seguendo la riva occidentale del Volga, qui largo oltre 1600 metri. I quartieri settentrionali della città erano dominati da grandi opifici: la fabbrica di trattori Dzerzhinsky, la fabbrica di cannoni Barricate Rosse, l’acciaieria Ottobre Rosso, e altre ancora formavano praticamente un’unica posizione fortificato interconnessa, che sarebbe stata protagonista degli intensi e sanguinosi combattimenti ravvicinati dei mesi a   venire. L’estremità meridionale della città, costituita dai sobborghi di Minina e Yelshanka, era divisa dal resto della città dal fiume Tsaritsa, un affluente del Volga a sud della principale stazione ferroviaria di Stalingrado. Si suppone, inoltre, che Hitler si sia incaponito nel voler vincere a tutti i costi la battaglia anche per il nome che portava: voleva distruggere la città di Stalin, conscio del grande valore propagandistico che una tale operazione avrebbe avuto.  

IL FUMOSO PIANO TEDESCO. Nella direttiva del Fuhrer n. 41 del 5 aprile 1942, Hitler formalizzò questa nuova offensiva denominandola operazione Blu: la conquista del Caucaso e, oltre la catena montuosa anche della Transcaucasia, le regioni dalle quali l’Unione Sovietica ricava il 90% della propria produzione petrolifera e molte altre preziose materie prime. Il piano prevedeva, in primavera, la ripresa dell’offensiva da parte dell’intero Gruppo di Armate del Sud, il cui fronte correva a settentrione da Orel, scendendo fino al mare d’Azov. Nella prima fase, una serie di battaglie di accerchiamento avrebbero dovuto annichilire, una dopo l’altra, le formazioni sovietiche a Ovest del fiume Don, fino all’obiettivo di stabilizzare, in una seconda fase, il fianco sinistro del Gruppo di Armate del Sud. Tutto ciò raggiungendo, ma senza conquistare, Stalingrado per permettere alle truppe tedesche l’attraversamento del braccio meridionale del Don, dando via alla fase decisiva e conclusiva del piano, ossia l’avanzata in profondità del Caucaso. Era anche previsto, ma solo come obiettivo secondario, l’attraversamento del Volga a settentrione di Stalingrado per lanciare future offensive. Più che la pianificazione di un’operazione militare di ampia portata, il piano Blu era una pura indicazione strategica, che confidava, per la sua realizzazione, nella sapienza tattica dei generali e delle truppe tedesche. Mancava una precisa visione complessiva delle operazioni, e in ciò il piano soffriva degli stessi difetti dell’operazione Barbarossa. Ed era, come molti alti ufficiali tedeschi intuirono subito, destinato a incontrare lo stesso infausto destino.

L'avanzata tedesca verso il Volga(luglio-settembre 1942)

Non un passo indietro.


Francobollo sovietico con la frase "Non un passo indietro"
in russo (ne shagu nazad)
L'Ordine numero 227 è un ordine emesso da Stalin, il 28 luglio 1942. Esso decretava che tutti i membri dell'Armata Rossa che si fossero ritirati o avessero altrimenti lasciato le loro posizioni senza averne ricevuto l'ordine, sarebbero stati inseriti in un "battaglione di disciplina". È conosciuto anche come l'ordine "Non un passo indietro!"[1] (Ни шагу назад!).
La direttiva n. 227 emanata da Stalin il 27 luglio 1942 ordinava tassativamente agli uomini e alle donne dell’Armata Rossa di non cedere al nemico un solo metro del territorio russo. Un comandante che si assumeva la responsabilità di far arretrare i suoi uomini doveva dimostrare di aver avuto ottime ragioni per farlo, e spesso non era nemmeno sufficiente di fronte agli spietati tribunali di guerra. I russi dimostrarono tuttavia una tenacia incrollabile e il recente accesso agli archivi sovietici ha sfatato il mito delle fucilazioni sul posto di masse di disertori. Per decenni si è ritenuto che ammontassero tra i 13 e i 14mila i codardi giustiziati dai commissari politici per aver abbandonato il combattimento, ma oggi gli storici hanno ridimensionato quella cifra a circa 300. Nikita Crushev, destinato a succedere a Stalin, ebbe un ruolo di primo piano nell’attuazione della direttiva per la difesa a oltranza di Stalingrado. 


L’OSTINAZIONE DI STALIN. In campo sovietico, però, il clima all’interno della Stavka  (il comando supremo militare sovietico) non era migliore. Stalin accentrava su di sé ogni decisione strategica e, com’era già accaduto nella primavera dell’anno precedente, ossia nelle fasi iniziali dell’operazione Barbarossa, ciò si sarebbe rivelato di grande svantaggio per i suoi generali. Convinto, come per altro l’intera Stavka, che la prossima offensiva di Hitler si sarebbe scatenata sul fronte centrale contro Mosca, era incerto tra due opzioni opposte: una decisamente difensiva, che puntava al logoramento delle forze tedesche; un’altra marcatamente offensiva, con la quale intendeva strappare ai tedeschi l’iniziativa, riconquistando i territori perduti. Entrambi avevano punti di forza e di debolezza, ma erano almeno scelte precise e chiare. Invece Stalin optò per una via di mezzo: nessuna grande offensiva, ma limitati contrattacchi di disturbo locali. In questo modo, però, l’iniziativa sarebbe rimasta in mano tedesche e le forze sovietiche non avrebbero raggiunto una massa tale da risultare efficaci, agevolando al contrario la Wermacht il compito di sconfiggerle poco alla volta.
Un attacco contro Mosca era certamente l’opzione più logica per una ripresa delle operazioni tedesche, ma in questo frangente l’irrazionalità militare di Hitler colse completamente di sorpresa l’Armata Rossa e le prime fasi dell’operazione Blu, iniziate il 28 giugno ebbero un successo oltre ogni immaginazione. Sconvolto dalle perdite subite e dal fallimento dei timidi contrattacchi previsti dalla sua impostazione strategica. Stalin credette di rimediare emanando il 27 luglio, la direttiva 227: non un passo indietro. Un ordine tassativo di resistenza a oltranza sulle proprie posizioni, quando invece una ritirata strategica avrebbe consentito alla sue forze di sottrarsi all’accerchiamento e al conseguente annientamento da parte dei tedeschi. La direttiva 227 sarebbe stata applicata alla lettera durante la battaglia di Stalingrado, ma in questo caso con ben diversa motivazione strategica.




Stalingrado, la "città fatale" sulle rive del Volga


Vasily Zaytsev, il tiratore scelto.
Vasili Záitsev.jpg

Vasily Zaytsev era in servizio nella Marina, quando si offrì volontario per combattere a Stalingrado, divenendo il più letale cecchino dell’Armata Rossa, accreditato di ben 225 uccisioni. Con le sue memorie, libri come il Nemico alle porte di William Craig, e il film omonimo che ne ha ricavato Jean-Jacques Armand, acquisì fama internazionale. Il suo epico duello con il maggiore tedesco Erwin Konig, capo istruttore della Scuola tiratori scelti di Berlino, costituisce il fulcro drammatico dei suoi ricordi e delle opere che ne sono derivate.
Purtroppo, però, l’episodio è molto probabilmente inventato a posteriore dalla propaganda sovietica: non risulta infatti alcuna traccia di un maggiore Erwin Konig nella Wehrmacht, né esisteva a Berlino una Scuola per tiratori scelti. Nemmeno sono stati ritrovati negli archivi sovietici i documenti personali di Konig che Zaytsev avrebbe sottratto al cadavere della sua vittima, e lo stesso racconto dello scontro è molto lacunoso e contradditorio. Gli archivi sovietici, invece, hanno rivelato che a causa dell’enorme stress subito durante la battaglia, Zaytsev soffrì per il resto della sua vita di violenti incontenibili tremori.  

UNA DECISIONE FATALE. Il piano Blu stava avendo successo, perfino troppo. Hitler ritenne che i sovietici gli avessero fornito su piatto d’argento l’occasione di osare l’inosabile, giocando il tutto per tutto in un ultimo colpo che portasse a una rapida e contemporanea realizzazione di entrambi gli obbiettivi del piano e quindi alla vittoria della Germania: non solo al conquista del Caucaso, ma anche lo sfondamento della linea del Volga, fino a quel momento ritenuta non indispensabile. Il Fuhrer vedeva le proprie riserve di carburante e munizioni assottigliarsi di giorno in giorno e l’opportunità di precipitare la conclusione del conflitto con un azzardo ebbe su di lui un fascino irresistibile. Una nuova direttiva di Hitler, la n. 45 del 23 luglio 1942, stabilì così la divisione del Gruppo armate del Sud in due gruppi più piccoli: il primo ancora diretto verso il Caucaso, con un’operazione denominata Edelweiss, il secondo avviato verso il Volga e Stalingrado con l’operazione Fischreiher. Nessuno tra gli alti ufficiali della Wehrmacht osò opporsi pubblicamente a una decisione così assurda e destinata inevitabilmente a portare al fallimento il piano Blu, perché in questo modo si divideva in due e in direzioni divergenti la già precaria linea logistica del Gruppo Armate del Sud: è possibile che il solo Franz Halder, capo di stato maggiore dell’esercito, abbia protestato, evidenziando non solo il pericolo di separare il gruppo di Armate del Sud in due elementi lontani tra loro e incapaci di un’azione coordinata ma anche l’informazione allarmante giunta dai Servizi segreti: oltre il fiume Volga, i sovietici avevano una riserva composta da ben 1,5 milioni di uomini pronti a intervenire.

Vasilij Ivanovič Čujkov, l'ostinato difensore di Stalingrado (in primo piano a destra), insieme ai suoi ufficiali durante la battaglia

La resa tedesca.

Friedrich Paulus
Bundesarchiv Bild 183-B24575, Friedrich Paulus.jpg
Friedrich Wilhelm Ernst Paulus23 settembre 1890 – 1º febbraio 1957
(66 anni)Nato aBreitenauMorto aDresdaDati militariPaese servitoGermania Impero Tedesco
Germania Repubblica di Weimar
GermaniaTerzo ReichForza armataKaiserstandarte.svg Deutsches Heer
War Ensign of Germany (1921-1933).svg Reichswehr
War ensign of Germany (1938–1945).svg WehrmachtArmaHeerCorpoPanzertruppenAnni di servizio1910-1943GradoFeldmarescialloGuerrePrima guerra mondiale
Seconda guerra mondialeCampagneCampagna di Polonia
Campagna di Francia
Operazione BarbarossaBattaglieSeconda battaglia di Char'kov
Operazione Blu
Operazione Fischreiher
Battaglia di Stalingrado
Operazione AnelloComandante diCapo di Stato maggiore 10ª Armata
Capo di Stato maggiore 6ª Armata
capo Ufficio operazioni del Oberkommando des Heeres
6ª ArmataDecorazioniCroce di Cavaliere della Croce di Ferro con Foglie di querciavoci di militari presenti su WikipediaManuale
Friedrich Wilhelm Ernst Paulus (Breitenau23 settembre 1890 – Dresda1º febbraio 1957) è stato un generale tedescofeldmaresciallo durante la seconda guerra mondiale.
Dopo una brillante carriera principalmente nello stato maggiore generale della Wehrmacht, alla fine del 1941 ricevette il comando della 6ª Armata, la più grande e potente armata tedesca, che condusse inizialmente con successo durante l'offensiva estiva del 1942 sul fronte orientale. A partire dal settembre 1942 dovette affrontare la logorante e cruenta battaglia di Stalingrado e non riuscì a sopraffare la resistenza dell'Armata Rossa. Sorpreso dalla controffensiva sovietica del novembre 1942, rimase accerchiato con la sua armata nella sacca di Stalingrado; dopo una lunga e tenace resistenza senza adeguati rifornimenti e in pieno inverno, la 6ª Armata venne completamente distrutta. Paulus si arrese con il suo stato maggiore il 31 gennaio 1943 e venne fatto prigioniero dai sovietici.
Paulus si dimostrò un abile e preparato ufficiale, idoneo al lavoro di pianificazione e di organizzazione e capace di progettare e dirigere ampie manovre offensive con truppe corazzate; tuttavia la sua condotta rigidamente aderente agli ordini superiori e alcune sue decisioni e incertezze durante la battaglia di Stalingrado, che travolse il suo comando e le sue truppe, lo hanno esposto a numerose critiche e rimangono oggetto di valutazioni ampiamente contrastanti da parte di storici e specialisti.
Il 31 gennaio 1943 i sovietici entrarono nel quartier generale di Paulus, che trovarono sdraiato nella sua branda, in completo abbandono. Attorno a lui, montagne di rifiuti e di escrementi umani rendevano l’aria irrespirabile: non era lo stesso scenario da  saga nibelungica che Hitler aveva immaginato, se non per la tragica entità delle perdite.
Gli storici stimano che solo a Stalingrado siano morti tra i 500mila e il milione di sovietici e 150mila tedeschi, mentre 110mila uomini furono i prigionieri, dei quali solo 5000 tornarono in Germania. In complesso, però, il fallimento dell’operazione Blu era costato alle forze dell’Asse una cifra stimata vicino agli 800 mila uomini, fra cui anche 114250 italiani., con 84830 tra morti e dispersi. Da parte sovietica, le perdite complessive superarono 1,1 milioni di uomini.  


BOMBARDAMENTI A TAPPETO. Alla fine di luglio, il Gruppo di Armate del Sud iniziò la sua avanzata verso Stalingrado, incontrando una feroce resistenza sovietica. Il 23 agosto, la 6a Armata, comandata dal generale Friedrich Paulus, varcò il Don, giungendo quel giorno stesso alla periferia di Stalingrado, con la 4a Armata Panzer sul fianco destro di fronte alle soglie meridionali della città.
Nonostante non fosse tra i principali obiettivi iniziali dell’operazione Blu, Stalingrado assunse gradualmente una sempre maggiore importanza psicologica per entrambe le parti: per i tedeschi divenne l’occasione per spezzare la spina dorsale dell’Armata Rossa, infliggendole un’umiliante sconfitta; per i sovietici la città si trasformò nel simbolo supremo della loro volontà di resistere alla
Germania nazista, e la 62a Armata e il suo comandate Vasily Chuikov ne sarebbero stati gli interpreti principali. Il 23 agosto la città subì un disastroso bombardamento a tappeto: 1600 sortite di bombardieri, praticamente senza alcuna opposizione scaricarono 1000 tonnellate di bombe, riducendo la città in un insieme di rovine dalle quali si levava una colonna di fumo alta 3500 metri. Nei 5 giorni successivi le sortite seguirono con altri sistematici bombardamenti, effettuati quartiere per quartiere.
L’assalto di terra iniziò il 14 settembre 1942 con l’attacco del 51° Corpo d’Armata al centro della città. La battaglia si sviluppò gradualmente, con la 6a e la 4a  Armata costantemente risucchiate nell’incubo del combattimento urbano, cercando di respingere nel Volga la 62a Armata di Chuikov. La dottrina tedesca del Blitzkrieg prevedeva il coordinamento di corazzati, artiglieria, fanteria e aerei per sopraffare il nemico. Ma Chuikov costrinse la Wehrmacht ad abbandonare questo consolidato ed efficacissimo schema delle operazioni: spinse i propri uomini anche a meno di 50 metri dalle linee tedesche, avvicinando i nemici a distanza di bomba a mano. Questa tattica dell’abbraccio impediva alla Lutwaffe e all’artiglieria pesante di contribuire direttamente ai combattimento per il rischio di colpire i propri commilitoni. L’arma aerea tedesca iniziò così a interdire le retrovie sovietiche, colpendo tutto ciò che si avvicinava da est, polverizzando intere divisioni, individuate indifese in campo aperto.
Le enormi quantità di macerie e di edifici in rovina ostacolavano movimenti di massa: ogni edificio rimasto in piedi diventava una fortezza da conquistare o da difendere piano per piano, stanza per stanza; ogni cumulo di macerie un fazzoletto di Russia da contendere all’ultimo sangue. La battaglia fu un brutale corpo a corpo tra plotoni, compagnie e al massimo battaglioni, senza alcun possibile coordinamento. A metà ottobre, nonostante questi handicap, due grandi offensive tedesche avevano messo spalle al Volga quanto rimasto della 62a Armata, ma nuclei resistevano ancora caparbiamente nel resto della città.
Soldati sovietici in movimento tra le rovine di Stalingrado


GLI ULTIMI GIORNI D’ANGOSCIA. Il 14 ottobre Paulus sferrò il suo terzo assalto, consapevole che l’inverno si stava avvicinando e con esso anche un contrattacco sovietico. La 6a Armata concentrò tre divisioni di fanteria, due divisioni Panzer e quattro battaglioni di genieri d’assalto specializzati in demolizioni su un fronte di appena 5 km, con un massiccio supporto aereo che bombardava le retrovie per impedire l’afflusso di rinforzi. L’attacco colpì la 62a Armata come un marchio pneumatico, schiacciandola in un’esigua striscia a 200 metri dalla riva del Volga. In dieci giorni di combattimenti, i tedeschi presero la fabbrica di trattori Dzerzhinsky e avanzarono verso Sud contro le Fabbriche Barricate Rosse e Ottobre Rosso. Il 23 ottobre, le truppe tedesche della 79a Divisione di Fanteria avevano raggiunto l’angolo nord-occidentale dell’Ottobre Rosso e stavano tentando di assaltare la fabbrica contro la feroce opposizione della 39a divisione Guardie. I tedeschi, con l’aiuto di corazzati e artiglierie semoventi, cercavano di inchiodare i difensori, di superarli e distruggerli, ma invano: ogni conquista era solo temporanea e lo stesso metro di terra cambiava di mano anche decina di volte al giorno.
Le settimane scorrevano inesorabili. Il 19 novembre, i sovietici lanciarono la temuta controffensiva: in appena cinque giorni due grandi attacchi a nord e a sud di Stalingrado si riunirono accerchiando completamente la città e la 6a Armata. Un anello di acciaio che nemmeno un contrattacco condotto da Erich von Manstein, forse il migliore generale tedesco, riuscì a spezzare. Per Hitler, l’immane tragedia che si stava consumando tra le macerie di Stalingrado rinnovava il fascino sinistro di una saga germanica e ordinò un vero e proprio sacrificio umano: la resistenza fino all’ultimo uomo. Il 31 gennaio 1943 Paulus fu nominato maresciallo del Reich, un implicito invito al suicidio perché nessun maresciallo era mai caduto vivo in mani nemiche. Quello stesso giorno però Paulus disattese la volontà del Fuhrer e si arrese ai sovietici. La battaglia di Stalingrado non era ancora finita, perché nuclei isolati resistettero disperatamente fino ai primi di marzo e nemmeno la guerra, ma ormai la sconfitta tedesca era diventa inevitabile.


Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato su Conoscere la storia n. 48. Altri testi e immagini da Wikipedia.