lunedì 17 dicembre 2018

L’eroica difesa di Rodi.

L’eroica difesa di Rodi.
Poche migliaia di uomini e cinquecento cavalieri Ospitalieri al cospetto di un’armata di un’armata ottomana forte di almeno 70mila uomini e centinaia di bocche da fuoco. Un confronto sulla carta impossibile il cui esito ancora oggi non smette di stupire.



 Nel 1470, l'isola di Tilos (che si trova tra Rodi e l'isola di Coo) era stata evacuata a Rodi perché si pensava sarebbe stata attaccata dall'impero ottomano. Nel 1475, anche l'isola di Chalki (6 km a ovest di Rodi, la più piccola isola del Dodecaneso) era stata evacuata a Rodi per la stessa ragione.

La battaglia[modifica | modifica wikitesto]

All'alba del 23 maggio 1480 una flotta ottomana composta da 160 vele[1], si presentò davanti a Rodi, sbarcando un esercito di circa 100.000 uomini comandato dal gran visir Gedik Ahmet Pascià. La guarnigione dei cavalieri Ospitalieri presente sull'isola era comandata dal Gran Maestro Pierre d'Aubusson.

Blasone dell'Ordine
Quella dei Cavalieri Ospitalieri, nati come Cavalieri dell'Ordine dell'Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, quindi conosciuti come Cavalieri di Cipro, poi come Cavalieri di Rodi e in seguito come Cavalieri di Malta, è una tradizione che inizia come ordine ospedaliero intorno alla prima metà dell'XI secolo a Gerusalemme.

Agli inizi di aprile del 1480 una Cristianità già fortemente provata dalla caduta di Costantinopoli, avvenuta poco più di un ventennio prima, reagì incredula alle notizie sempre più allarmanti che il prossimo obiettivo dei turchi sarebbe stata Rodi. Non ci volle molto tempo però perché l’iniziale sgomento si tramutasse in cupa rassegnazione. Non era neppure lentamente immaginabile, pensarono in molti, che la risicata guarnigione dell’isola (poco più di 4000 fanti e mezzo migliaio di cavalieri Ospitalieri), fosse in grado di resistere alla marea dilagante delle armate ottomane, quegli stessi uomini che erano riusciti ad avere la meglio con disarmante facilità del poderoso sistema difensivo che per secoli aveva garantito la salvezza della Roma d’Oriente.
Nessuno avrebbe mai potuto scommettere un esito diverso da quello che la logica dei numeri sanciva in modo impietoso. Ecco perché, quando il 23 maggio un grande esercito composto 70mila, forse 100mila turchi sbarcò nell’isola, nessun stato europeo mosso un dito: tante esortazioni e missive per incoraggiare i difensori a resiste a oltranza, ma niente di più. “Ecco dei pecoroni che vanno a farsi sgozzare dal coltello turco”, avrebbe detto ai suoi uomini il Gran Priore d’Alvernia, uno dei pochi che ebbe davvero il coraggio di mettersi in mare per raggiungere Rodi, conscio com’era che la sua sarebbe stata una missione ai limiti del suicidio.

L’assedio del 1522.
Il miracolo avvenuto nel 1480 non si sarebbe ripetuto nel 1522 quando una nuova minaccia turca calò su Rodi. Fu necessario un ulteriore e altrettanto sanguinoso assedio (26 giugno-22 dicembre) per avere la meglio sulle potenti difese dell’isola. Anche in questo caso la sproporzione delle forze in campo era disarmante: 100mila turchi (anche se gli storici moderni li ridimensionano a 60mila) contro 7mila fanti 700 cavalieri e mezzo migliaio di arcieri cristiani tra cavalieri Ospitalieri e milizie veneziane al comando del Gran Maestro Philippe de Villers de l’Isle-Adam  In questo frangente però a guidare l’esercito c’era il sultano Solimano il Magnifico in perso.na. Furono necessari sei mesi di dura lotta, con pesanti bombardamenti, tunnel di mina e ripetuti assalti, per aver la meglio sulla guarnigione che si difese con accanimento. Il punto di svolta dell’assedio avvenne sul finire di   novembre quando entrambe le parti erano fortemente provate, in primo luogo gli Ospitalieri per mancanza di rinforzi e approvvigionamenti. Fu solo a quel punto che Solimano decise di intavolare delle trattative, promettendo ai difensori che, in caso di resa, sarebbero stati liberi di lasciare Rodi con tutti i loro beni. Il negoziato si protrasse per giorni, finché Villers de l’Isle-Adam, pressato dai cittadini ormai alla disperazione, decise di accondiscendere alla proposta. Ma non mancarono incomprensioni che fecero saltare l’accordo e comportarono la ripresa dei bombardamenti. Fu solo il 22 dicembre che la guarnigione si piegò al volere del sultano. Dieci giorni più tardi i soldati sopravvissuti e 4mila civili lasciarono l’isola a bordo di cinquanta navi,

Villiers de l Isle-Adam.jpg
il gran maestro Villers

RODI DEVE CADERE. Iniziava con queste premesse funeste il primo di una lunga serie di assedi che avrebbero infiammato il Mediterraneo per almeno due secoli: in gran parte, l’emergente impero ottomano di Maometto II, capace di assicurarsi il controllo sull’intera Asia Minore; dall’altra, le potenze navali italiane (Genova e Venezia), ciò che restava dei domini bizantini e l’ordine dei cavalieri Ospitalieri che, dopo la ritirata dalla Terrasanta in seguito alla caduta di Acri nel 1291, aveva preso possesso proprio dell’isola egea tramutandola in una munitissima fortezza in grado di esercitare un significativo ruolo strategico nello scacchiere del Mediterraneo. In virtù di una potente flotta, oltre al fatto che Rodi era a un tiro di schioppo dalla costa turca, gli Ospitalieri rappresentavano una costante spina nel fianco in grado di minacciare le scorrerie delle flotte corsare turche. Una situazione che il sultano non tollerò a lungo; da qui la decisione di mettere in piedi una poderosa armata (imbarcata su 160 navi) guidata da Gedik Pasha e Miseh Pasha (alias Michele Paleologo, un bizantino convertitosi all’islam), con il compito di debellare definitivamente quella che a suo modo di vedere altro non era che un’intollerabile provocazione.
Già nel dicembre dell’anno prima il sultano aveva saggiato il terreno, inviando un’avanguardia costituita da truppe d’élite che però era stata respinta dopo aver subito notevoli perdite. Ora però le condizioni erano mutate radicalmente e i rapporti di forza erano così squilibrati che il Gran Maestro Pierre d’Aubusson, comandante della guarnigione dell’isola, rivolgendosi al Papa per cercare di ottenere un insperato aiuto, descrive in questo modo la situazione: “ha portata la nemica armata, per espugnare la città nostra gran numero di grossissimi pezzi d’artiglieria, grandissima quantità di macchine di torri di legno e d’altri ingegni all’espugnazioni delle fortezze atti….Stanno intorno alla città nostra accampati circa settanta mila nemici, che con continui assalti ci combatto ai quali con forte e intrepido animo facciamo resistenza opponendo le loro forze nostre e risospingendo gli assalti…”. Senza contare inoltre che tra le file turche militavano diversi traditori e rinnegati che disponevano di mappe aggiornate della città e un ingegnere di origini tedesche (il cui nome nelle cronache è italianizzato in Giorgio Frapan) esperto nella progettazione di artiglierie d’assedio.

Pierre daubusson.jpg
Pierre d'Aubusson

NON CEDERE DI UN PASSO. Eppure, nonostante la situazione apparisse disperata, gli Ospitalieri, dimostrando una determinazione fuori dal comune, non erano rimasti con le mani in mano. Per l’intero mese di aprile d’Aubusson aveva ordinato che tutti gli uomini in grado di combattere venissero arruolati e l’intero dispositivo di difesa (una doppia cinta muraria, intervallata da poderose torri e fossato) venisse riparato e potenziato, oltre a rendere efficaci tutti i pezzi di artiglieri disponibili. Furono immagazzinate ingenti scorte d’acqua e ogni genere di vettovaglie, in modo da poter sostenere quello che aveva l’aria di essere un lungo assedio. E, per finire, si prodigò perché gli altri avamposti dell’isola ricevessero aiuti adeguati. Contro ogni logica, il morale dei difensori era alto, come dimostra un altro passaggio della già citata lettera al pontefice: “Sentirà bene il perfido nemico ch’egli non ha a che fare con imbelli e poco pratici soldati, e ben s’accorgeranno questi cani, ch’egli non avranno a menar le mani contra delicati, effeminati e molli soldati asiatici. Non abbiamo qui valorosi e buoni (ancorché pochi) soldati; e siamo ordigni da guerra, di macchine, d’artiglieria, di frumento e di munizioni abbondantemente provveduti e forniti, per poter sostenere e resistere alle nemiche forze”. E che non si trattasse di una pura vanteria lo dimostra l’accanita resistenza opposta fin dalle prime battute dello sbarco, quando la flotta turca fu efficacemente contrastata con le artiglierie e varie sortite sul bagnasciuga, che provarono invano, a rigettare il nemico in mare. Una volta preso terra e accampatosi, i turchi, per ordine di Mishe Pasha, decisero di accentrare tutte le loro attenzioni contro la torre di San Nicola, un baluardo di enorme importanza che assicurava la difesa del porto. Per giorni fu martellata dall’artiglieria in previsione di un attacco in grande stile. Sebbene i danni fossero notevoli, il coraggio di alcuni cavalieri, guidati dall’ospitaliere Fabrizio del Carretto, permise di riparare i crolli e munire la torre di pezzi d’artiglieria che si rivelarono utili quando il 9 giugno, alle prime ore del giorno, un gran numero di navi nemiche cariche di fanti attraccò al vicino molo.      
Sebbene i cristiani, guidati dal Gran Maestro in persona, avessero opposto forte resistenza, ciò non impedì che la moltitudine nemiche mettesse sotto assedio al baluardo. A quel punto si accese uno scontro moribondo, da una parte i turchi, che con archibugi e balestre coprivano l’avanzata dei compagni impegnati a portare a ridosso delle mura le scale d’assedio, dall’altra i cavalieri che per respingerli impiegarono tutte le armi a loro disposizione (pietre, acqua e olio bollente), difendendo tutte le brecce che si aprivano con incredibile accanimento. Dopo ore di battaglia gli Ottomani che avevano perduto centinaia di uomini e diverse navi per il fuoco dell’artiglieria, furono costretti a ritirarsi con disordine. Mishe tuttavia decise di non desistere, conscio che la presa della torre avrebbe garantito un ottimo saliente per spazzare la città con i cannoni. Alcuni giorni dopo infatti fu tentato un nuovo assalto, ma in questo caso l’esito fu a un senso: gli Ospitalieri, facendo ottimo uso di archibugi e cannoni, inchiodarono il nemico sul molo, decimandolo.

IL MASSACRO DI SAN NICOLA. L’esito dei primi scontri si era rivelato disastroso per gli Ottomani, pertanto Gedik Pasha e Miseh Pasha decisero di cambiare strategia: invece di concentrarsi su un punto, optarono per assalti in più direzioni, in particolare contro il cosiddetto Muro degli ebrei, che proteggeva il quartiere giudaico della città. Furono fatti affluire ben dieci pezzi d’artiglierie di grosso calibro che iniziarono a bersagliare le mura, per quanto spesse, a ritmo infernale. Per contro d’Aubusson, conscio che prima o poi queste avrebbero ceduto, optò per una soluzione drastica: fece radere al suolo tutte le abitazioni a ridosso del dispositivo difensivo (compito portato avanti da tutta la popolazione civile) e poi con le macerie fece innalzare un terrapieno, preceduto da un fossato. Fu un’operazione contro il tempo mentre i cannoni nemici continuavano a far fuoco giorno e notte. Dopodiché, non contento, si assicurò che i suoi elevassero una contro-muraglia poco sopra il terrapieno dove furono concentrate tutte le riserve di polvere da sparo, caldaie per bollire l’olio e pezzi d’artiglieria. I turchi dal canto loro non lasciarono nulla di intentato, neppure la guerra psicologica: per indebolire il morale degli assediati la città fu bersagliate di frecce recanti messaggi dal tono conciliante che assicuravano la salvezza in cambio della resa. Al contrario, resistere avrebbe significato andare incontro a un terribile massacro. Ma non servì a nulla. Anche l’invio di ambasciatore che promettevano quanto già ribadito sui messaggi non ebbe successo e furono cacciati in malo modo solo in quel momento la città, conscia che nessuna potenza cristiana sarebbe mai venuta in suo soccorso, capì di aver raggiunto il punto di non ritorno. Eppure non si verificarono casi di scollamento o disperazione. Anzi ancora una volta fu possibile bloccare tutti gli assalti frontali contro il Muro degli ebrei. A quel punto, intorno al 20 giugno, un Gedik Pasha sempre più nervoso e impaziente decise, dopo aver messo in atto diversivi in più punti della città, di tentare personalmente un nuovo attacco notturno contro la Torre di San Nicola, operando sia dal molo sia tramite un ponte di barche. Il tutto con il supporto dell’artiglieria. Ma si trattò di un madornale errore poiché, mentre sulla banchina si accendeva un combattimento brutale, alcuni brulotti (piccole imbarcazioni cariche di sostanze infiammabili) usciti dal porto, si diressero verso le navi ottomani cariche di uomini, incendiandone una buona parte. Dopodiché i cannoni distrussero il ponte di barche tagliando la ritirata al nemico. Presi dal panico e pressati dagli Ospitalieri, migliaia di turchi finirono con l’annegare o morire bruciati. Non paghi del successo gli assediati, tra qui molti abitanti armati di attrezzi da lavoro, irruppero fuori dalle mura inseguendo gli scampati fino al mare. Si dice addirittura che un frate francescano si gettò nell’acqua e con la spada trucidò diversi nemici che tentavano di raggiungere le imbarcazioni scampate al fuoco. Per i turchi fu un autentico massacro, almeno 2500 morti, tanto che per una settimana le onde continuarono a riversare sulla costa centinaia di corpi straziati.

Le artigliere sul campo da battaglia.


Durante l’assedio di Rodi, sia da parte cristiana sia ottomana, fu fatto ampio uso di pezzi d’artiglieria di vario tipo, in particolar modo di bombarde, armi a tiro parabolico, in uso fin dal XIV secolo, fabbricate con verghe di ferro disposte a mò di doghe e poi saldate e rinforzate con cerchi di ferro.
Per via delle grandi dimensioni, venivano trasportate sul campo di battaglia smontate e poi, in un secondo tempo, assemblate. Create appositamente per smantellare le difese d’epoca, le bombarde lanciavano proiettili di grosso calibro su distante notevoli (alcuni esemplari usati a Rodi dagli Ospitalieri potevano sparare palle di 250 chilogrammi a una distanza di quasi duecento metri) in grado di evitare il tiro di contro-artiglieria messo in atto dal nemico. La struttura di quest’arma prevedeva una canna a doppio diametro: quella posteriore, più lunga ma di diametro inferiore (chiamata gola) alloggiava la carica di polvere da sparo, mentre quella anteriore (tromba), di diametro maggiore, conteneva il proiettile di metallo o di pietra. Era sotto diversi punti di vita un’arma rudimentale che solo l’esperienza di un artigliere poteva sfruttare con profitto. Alcuni dei problemi maggiori erano legati alla mancanza di precisione (la canna non era rigata); bassa spinta del proiettile (per via della bocca molto corta che impediva di sfruttare la potenza della carica); difficoltà a calcolare la corretta parabola per l’impossibilità di modificare la quantità di polvere da sparo (il suo volume era predefinito in base alla fabbricazione). L’unico modo per modificare l’alzo pertanto era ricorrete a cunei o travi che permettessero di sollevare la parte inferiore della canna. Solo le bombarde di dimensioni minori potevano essere alloggiate su carri.   
Stemma di Pierre d'Aubusson, caratterizzato dall'inquartatura con la croce dei Cavalieri Ospitalieri, posto su una bombarda da lui commissionata. L'iscrizione posta sul retro cita: "F. PETRUS DAUBUSSON M HOSPITALIS IHER".


L’ASSALTO FINALE. Per tre lunghi giorni il campo turco rimase silenzioso a leccarsi le ferite. Un furibondo Gedik Pasha, incredulo di fronte all’esito dello scontro, meditava nuove mosse che si materializzarono con la decisione di concentrare nuovamente tutti gli sul Muro degli ebrei e una altro saliente del dispositivo difensivo (la Posta d’Italia) che furono bersagliate con tutte le batterie disponibili. Un vero martellamento, durato per giorni e giorni, che finì per devastare la quasi totalità dell’abitato. Come ricorda lo storico ottocentesco Luigi De Caro “La città di Rodi, la quale era di nuove e grossissime muraglie, di alte torri e di fortissimi bastioni d’ogni intorno munita e cinta, fu ben presto… sconquassata… smantellata e rovinata, che apparenza di città e fortezza più non aveva...”.  Inoltre, per spronare i suoi uomini, il comandante ottomano promise libertà di saccheggio, precisando che tutti gli abitanti, ad eccezione dei giovanissimi destinati a essere arruolati tra le file dei giannizzeri (truppe d’élite composte da prigionieri cristiani), sarebbero stati impalati. D’Aubusson, dal canto suo, conscio che l’assalto finale era ormai prossimo, non poté far altro che riorganizzare le difese e collocare intelligentemente in vari punti della città forze mobili a cavallo in gradi intervenire rapidamente in ogni punto delle mura. Il 27 luglio l’esercito turco si lanciò contro ciò che rimaneva delle difese murarie; una carica che inizialmente si dimostrò inarrestabile se si considera che le avanguardie riuscirono i loro stendardi sul Muro degli ebrei e sul Posta d’Italia. Fu solo grazie al provvidenziale arrivo del Gran Maestro, con i suoi uomini a cavallo, se i turchi non riuscirono a riversarsi in città; affrontati mentre tentavano di scendere dalle mura, furono massacrati sul posto. Scacciare gli altri duemila già presenti sulle fortificazioni fu molto più arduo come dimostrato dalla ferocia dei combattimenti che imperversarono per almeno due ore. Momenti drammatici che videro i cristiani sul punto di soccombere. Lo stesso d’Aubusson fu ferito ben cinque volte in modo piuttosto serio. Fu solo quando i turchi si resero conto che non c’era la possibilità di sfondare la pressione si rallentò per poi trasformarsi in una ritirata sempre più scomposta. Chi non riuscì ad aprirsi un varco fu vittima dei difensori, tra cui molti cittadini, che li fecero a pezzi. Dopodiché la cavalleria ospitali era si lanciò all’inseguimento dei superstiti raggiungendo il loro campo base, dove riuscirono a impossessarsi perfino dello stendardo reale. Fu una vera e propria carneficina che si concluse con la morte di almeno 3500 soldati turchi. Solo allora il Gran Maestro, gravemente ferito, fu soccorso e trasportato in un ospedale da campo dove i medici riuscirono a salvargli la vita per miracolo.
Gedik Pasha, che da lontano aveva assistito alla sconfitta, rimase come impietrito, conscio che un simile esito avrebbe pregiudicato il proseguo dell’assedio. Dopo aver perso qualcosa come 10mila uomini e altri 15mila feriti, si rese conto che non avrebbe potuto insistere ulteriormente. Fu pertanto dato ordine di smontare il campo e abbandonare l’isola con ciò che rimaneva della flotta (la partenza avvenne il 17 agosto). Un epilogo incredibile che lasciò di stucco lo stesso Maometto II incapace di farsi una ragione di come fosse stato possibile andare incontro a una disfatta così rovinosa. Proprio lui che cullava il sogno di unificare l’intero Mediterraneo alla stregua di un imperatore romano. Sarà soltanto Solimano il Magnifico, quarant’anni dopo nel 1522, a vendicare l’onta, riuscendo finalmente a conquistare l’isola dopo un ennesimo assedio, forse ancora più terribile del primo.

Articolo in gran parte di Enrico Cattapani, pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 20. Altri testi e foto da Wikipedia.

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