La pace sbagliata.
Il frutto avvelenato.
Le conseguenze della Grande Guerra.
La guerra del ’15-18 lasciò l’Europa devastata. E preparò il terreno a un nuovo conflitto ancora più devastante. Infatti nel 1919, i trattati di pace che seguirono la fine della Grande guerra prepararono il terreno al disordine europeo e a una nuova guerra.
Conferenza di pace di Parigi
I "quattro grandi" alla Conferenza di pace di Parigi (da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson)PartecipantiDelegati di 27 nazioniApertura18 gennaio 1919Chiusura21 gennaio 1920Stato FranciaLocalitàParigiEsitoPreparazione dei trattati di pace con gli Imperi Centrali:
- Impero germanico(Trattato di Versailles, 28 giugno 1919),
- Impero austro-ungarico(Trattato di Saint-Germain, 10 settembre 1919),
- Regno di Bulgaria (Trattato di Neuilly, 27 novembre 1919),
- Ungheria (Trattato del Trianon, 4 giugno 1920),
- Palestina (Accordo Faysal-Weizmann, 3 gennaio 1919),
- Impero Ottomano (Trattato di Sèvres, 10 agosto 1920[1]).
La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una conferenza di pace organizzata dai paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, impegnati a delineare una nuova situazione geopolitica in Europa e a stilare i trattati di pace con le Potenze Centraliuscite sconfitte dalla guerra. La conferenza si aprì il 18 gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920, con alcuni intervalli.
Da questi trattati la cartina d'Europa uscì completamente ridefinita, in base al principio della autodeterminazione dei popoli, concepito dal presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson, nel tentativo, in seguito rivelatosi fallace, di riorganizzare su base etnica gli equilibri del continente europeo. Nel tentativo di creare stati "etnicamente omogenei" sulle ceneri degli imperi multietnici di Austria-Ungheria e Turchia, furono riconosciuti Stati di recente formazione, quali la Cecoslovacchia (Prima Repubblica cecoslovacca) e la Jugoslavia (Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), destinati ad alimentare nuove tensioni ed instabilità, oltre ad esodi e conflitti di popoli e nazioni.
Può un trattato di pace alimentare un conflitto peggiore di quello a cui pone fine? Certo: qualsiasi accordo postbellico tende d’altronde a lasciare molti scontenti. Quel che avvenne nel 1919, però, è una specie di record. Il trattato di pace che sancì la fine della Grande guerra lasciò infatti amareggiati sia i vinti sia i vincitori, ponendo addirittura le basi per l’ascesa del nazismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’errore più grave commesso nella stesura del documento? Dimenticare l’antico suggerimento di non umiliare mai il nemico – in questo caso la Germania – che non si è in grado di annientare del tutto.
I “QUATTRO GRANDI”. Il conflitto si era chiuso l’11 novembre 1918, con la firma dell’armistizio da parte della Germania, e il 18 gennaio 1919 si aprì a Parigi la conferenza di pace che doveva ridisegnare la geografia politica mondiale, regolando i rapporti tra vincitori e vinti. A tal fine si diedero appuntamento i portavoce di decine di nazioni con in prima fila i quattro grandi, ossia i delegati delle maggiori potenze vincitrici: Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti. In rappresentanza dei primi tre Paesi vi erano i premier Georges Clemenceau, David Looyd George e Vittorio Emanuele Orlando, mentre per gli statunitensi partecipava il presidente Woodrow Wilson.
I lavori terminarono il 21 gennaio 1920, ma il giorno clou fu il 28 giugno 1919, data della firma del cosiddetto Trattato di Versailles, composto da 440 articoli divisi in 16 parti e così chiamato perché siglato nella celebre reggia francese. Prima di vedere la luce, il documento fu anticipato da aspre discussioni tra i quattro grandi, che dibatterono a lungo sui confini da assegnare alle varie nazioni e, soprattutto, sulla punizione da riservare alla Germania, considerata responsabile assoluta del conflitto. A scontrarsi furono in particolare Clemenceau, animato da pura sete di vendetta, e Wilson, che sembrava avere visioni più equilibrate.
Trattato di pace tra gli Alleati e le potenze associate e la Germania
Le delegazioni riunite a Versailles.Tipotrattato plurilateraleContestoPrima guerra mondialeFirma28 giugno 1919LuogoVersailles, FranciaEfficacia10 gennaio 1920CondizioniRatifica della Germania e delle quattro potenzeFirmatari Regno Unito
Francia
Italia
Giappone
Stati Uniti
e le altre potenze vincitrici
GermaniaDepositario FranciaLinguefrancese e inglesevoci di trattati presenti su Wikipedia
«Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni.»
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(Ferdinand Foch, ufficiale francese al comando degli Alleati nella prima guerra mondiale; 1920.) |
Il trattato di Versailles, anche detto patto di Versailles, è uno dei trattati di pace che pose ufficialmente fine alla prima guerra mondiale. Fu stipulato nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi del 1919 e firmato da 44 Stati il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di Versailles. È suddiviso in 16 parti e composto da 440 articoli.[1] Germania, Austria ed Ungheria non parteciparono alla "conferenza", ma si limitarono a firmare il trattato finale il 28 giugno, dopo le minacce, da parte dei vincitori, di una ripresa della guerra se non lo avessero fatto.
Gli Stati Uniti d'America non ratificarono mai il trattato. Le elezioni del 1918 avevano visto la vittoria del Partito Repubblicano, che prese il controllo del Senato e bloccò due volte la ratifica (la seconda volta il 19 marzo 1920), alcuni favorivano l'isolazionismo e avversavano la Società delle Nazioni, altri lamentavano l'eccessivo ammontare delle riparazioni. Come risultato, gli USA non si unirono mai alla Società delle Nazioni e in seguito negoziarono una pace separata con la Germania: il trattato di Berlino del 1921, che confermò il pagamento delle riparazioni e altre disposizioni del trattato di Versailles ma escluse esplicitamente tutti gli articoli correlati alla Società delle Nazioni.[2]
PACE SENZA VINCITORI. Il premier francese avrebbe voluto smembrare l’impero tedesco, quello austro-ungarico e quello ottomano – l’Impero russo era invece stato abbattuto dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 – per spartirsi i territori con la Gran Bretagna. Il presidente statunitense mirava, invece, a una pace senza vincitori che si basasse sul principio di autodeterminazione dei popoli. In breve, ogni popolazione sottomessa a una forza straniera avrebbe dovuto scegliere su base prevalentemente etnica, la propria identità nazionale e le proprie forme di governo. Così, si pensava, si sarebbe evaporato ogni motivo di tensione internazionale.
Queste idee erano state riassunte da Wilson nei celebri quattordici punti, serie di propositi snocciolati in un discorso tenuto nel gennaio 1918, a guerra in corso, davanti al senato statunitense. In proposito, il solito Clemenceau commentò caustico: “Mi dà ai nervi coi suoi 14 punti, quando lo stesso buon Dio si è accontentato di dieci”. Tra le altre cose, Wilson proponeva di annullare ogni trattato segreto prebellico (caldeggiando una nuova diplomazia trasparente), garantire la libertà di navigazione, favorire gli scambi commerciali, ridurre gli armamenti, liberare ogni territorio occupato con la forza ratificare le frontiere secondo criteri per l’appunto etnici anziché politici e, in ultimo, creare una Lega delle Nazioni per promuovere la cooperazione tra Stati in vista di una pace il più duratura possibile.
I territori della Germania dopo il trattato:
Amministrato dalla Società delle Nazioni
Territori annessi ad altri Stati
erritori coloniali tedeschi (in blu) trasformati in mandati amministrati per conto della Società delle Nazioni
UMILIAZIONE TEDESCA. Alla fine prevalsero molte delle idee wilsoniane, ma se la pace fu teoricamente senza vincitori, i vinti ci furono eccome. La Germania subì infatti la temuta vendetta della Francia, nazione che più di altre aveva patito gli effetti del conflitto. L’idea era quella di annientare i tedeschi e infliggere loro anche un sonoro schiaffo morale, intenzione evidente fin dalla scelta del luogo per la firma del trattato di pace, luogo per la firma del trattato di pace: la Galleria degli Specchi di Versailles, già sede nel 1871 della proclamazione dell’Impero tedesco dopo la sconfitta subita dai francesi nella guerra franco-prussiana. Per completare la rivincita, la Francia si riprese l’Alsazia e la Lorena, regioni che aveva perso proprio in quel conflitto. Alla Germania, costretta a sottoscrivere il trattato finale, fu inoltre tolto ogni possedimento coloniale e furono imposte grosse restrizioni in ambito militare: la leva obbligatoria fu sospesa, l’esercito fu ridotto a 100mila unità (altre limitazioni riguardarono la marina, mentre l’aviazione fu eliminata) e furono messi al bando gli armamenti pesanti. Non solo: la Germania dovette demilitarizzare la Renanai, territorio al confine con la Francia, e concedere a quest’ultima l’occupazione della Ruhr, regione ricca di miniere di carbone. I tedeschi furono obbligati a lasciare alla Polonia il territorio della città di Danzica, con relativo sbocco sul Mar Baltico (il corridoio polacco). Il capitolo più pesante fu, tuttavia, quello delle riparazioni di guerra: lo Stato tedesco fu obbligato al pagamento di ben 132 miliardi di marchi in oro, cifra smodata la cui entità gettò il Paese in uno stato di angoscia e inquietudine, alimentando una profonda crisi economica e i peggiori propositi di vendetta.
TUTTI SCONTENTI. La colpa della guerra, oltre che sui tedeschi, ricadde naturalmente sui loro alleati, in primis l’Austria-Ungheria e l’Impero ottomano, con i quali i trattati di pace furono firmati rispettivamente nel settembre 1919 e nell’agosto 1920. A rappresentare la realtà ottomana, già moribonda, rimase solo la Turchia, che dal 1923 sarà peraltro guidata e de-ottomanizzata dal leader nazionalista Mustafa Kemal. Il resto dei territori passò invece sotto l’amministrazione di francesi e inglesi. Allo stesso modo, la pace firmata con gli austriaci portò allo smembramento del loro impero, alla creazione di nuovi Stati autonomi e alla concessione all’Italia di molteplici territori. Tra questi non c’era però la Dalmazia, nonostante fosse stata promessa agli italiani alla vigilia dell’ingresso in guerra nel 1915. Il motivo? Gli Stati Uniti di Wilson non ritennero valido il trattato segreto che aveva sancito tale accordo (Patto di Londra), proprio in virtù della sua segretezza. Caddero inoltre nel vuoto le rivendicazioni italiane sulla città di Fiume (oggi in Croazia), e così il malcontento investì anche il Belpaese, pur uscito vincitore del conflitto.
A masticare amaro furono però anche i trionfatori francesi e inglesi: i primi non gradivano di essersi dovuti in parte piegare ai dettami di Wilson, mentre i secondi si sentivano messi in disparte dagli stessi francesi. Molti britannici criticarono inoltre le condizioni imposte ai vinti e l’assenza di un piano di ripresa economica. Tra le voci di dissenso spicca quella dell’economista John Maynard Keynes, che nel volume Le conseguenze economiche della pace (1919) parlò di “pace cartaginese”, rievocando i duri obblighi postbellici imposti dai Romani ai Cartaginesi al termine della Seconda guerra punica (III secolo a.C.). Se all’epoca la forza di Roma era bastata a garantire la pace, il timore era che in questo caso le potenze occidentali stesero invece gettando i semi di nuove guerre. Su questo punto risultò profetica l’affermazione di tal Ferdinand Foch, generale francese che nel 1920, commentando il Trattato di Versailles affermò: “Questa non è una pace, è un armistizio per vent’anni”.
Il mondo in fermento.
Nel 1918 la Grande guerra terminò, ma già da quell’anno numerosi Paesi si ritrovarono attraversati da rivoluzioni, guerre civili e altri conflitti, spesso innescati proprio da quello appena concluso.
Targa commemorativa del primo consiglio dei lavoratori e dei soldati presso la sede del sindacato di Kielnella Legienstraße.
RIVOLUZIONE DI NOVEMBRE. (1918-1919) iniziata il 3 novembre 1918 con l’ammutinamento dei marinai di Kiel (stanchi di combattere una guerra ormai persa), appoggiati dalle forze politiche di sinistra, questa rivolta portò alla caduta della monarchia tedesca (9 novembre) e alla nascita della repubblica. Il nuovo governo socialdemocratico, sedata nel gennaio 1919 una sollevazione di stampo marxista approvò l’11 agosto, a Weimar, la costituzione di una nuova entità statale, la Repubblica di Weimar (poi annientata da Hitler).
GUERRA CIVILE RUSSA. (1917-1923) dopo che la rivoluzione d’ottobre (1917) aveva portato i bolscevichi al potere, decretando l’uscita della Russia dal conflitto, iniziò nel Paese una cruenta guerra civile tra i rossi e i bianchi, com’erano rispettivamente chiamati gli stessi bolscevichi e i gruppi controrivoluzionari foraggiati dalle potenze occidentali. I morti furono milioni, finché, nel 1923 il calvario terminò con la vittoria dei rivoluzioni i quali, il 30 dicembre 1922, avevano frattanto costituito l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Da in alto in senso orario:
Soldati dell'Armata del Don nel 1919; una divisione di fanteria Bianca nel marzo 1920; soldati della Prima Armata di cavalleria; Leon Trotsky nel 1918; civili impiccati dall'esercito Austro-Ungarico a Yekaterinoslav, nell'Aprile 1918.
GUERRA D’INDIPENDENZA IRLANDESE (1919-1921) dal gennaio 1919 il governo britannico dovette affrontare in Irlanda, una guerra indipendentista coordina dai deputati del Sinn Féin, movimento nazionalista di matrice socialista, e combattuta dai soldati dell’Irish Repubblican Army, neonato esercito repubblicano irlandese. Dopo due anni di scontri, fu firmato il tratto di pace anglo-irlandese, che decretò la nascita, nei territori meridionali, dello Stato Libero d’Irlanda, mentre il Nord rimaneva al Regno Unito.
RIVOLUZIONE DELLE ROSE D’AUTUNNO O DEI CRISANTEMI (1918) tra il 30 e il 31 ottobre 1918, gruppi di soldati e di civili ungheresi furono protagonisti di questa rivoluzione che prese il nome dai fiori che i rivoltosi sfoggiavano sui berretti. La loro rivolta, piegate le forze del moribondo impero austro-ungarico, portò alla proclamazione della Repubblica Democratica di Ungheria, Stato indipendente dalla vita cortissima: una seconda sollevazione nel marzo 1918, condusse alla nascita della Repubblica sovietica ungherese, d’ispirazione comunista. Dopo alcune sfortunate iniziative belliche contro la Cecoslovacchia e Romania, ad agosto il poter tornò ai vecchi dirigenti conservatori, che nel 1920 restaurarono la monarchia.
GUERRA GRECO-TURCA (1919-1922) tra il maggio 1919 e l’ottobre 1922, in Turchia, cuore dello sgretolato Impero ottomano, le forze nazionaliste di Mustafa Kemal Ataturk si scontrarono con quelle greche per riottenere l’Anatolia e la Tracia, territori un tempo ottomani ma assegnati alla Grecia dai trattati di pace. Dopo quasi 50mila morti, ad avere la meglio furono i turchi. Le regioni contese passarono alla Repubblica di Turchia, neonata entità statale la cui proclamazione ufficiale sarebbe avvenuta il 29 ottobre 1923.
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Combattimenti dell'estate del 1920Data15 maggio 1919 - 11 ottobre 1922LuogoTurchia occidentale (Tracia, Lidia)EsitoVittoria turca, trattato di Losann
GUERRA CIVILE FINLANDESE (1918) dopo essersi resa indipendente dall’Impero russo il 6 dicembre 1917, la Finlandia fu teatro di una sanguinosa guerra civile analoga a quella che travolse la Russia bolscevica, tra le frange dei rossi (comunisti e socialisti) e quella dei bianchi (i conservatori). Gli scontri iniziarono nel gennaio 1918, con la Prima guerra mondiale ancora in pieno svolgimento, proseguirono fino a maggio e videro la vittoria finale della guardia bianca, ossia delle armate delle forze conservatrici.
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EREDITA’ LETALI. Neanche gli americani, entrati peraltro in guerra solo nel 1917, ne uscirono soddisfatti, tanto che il senato pervaso da un desiderio isolazionista, rifiutò l’adesione alla Società delle Nazioni prevista dai quattordici punti di Wilson. A ogni modo, la nuova organizzazione intergovernativa, che avviò i lavori già nel 1920, con sede a Londra e poi a Ginevra, vide l’immediata partecipazione di oltre 40 nazioni e, pur non riuscendo a garantire la pace (anche perché dotata di limitati poteri di arbitrato), pose le basi della futura Organizzazione delle Nazioni Unite (che ne prese il posto nel 1945), oltre a valere al suo ideatore il Nobel per la Pace nel 1919.
Tra le ambivalenti eredità del Trattato di Versailles, un notevole impatto ebbe il controverso principio di autodeterminazione dei popoli, che portò sia un arricchimento del campo del diritto internazionale, sia alla nascita di pericolosi sentimenti ultranazionalisti. Oltre a non assicurare la pace (negli anni dopo il conflitto molti stati europei conobbero guerre e rivoluzioni), il trattato ebbe inoltre il demerito di nutrire il mostro nazista. Nella sua ascesa al potere, Hitler cavalcò la voglia di rivalsa popolare per le condizioni inflitte dai vincitori, invocando dapprima la nascita di una Grande Germania che riunisse ogni popolo tedesco (in base proprio al principio di autodeterminazione) e scatenando poi, dal 1939, un nuovo conflitto di portata mondiale. Prima vittima illustre fu la Francia, alla quale la Germania rese pan per focaccia: i francesi, infatti dovevano firmare la rese, nel 1940, nello stesso vagone ferroviario in cui i rappresentanti dell’Impero tedesco si erano arresi nel novembre 1918. Un altro frutto avvelenato della pace di Versailles.
«God gave him a great vision. / The devil gave him an imperious heart. / The proud heart is still. / The vision lives.[1]»
| (IT)
«Dio gli dette una grande visione. / Il diavolo un cuore imperioso. / L'orgoglioso cuore si è fermato. / La visione gli sopravvive.»
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(Epitaffio dedicatogli da William Allen White) |
Articolo in gran parte di Matteo Liberti pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Un impero a pezzi.
La Prima guerra mondiale segnò il destino degli Ottomani. E lasciò il Medio Oriente nel caos.
Il grande malato d’Oriente. Così era chiamato fin dall’Ottocento l’Impero ottomano. Anche se i suoi domini andavano ancora dall’Africa Settentrionale ai Balcani passando per la Penisola araba e il Medio Oriente, la Sublime Porta non era più in grado di fronteggiare, soprattutto militarmente, le potenze europee che appena potevano allungavano le mani. Nel 1881 la Francia si era presa la Tunisia e l’Algeria, la Gran Bretagna controllava l’Egitto e il sultano, tra Ottocento e Novecento, era stato espulso dai Balcani. Da buona ultima ci si era messa anche l’Italia che nel 1911-12 aveva occupato la Libia. Insomma, alla vigilia della Grande guerra, l’Impero ottomano sembrava ai più un moribondo sul quale volteggiavano sempre più vicini gli avvoltoi. Non che le cose andassero meglio per il sultano sul fronte interno. Era, infatti, sempre più difficile governare un grande stato multi-nazionale e multi-religioso in un’epoca di nazionalismi e di ispirazioni all’indipendenza. Lo conferma Giorgio del Zanna, autore del volume La fine dell’Impero ottomano (edizioni Il Mulino): “La civiltà ottomana era la sintesi tra il mondo turco-mussulmano e il mondo greco-bizantino. La coabitazione tra cristiani e musulmani era la base su cui poggiava l’impero. Questo sistema, che aveva funzionato per secoli, entrò in crisi a partire dall’Ottocento e la crisi si accentuò durante la Prima guerra mondiale”.
la Turchia dopo il trattato di
Sevres.
ALLEANZE SBAGLIATE. Nel conflitto gli Ottomani si erano schierati contro Francia e Gran Bretagna, considerate pericolose potenze coloniali, e contro la Russia, potente vicino che da tempo mirava a controllare il Bosforo e i Dardanelli. Il sultano Maometto V (1844-1918) probabilmente vagheggiava, grazie all’appoggio militare tedesco, di riconquistare una parte dei territori perduti nei Balcani. In effetti, prosegue Del Zanna, “la guerra andò piuttosto bene fino al 1917 e gli Ottoi subirono solo l’avanzata russa in Anatolia. Divenne però evidente che gli alleati miravano a spartirsi i territori dell’impero e non solo a vincere la guerra: già nel 1916 si accordarono per la spartizione”. La Sublime Porta si trovò così in una sorta di tenaglia che mirava a frantumarla, con i russi che attaccavano da nord e gli inglesi che premevano in Mesopotamia e in Palestina. Intanto gli agenti di Sua Maestà britannica, guidata da Lawrence d’Arabia, fomentavano in tutto il Medio Oriente la rivolta arava contro il sultano con la promessa di creare una o più nazioni indipendenti al posto dello Stato ottomano.
Un po’ di respiro venne dallo scoppio della Rivoluzione in Russia che fermò l’esercito dello zar, ma in ogni caso anni di guerra su più fronti cominciarono a pesare. Racconta Del Zanna: “Fame e malattie colpivano sia la popolazione, sia i soldati, portando a un profondo logoramento. Poi, nel dicembre 1917 ci fu la presa di Gerusalemme da parte degli inglesi e fu un evento che ebbe un forte significato simbolico”.
Lawrence d'Arabia
TRACOLLO IMPROVVISO. Si trattava ora, per Maometto V, di preservare l’Anatolia, il cuore del suo impero, ma il crollo arrivò improvviso nell’autunno del 1918, come per Austria e Germania: “Fatale per gli Ottomani fu l’imprevista resa della Bulgaria nel settembre 1918. Da quel Paese transitavano i rifornimenti dalla Germania verso la Sublime Porta. L’impero, pur senza aver subito tracolli militari, era ormai isolato e il sultano fu costretto a firmare l’armistizio il 30 ottobre 1918”. Spiega l’esperto. Francia e Gran Bretagna, a cui si aggiunsero Italia e Grecia, antica avversaria della Sublime Porta, erano pronte al banchetto. L’Anatolia e la stessa Istanbul furono occupate e il nuovo sultano Maometto VI (in carica dal 1918 al 1922) dovette accettare le condizioni di pace che condannavano a morte l’impero. Gran Bretagna e Francia concordarono di dividere il Medio Oriente in una serie di Stati, attribuendo Libano e Siria alla Francia mentre all’Inghilterra ottennero la Palestina, la Transgiordania e l’Iraq. L’Italia ottenne il suo osso, ossi l’Anatolia sudoccidentale, mentre alla Grecia fu consentito di occupare la Tracia, Smirne e le isole egee. All’Impero ottomano rimase solo una parte dell’Anatolia. Tutto avvenne con il beneplacito della neonata Società delle Nazioni (antenata dell’Onu), che riconobbe alle potenze europee il mandato sui territori che già nei fatti occupavano.
Kemal Mustafà
VERSO IL CAOS. Tutto definito quindi? Assolutamente no, perché le potenze europee, durante la guerra, avevano garantito l’indipendenza agli arabi in cambio dell’appoggio contro gli Ottomani. Inoltre gli inglesi avevano promesso la Palestina agli ebrei che ora arrivavano sempre più numerosi nella Terra promessa. Cosa ancora più grave, i nuovi stati erano stati creati senza tenere conto delle etnie e delle comunità religiose che vi abitavano. Spiega Del Zanna: “Erano strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo “Erano strutture statali fragili e non sorrette da una forte identità nazionale. Pensiamo alla Siria, che ancora oggi conta 17 comunità religiose diverse, oppure all’Iraq, col suo pluralismo etnico religioso. Da uno Stato sovranazionale come l’impero non si passò a stati con una grande omogeneità interna e questo è alla base di tanti dei problemi odierni del Medio Oriente”. Infine gli europei non avevano tenuto conto dell’orgoglio dei turchi, il gruppo etnico maggioritario nell’impero. Mustafà Kemal (1881-1938), leader dei Giovani Turchi, movimento che mirava a trasformare la Sublime Porta in uno Stato nazionale turco scatenò una violenta guerra di liberazione che scacciò i nemici dall’Anatolia: “I Turchi riuscirono a ribaltare una situazione compromessa e avrebbero anche potuto riprendersi il Medio Oriente se non ci fosse stato l’ostacolo della Francia e della Gran Bretagna a impedirlo. Di fronte alle nazionalità che si affermavano, prima fra tutte quella turca, un impero sovranazionale come quello ottomano non aveva più senso per nessuno era un relitto della Storia”, conclude Del Zanna. Come per gli europei, anche per Kemal, detto poi padre dei turchi, l’impero era da seppellire. Maometto VI fu costretto ad abdicare nel novembre del 1922 ponendo fine a una civiltà, quella ottomana, che affondava le sue radici nel Medioevo. Le guerre erano costate distruzioni immense e sei milioni di morti mentre dalle ceneri dell’impero sorgeva un grande Stato unitario, la Turchia, e il caos ancora oggi indomabile del Medio Oriente.
ritratto di Maometto V
La caduta dei giganti.
La Grande guerra portò alla fine non solo del grande Stato ottomano, ma anche degli imperi che ancora esistevano in Europa alla vigilia del conflitto. Fu un’ecatombe di dinastie che sconvolse la carta politica del Vecchio continente e relegò tra le reliquie del passato Stati che avevano dominato la storia europea.
I ROMANOV. Il primo in ordine di tempo a crollare fu l’impero risso degli zar. Nel febbraio 1917 Nicola II dovette abdicare sull’onda delle gravi sconfitte subite dall’esercito durante il conflitto mentre oramai la popolazione era stremata da fame e miseria. L’abdicazione aprì la strada alla Rivoluzione d’ottobre e alla presa del potere dei bolscevichi. Nel fatidico 1918, Nicola II e tutta la famiglia imperiale furono trucidati dai rivoluzionari rossi, fu la fine dei Romanov, la dinastia che guidava la Russia dal 1613.
GLI ASBURGO. Ancora più antico era il potere degli Asburgo, titolari della corona d’Austria e del titolo imperiale fin dal Medioevo. L’ultimo sovrano della casata fu Carlo I, che succedette al decrepito Francesco Giuseppe nel 1916. Decrepito era anche l’impero degli Asburgo, oramai dilaniato dalle pretese delle varie nazionalità che lo componevano. Ungheresi, slavi, italiani alimentarono durante il conflitto continue rivolte e favorirono lo sgretolamento dell’impero all’indomani della capitolazione avvenuta tra fine ottobre e inizio novembre del 1918. In Austria venne proclamata la repubblica ma Carlo I rifiutò di firmare l’abdicazione perché, scrisse, “Dio mi ha assegnato il trono in sacra fiducia”. Nell’aprile del 1919 fu costretto a lasciare l’Austria con tutta la famiglia e fece un fallimentare tentativo di ritornare sul trono nel 1921. Morì nel 1922 ed è stato beatificato dal papa Giovanni Paolo II nel 2004.
GLI HOHENZOLLERN. Sempre in esilio finì la carriera Guglielmo II, kaiser della Germania e considerato uno dei maggiori responsabili della Grande guerra. L’Impero tedesco, nato nel 1871, si dissolse in poche settimane, nell’autunno del 1918, perché esercito e popolazione erano allo stremo dopo cinque anni di guerra. Guglielmo fuggì in Olanda alla fine di ottobre e abdicò di fronte all’insurrezione dilagante degli operai e dei soldati tedeschi. Venne instaurata la repubblica e fu la fine del potere degli Hohenzollern, il casato che dal Cinquecento aveva fatto grande la Prussia.
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I numeri della grande guerra.
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La prima guerra mondiale ha avuto costi umani ed economici che i numeri raccontano in modo efficace. Ecco un bilancio del conflitto considerato sotto tutti i punti di vista.
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I COSTI ECONOMICI. È stato calcolato che la Grande guerra sia costata l’equivalente di 2000 miliardi di euro attuali. Per l’Italia il costo fu di 45 miliardi di lire dell’epoca, pari a 64 miliardi di euro attuali. Alla fine delle ostilità la Germania fu condannata a ripagare come risarcimento la cifra iperbolica di 64 miliardi di dollari in oro, circa 700 miliardi di euro. L’ultima rata (70 milioni di euro) del risarcimento è stata pagata nel 2010!
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LE TRINCEE. Impossibile calcolare la lunghezza delle trincee scavate durante il conflitto. Sappiamo che ne vennero realizzate 25mila chilometri sul fronte occidentale dove il 60% dei soldati morì comunque per i colpi d’artiglieria scagliati contro i ripari. L’aspettativa di vita in trincea era di 6 settimane e ogni soldato passava circa il 15% dell’anno in trincea, solitamente a turni di due settimane. A Ypres, in Belgio, le trincee francesi e tedesche distavano solo 50 metri.
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TUTTE LE VITTIME. Furono 64 milioni in totale i soldati coinvolti nella Grande Guerra. I caduti furono circa 9 milioni (6000 al giorno!) 21 milioni furono i feriti di cui 8 milioni con mutilazioni permanenti (80000 i casi accertati di psicosi traumatica dovuta allo stress da combattimento). Quasi 8 milioni tra prigionieri e dispersi. La nazione che ebbe più vittime fu la Germania (circa 1milione e 700mila caduti) mentre l’Austria-Ungheria, tra morti feriti e prigionieri perse il 90% dei quasi 8 milioni di soldati mobilitati. 8 milioni furono le vittime civili in Europa.
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MORTI NEUTRALI. Anche gli Stati neutrali ebbero i loro morti, dovuti alla guerra sottomarina della Germania. In Danimarca morirono 722 marinai della marina mercantile o pescatori coinvolti negli affondamenti delle navi da parte dei tedeschi. Anche Norvegia e Svezia subirono vittime in mare: la prima perse circa 2000 marinai, la seconda 877 marinai.
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ITALIA FERITA. I feriti furono 2milioni e 500mila, dei quali 463mila invalidi permanenti e mutilati di guerra. In particolare 74600 storpi, 21200 rimasti senza un occhio, 1940 ciechi totali, 120 senza mani, 3250 muti, 6750 sordi, 5440 mutilati al viso. Circa 40mila persone ebbero patologie psichiche gravi.
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LE CONDANNE. I militari italiani condannati a morte durante la guerra sono stati 170064, 750 fucilati dopo regolare processo, altri 350 per esecuzioni sommarie accertate. Nel settembre 1919 vi erano 60mila uomini rinchiusi nelle carceri militari.
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MEDICI IN GUERRA. La Croce rossa italiana (CRI) mobilitò 9500 uomini, 8200 crocerossine, 1200 ufficiali medici, 1000 erano le crocerossine negli ospedali da campo al fronte, 44 morirono, 3 furono fatte prigioniere. Al di fuori della CRI furono mobilitati 18mila tra ufficiali medici, studenti in medicina e medici civili tra di essi vi furono anche 48 tra dottoresse e farmaciste.
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ANCORA ORDIGNI. Ogni anno nella foresta di Verdun vengono recuperate 900 tonnellate di materiale pericoloso: bombe, mine, proiettili con gas tossici. In Belgio, unità specializzate nel recupero di esplosivi trovano tra le 150 e le 200 tonnellate di bombe ogni anno.
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IN FABBRICA. L’Italia contò 589mila vittime civili e 345mila orfani alla fine del conflitto. Quando i soldati tornarono a casa vi fu però un boom delle nascite, aumentate del 45% tra il 1918 e il 1920. Le donne contribuirono in maniera decisiva al funzionamento del fronte interno. Nell’industria lavoravano 651mila donne nell’aprile del 1916, a ottobre dello stesso anno erano già 972mila per diventare 1milione e 240mila a metà 1917. Nell’industria bellica furono impiegate 23mila donne a fine 1915 per arrivare a 198mila tre anni dopo. La paga di un’operaia dell’industria bellica era di 5 lire al giorno, circa 7 euro di oggi. In totale gli operai dell’industria bellica furono 902mila, la produzione passò da 73 cannoni al mese nel 1913 ai 540 del 1918.
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GLI ANIMALI. Molti furono gli animali coinvolti nel conflitto. Furono usati 11 milioni tra cavalli, muli e asini, 100mila cani, 200mila piccioni viaggiatori. Ogni mulo poteva trasportare fino a 150 chili di peso. Gli animali furono anche alla base dell’alimentazione dei soldati: gli stabilimenti militari italiani confezionarono 173milioni di scatolette di carne suina e bovina, altri 62 milioni ne confezionò l’industria privata.
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GLI ITALIANI AL FRONTE. La chiamata alle armi riguardò nel nostro Paese circa 6 milioni di uomini, 2 milioni e 200 mila sotto i 25 anni, 300 mila furono i rimpatriati dall’estero per l’arruolamento e 370mila furono i giovani emigrati che non risposero alla chiamata. 100 circa i renitenti che si nascosero sul territorio italiano, 650mila soldati morirono: tra questi 100mila perirono nei campi di prigionia del nemico. A questa cifra vanno aggiunti gli italiani caduti combattendo in eserciti stranieri. 24366 italiani morirono nelle file dell’esercito austro-ungarico (11318 dei quali trentini); i circa 300 volontari garibaldini finirono morti e dispersi in Francia con la Legione Straniera francese prima del 24 maggio 1915; 100 cittadini italiani sono morti combattendo negli eserciti alleati di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e anche Sudafrica. Nel 1926 le pensioni di guerra versate ai familiari dei caduti erano 655705.
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LA POSTA. Tra l’agosto del 1914 e il novembre del 1918 vennero inviati 28,7 miliardi di lettere, cartoline e pacchi tra il fronte e la patria. Gli invii aumentarono vertiginosamente durante il conflitto: nell’ottobre del 1914 il servizio postale britannico smistò 650mila lettere e 85mila pacchi alla settimana. Nel 1916 furono spediti al fronte quasi 11 milioni di lettere e 875mila pacchi alla settimana. In Francia furono inviati durante il conflitto circa 10 miliardi di missive, in Germania mediamente vennero smistati durante la guerra ogni giorno 16,7 milioni di cartoline militari, lettere e pacchi dal fronte in patria e viceversa. In Italia furono scambiati tra il fronte ed il resto del Paese circa 4 miliardi tra lettere e cartoline, una cifra enorme tenendo conto che più del 46% degli italiani era analfabeta.
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Articolo in gran parte di Roberto Roveda pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Un’amara vittoria.
Per l’Italia il conflitto si concluse con un bilancio di 650mila morti, 450mila mutilati e un bottino di guerra decisamente al di sotto delle aspettative.
Nel novembre 1918, l’Italia fu travolta da una ventata di entusiasmo: dopo più di tre anni di aspri combattimenti e immani sacrifici, la lunga guerra contro l’Austria-Ungheria era finalmente vinta. Ma il fervore patriottico lasciò presto spazio alla dura realtà. Il bilancio della vittoria era stato infatti tragico: circa 650mila morti, 450mila mutilati e tre milioni di reduci. Sul fronte economico il Paese era letteralmente in ginocchio, dissanguato dalle spese belliche, con interi territori devastata e un’industria che stentava a riprendere il suo corso in tempo di pace.
ISOLATI. Amare delusioni vennero poi dagli accordi di pace di Versailles. Prima dell’entrata nel conflitto, nell’aprile del 1915, l’Italia aveva siglato a Londra un patto segreto con gli Alleati che, in caso di vittoria, le garantiva un lauto bottino territoriale a scapito dell’Austria. Oltre al Trentino, all’Alto Adige, al Friuli, alla Venezia Giulia e all’Istria, l’accordo prevedeva l’occupazione della Dalmazia (la cui popolazione era prevalentemente croata), ma a opporsi furono gli Stati Uniti, entrati in guerra nel 1917 e dunque estranei al Patto.
Nei suoi 14 punti il presidente Woodrow Wilson affermava che la rettifica delle frontiere italiane doveva avvenire secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili, considerando nullo qualsiasi patto segreto. Non bastasse, Wilson si oppose alla richiesta di Roma di ottenere Fiume (odierna Rijeka, in Croazia), che intendeva cedere al neonato regno dei Serbi, Croati e Sloveni (futura Iugoslavia) nonostante le richieste di annessione dei numerosi fiumani italiani, maggioranza in città. Di fronte a questi ostacoli, i rappresentanti dell’Italia a Versailles aggravarono ancor più le cose. Se il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando appariva incline alla trattativa, questa fu bloccata in modo intransigente dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino. Alla fine entrambi decisero di abbandonare la conferenza per protesta, ma furono costretti a tornare al tavolo con la coda tra le gambe quando si accorsero che gli Alleati stavano procedendo per conto loro, ignorandone l’assenza.
ARDITA IMPRESA. Gli insuccessi e le gaffe diplomatiche causarono nel Paese un clima di disagio sfruttato ad arte dai nazionalisti. Tra questi spiccavano Benito Mussolini, all’epoca giovane direttore del Popolo d’Italia, e Gabriele d’Annunzio, il poeta soldato, che per l’occasione coniò la celebre espressione vittoria mutilata, accusando le potenze riunite a Versailles di negare il giusto compenso “a una nazione vittoriosa, anzi alla più vittoriosa di tutte le nazioni, anzi alla salvatrice di tutte le nazioni”. Il vate non si limitò alla retorica: chiamato in causa dagli stessi fiumani, decise di risolvere la questione con uno spettacolare colpo di mano, simile a quelli che l’avevano reso famoso durante la guerra. Nel settembre 1919 occupò Fiume insieme a una milizia di volontari, i cosiddetti legionari fiumani, e a più di 2500 soldati del Regio Esercito passati dalla sua parte. Dopodiché, tuonando contro il nuovo capo del governo Francesco Saverio Nitti, definito con sprezzo Cagoia, creò sotto la sua eccentrica guida la cosiddetta Reggenza del Carnaro, un mini Stato che mescolava elementi nazionalisti ai principi del sindacalismo rivoluzionario. Tra saluti romani e camicie nere, a Fiume D’Annunzio inaugurò un mix di rituali poi ripresi dal regime fascista, ma la sua impresa, pur suscitando entusiasmo, non fece che rimandare la soluzione del problema.
D'Annunzio (al centro con il bastone) con alcuni legionari a Fiume nel 1919. Alla destra di D'Annunzio, rivolto verso di lui, il ten. Arturo Avolio
NUOVI EQUILIBRI. Nel frattempo Nitti aveva altri grattacapi. L’inflazione galoppava, il costo della vita era quadruplicato e folle esasperate saccheggiavano negozi di generi alimentari. A farne le spese erano, fra gli altri, i reduci, spesso relegati ai margini della vita civile. La democrazia liberale si stava lentamente sfaldando sull’onda del malcontento popolare.
Nelle elezioni del novembre del 1919 i nuovi partiti di massa fecero il pieno di consensi: con il 32% i socialisti guadagnarono ben 156 parlamentari, seguiti dai cattolici del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo (con il 20% e 100 seggi) e dal blocco costituito da liberali, democratici e radicali, mentre fuori dal parlamento rimasero i neonati Fasci di combattimento. I socialisti non furono in grado di sfruttare il trionfo e al loro interno prevalse la corrente massimalista, contraria a qualsiasi alleanza. Così, dopo la parentesi di un esecutivo Nitti, il 15 giugno 1920 fu varato un governo di coalizione presieduto dal liberale Giovanni Giolitti. Questi aveva tirato le fila della politica italiana nei vent’anni precedenti e ritornava ora in scena alla veneranda età di 78 anni: non proprio il nuovo che avanza.
Francesco Saverio Nitti
BIENNIO ROSSO. La situazione continuava a essere esplosiva, tra violenti scioperi e rivolte contadine. Per natura incline al compromesso, Giolitti provò invano a mediare varando riforme in favore dei lavoratori, tuttavia a prendere sempre più piede furono i fascisti, che si presentarono come i veri tutori dell’ordine. “Le fortune del fascismo cominciarono verso la fine del 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche e le elezioni amministrative dell’autunno, che assegnarono il declino del Partito Socialista. La borghesia e i ceti medi, convinti di non essere più tutelati dal governo, organizzarono forme di autodifesa per riaffermare i diritti della proprietà e il primato nazionale contro il pericolo bolscevico.”, scrive lo storico Emilio Gentile nel libro il fascismo in tre capitoli (edizioni Laterza). In questo contesto incendiario, un episodio emblematico ebbe luogo a Bologna il 21 novembre 1920, in occasione dell’insediamento della nuova giunta socialista a Palazzo d’Accursio (sede del comune) quando una bomba lanciata dalle Guardie Rosse fece dieci vittime e alcune pistolettate uccisero il consigliere comunale liberale Giulio Giordani. Nonostante avessero fatto proprio dell’intimidazione un elemento chiave della loro politica, i fascisti riuscirono con abilità a volgere l’opinione pubblica a loro favore e la cosiddetta “strage di Palazzo Accursio” entrerà poi nell’immaginario collettivo del futuro regime. L’assassino non fu mai identificato, ma Giulio Giordani, pur essendo un membro liberale del consiglio comunale, divenne il primo martire fascista. “Con squadre armate organizzate militarmente, nel giro di pochi mesi le camicie nere distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie nelle provincie della Val Padana, dove il Partito Socialista e le leghe rosse erano arrivate a esercitare un controllo quasi totale sulla vita politica ed economica”. Continua Gentile. Nel frattempo, sullo sfondo, la questione della vittoria mutilata restava aperta.
Trattato di Rapallo
Giovanni Giolitti (seduto) firma il trattato di Rapallo. Al centro in primo piano il ministro degli esteri del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni Ante Trumbić.ContestoPrima guerra mondialeFirma12 novembre 1920LuogoRapallo, ItaliaCondizioniSistemazione del confine in Venezia Giulia e dello Stato libero di FiumeParti Italia
Regno dei Serbi, Croati e SloveniFirmatariGiovanni Giolitti
Milenko Vesnićvoci di trattati presenti su Wikipedia
Il trattato di Rapallo, firmato il 12 novembre 1920, fu un accordo con il quale l'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive sovranità, nel rispetto reciproco dei principi di nazionalità e di autodeterminazione dei popoli. Esso rappresentò la conclusione del processo risorgimentale di unificazione italiana sino al confine orientale alpino e l'annessione al Regno d'Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara.
VITTORIA DI PIRRO. Sul fronte diplomatico Giolitti fu più efficace e finalmente arrivò l’intesa sulle zone contese: con il Trattato di Rapallo (novembre 1920), Roma rinunciava alla Dalmazia (tranne Zara e le isole di Cherso) e Fiume assumeva lo status di città libera, a cui fu garantito un collegamento territoriale con l’Italia. Si trattava di un buon compromesso, tanto da essere accolto positivamente persino da Mussolini, ma D’Annunzio lo respinse sdegnosamente. Nel Natale successivo, ormai isolato dopo 16 mesi di occupazione, il Vate fu costretto a sloggiare dalla Regia Marina a suon di cannonate. A conti fatti, in termini territoriali l’Italia aveva guadagnato dalla guerra poco più di quanto era stato offerto nel 1915 dall’Austria-Ungheria per rimanere neutrale.
Nel 1921 il biennio rosso svolgeva al termine, e stretti tra repressione esterna e lotte intestine, i socialisti non trovarono di meglio da fare che scindersi, dando vita al Partito Comunista d’Italia. In parallelo, le elezioni segnarono l’ingresso dei fascisti in Parlamento, sotto l’ombrello dei Blocchi Nazionali voluti da Giolitti iper fermare le sinistri. Poco più di un anno dopo marceranno su Roma.
La Grande guerra, con nazionalisti e fascisti che avevano ormai fatto della vittoria mutilata un tema propagandistico di grande presa, face così la sua ultima vittima: la democrazia.
I fasci di combattimento.
Il 23 marzo 1919, a Milano, nella sede del Circolo dell’alleanza industriale di P.zza San Sepolcro, l’ex socialista rivoluzionario Benito Mussolini, già autorevole direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, riunì un centinaio di reduci, ex interventisti e futuristi dando vita a un antipartito ferocemente avverso alla politica tradizionale: il movimento dei fasci di combattimento.
AL POTERE. Nel programma, infarcito di toni nazionalistici e antiborghesi, si rinnegava l’imperialismo e ci si richiamava al sindacalismo rivoluzionario. I Fasci non ebbero tuttavia successo, tanto da subire una sonora sconfitta alle elezioni politiche del 1919. Appena due anni dopo, però, nacque il Partito Nazionale Fascista, che rinnegò gran parte del programma originario dei Fasci riuscendo a scalare in fretta la vetta del potere.
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Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Il fattore morale.
Quanto contò per le sorti dell’Italia il cambio ai vertici tra l’intransigente Cadorna e il malleabile Diaz?
Luigi Cadorna
“Sarah mia, dai giornali avrai appreso la mia improvvisa nomina a Capo di Stato Maggiore (…) notizia che mi giunse come un fulmine (…). Mi par di sognare”. Così scriveva il generale Armando Diaz (1861-1928) alla moglie il 9 novembre 1917, dopo essere stato catapultato al comando supremo del Regio Esercito. Non era il solo a essere sorpreso: fino ad allora, nelle forze armante, pochi avevano sentito il suo nome, e molti dubitarono della scelta. Ma si dovettero ricredere: in un anno, risollevò le sorti dell’Italia nella Grande guerra.
MOMENTO CRITICO. La nomina di Diaz giunse all’indomani della più disastrosa sconfitta mai subita dall’esercito italiano, piegato dall’offensiva austro-tedesca del 24 ottobre 1917 a Caporetto. Quasi un terzo delle forze italiane era fuori uso: oltre 280mila prigionieri e 40mila tra morti e feriti. La linea del fronte arretrata sul Piave. Il Paese era piombato nello sconforto, e il terremoto politico che ne derivò portò alla caduta del governo liberale di Paolo Boselli e alla nascita di un esecutivo guidato da Vittorio Emanuele Orlando. Fu poi decisa la sostituzione del Capo di Stato Maggiore, il generalissimo Luigi Cadorna (1850-1928). “La sua destituzione fu richiesta a gran voce da Francia e Inghilterra, che subordinarono a ciò ogni aiuto finanziario e militare all’Italia. Grazie all’interessamento al ministro della Guerra Vittorio Luigi Alfieri, la scelta cadde su Diaz, più malleabile del predecessore. Quest’ultimo la prese malissimo, denunciando l’inadeguatezza del sostituto, ritenuto incapace di le numerose e intricate fila del Comando. I due provenivano da famiglie con tradizioni militare, ma non potevano essere più diversi: duro e accentratore il primo, misurato e incline al dialogo il secondo. Inoltre concepivano la guerra all’opposto: Cadorna come un vecchio generale dell’Ottocento, trattava con sprezzo le autorità politiche, mentre Diaz, dopo aver frequentato la scuola Allievi Ufficiali di Torino, si era distinto nella Campagna di Libia (1911-1912), e infine aveva comandato un corpo d’armata guadagnandosi una medaglia d’argento nella Grande Guerra. Non era uno stratega ma impiegò i suoi uomini secondo criteri più razionali, riuscendo a risparmiare così molte vite umane”, spiega lo storico Claudio Rosso, autore del volume Armando Diaz (Rizzoli).
Armando Diaz
SU CON LA VITA. Anche il rapporto con le truppe era di segno opposto: a differenza del generalissimo, che incolpò i soldati della disfatta di Caporetto, secondo lui vilmente ritiratisi, Diaz ebbe sempre a cuore il morale delle truppe. Concesse licenze più lunghe e con più facilità, promosse attività sportive e ricreative, in ultimo, distribuì onorificenze al valore, prima appannaggio dei gradi superiori, anche a sottoufficiali e soldati. “Diaz curò anche il rancio, che portò a una razione giornaliera di 3600 calorie mentre nell’esercito nemico, a causa della carestia, si attestava sulle 2000”, precisa Ross. Con l’aiuto del ministro dell’Economia, Francesco Saverio Nitti, l’Italia fu la prima nazione europea a istituire un’assicurazione sulla vita chiamata polizza combattenti, che riservava un premio ai familiari dei militari in caso di morte. Ed in ultimo creò istituzioni ad hoc come l’Opera Nazionale Combattenti.
SI VINCE. Cadorna aveva rivolto poca attenzione alla propaganda, affidandosi a conferenzieri dal linguaggio aulico e spesso incomprensibile, Diaz la ritenne indispensabile, tanto da istituire un’apposita commissione detta “Servizio P”, “Fu incoraggiata la pubblicazione e la lettura dei giornali (La Tradotta, La Ghirba, Signor Sì) ai qual collaborarono famosi scrittori” aggiunge l’esperto. Tutto questo, unito a un’efficiente organizzazione dell’esercito, diede i suoi frutti sul campo di battaglia: fra il novembre 1917 e l’ottobre 1918, vennero lanciate due grandi controffensive (una sul Grappa e una sul Piave), in cui vennero respinti gli ultimi disperati tentativi dell’esercito austro-ungarico di sfondare il fronte. Infine, il 24 ottobre, partì la dilagante offensiva di Vittorio Veneto, che portò gli italiani fino a Trento e Trieste. La guerra era ormai vinta, e il 4 novembre Diaz poteva stilare l’ormai celebre bollettino della vittoria. Ma la sua carriera politica fu breve: senatore nel 1921, ministro della Guerra nel 1922, si ritirò due anni dopo a vita privata per motivi di salute. Morì il 29 febbraio 1928. Nonostante gli onori non si era mai montato la testa: “ Posso dire in tutta sincerità di aver avuto un merito: quello di equilibrare tutte le forze e tutti gli ingegni altrui, quello di far regnare la calma fra i miei generali e la fiducia nelle truppe” dichiarò a guerra conclusa. Alle sue esequie a Roma, intervennero tutte le autorità del Paese- tranne una: Luigi Cadorna, ufficialmente per motivi di salute.
Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e foto da Wikipedia.
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Saranno famosi.
Confusi tra milioni di combattenti che presero parte alla Grande guerra vi furono anche artisti, poeti, e sportivi non ancora noti. Ma anche futuri papi, presidenti e dittatori, destinati in seguito a scrivere importanti (e talvolta tragiche) pagine di guerra.
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Papa Giovanni XXIII.
Nel corso del conflitto il futuro Giovanni XXIII, svolse il ruolo di sergente di sanità e di cappellano militare, dapprima nell’Ospedale militare di Milano e poi a Bergamo. Chiamato alle armi nel 1915, don Angelo Roncalli, prestò servizio fino al 1918, mostrando un’indole ottimista e gentile e dando prova di grande umanità nei confortare i soldati. Decenni dopo, nel 1959, ricorderà l’importanza di quei avvenimenti che “fece raccogliere nel gemito dei feriti e dei malati l’universale aspirazione alla pace, sommo bene dell’umanità”. Giovanni XXIII dal 2017 è anche patrono dell’Esercito italiano.
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Benito Mussolini.
Dopo essere approdato dal neutralismo all’interventismo più acceso, il futuro duce, all’epoca direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, si arruolò nell’11 bersaglieri, combattendo sull’Isonzo, in Carnia e sul Carso. Rimase al fronte dal 1915 per quasi due anni, raggiungendo il grado di caporal maggiore. In quel periodo compilò un diario, pubblicato a puntate sul suo giornale, dallo stile asciutto, lontanissimo dalla retorica bellicista del futuro Mussolini dittatore, raccontando “la vita monotona ed emozionante, semplice e intensa” della trincea. Un’esperienza che durò fino all’inizio del 1917, quando lo scoppio di un lanciabombe lo ferì gravemente, allontanandolo definitivamente dal fronte.
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ADOLF HITLER. Quando giunse al potere, nel 1933, il Fuhrer esaltò la sua passata partecipazione alla Grande Guerra, che in realtà fu ben poco gloriosa. Allo scoppio del conflitto si arruolò nell’esercito tedesco raggiungendo il grado di caporale ma restando lontano dalla prima linea, fatta eccezione solo per alcune sporadiche incursioni come portaordini: il capo del suo reggimento, il colonnello Julius List, gli negherà sempre la promozione a sergente ritenendolo privo di adeguate doti di comando. Tuttavia nel 1916 fu decorato con la Croce di ferro per il ferimento a una gamba ricevuto durante il servizio di portaordini. Nel 1918 a Marcoing, in Francia, durante un assalto nemico alla sua trincea, gli fu risparmiata la vita. Il britannico Henry Tandey, infatti, vedendolo ferito, non gli sparò: un gesto di umanità che cambiò il corso della storia.
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SANDRO PERTINI. Il futuro presidente partigiano, nonostante le posizioni neutraliste, prese parte in prima linea ai combattimenti sull’Isonzo e sul Pasubio nei ranghi dell’artiglieria, con il grado di sottotenente. Nell’agosto 1917, durante l’11 battaglia dell’Isonzo, guidò con successo un assalto alle postazioni nemiche sul Monte Jelenik. Per l’eroismo dimostrato in quell’azione fu proposto per la medaglia d’argento al valore, che tuttavia non gli fu consegnata (è ancora incerto se a causa delle sue simpatie socialiste o per la confusione che subentrò nell’esercito dopo la disfatta di Caporetto. La decorazione gli fu in ogni caso conferita ufficialmente nel 1985, al termine del suo mandato da Presidente della Repubblica. Per il suo impegno antifascista fu condannato nel 1926 al confino.
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CHARLES DE GAULLE. Il generale e politico francese, presidente del Comitato francese di Liberazione nazionale durante la Seconda guerra mondiale e Presidente della Repubblica dal 1959 al 1969, a 24 anni, partecipò al conflitto con il grado di sottotenente, al comando di una compagnia del 33° reggimento di fanteria. Venne ferito nel corso della offensiva tedesca a Verdun in Francia, (nel 1916), e fatto prigioniero dalle truppe del Kaiser nella cittadina di Douaumont. Rimase in mano nemica fino alla fine del conflitto. Nei tre anni di detenzione tentò di evadere cinque volte senza successo. Approfittò della lunga prigionia per riflettere sugli errori commessi dagli alti comandi francesi sviluppando una serie di argute riflessioni di strategia militare che metterà a frutto successivamente.
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WINSTON CHURCHILL. Durante la guerra, era Primo Lord dell’Ammiragliato (Ministro della Marina), aveva 40 anni ed era già un politico in vista della Gran Bretagna. La sua leadership fu però segnata da un grande flop: quello della campagna di Gallipoli, in Turchia, condotta dalle forze della Royal Navy sullo stretto dei Dardanelli contro gli ottomani. Da lui fortemente voluta. Costretto alle dimissioni dopo la fine disastrosa dell’impresa, nel 1915, Churchill servì sul fronte francese come tenente colonnello, e tornò al governo nel 1917 come ministro delle Munizioni. Fino alla seconda guerra mondiale però il disastro di Gallipoli rimase una macchia indelebile sulla sua reputazione.
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ERWIN ROMMEL. Il generale tedesco al comando della Panzer division in Francia nel 1940 e dell’Afrikakorps in Nordafrica durante la Seconda guerra mondiale, passato alla storia come la volpe del deserto, dimostrò, fin dal primo conflitto mondiale, straordinarie abilità militari e strategiche. In quegli anni, con il grado di tenente, prestò servizio in Francia e in Romania per poi finire in Italia, dove prese parte alla terribile offensiva di Caporetto. La brillante operazione gli valse la più alta decorazione al valore imperiale, la Pour le Mérite. E fu sempre in Italia che, al comando di due compagnie del battaglione di montagna del Wurttemberg, applicò con successo la nuova tattica dell’infiltrazione nelle linee nemiche, resa possibile dall’invenzione delle mitragliatrici leggere.
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TAZIO NUVOLARI. Terminato il servizio di leva tra il 1912 e il 1913, il futuro asso dell’automobilismo noto come mantovano volante, fu richiamato alle armi nel 1915. Il suo ruolo fu di autiere, ovviamente. Durante il conflitto sfrecciò guidando le ambulanze della Croce Rossa e trasportando ufficiali da una parte all’altra del fronte. Si racconta che una volta uscì fuori strada e il colonnello che era con lui gli avrebbe consigliato di lasciar perdere le auto. Fortunatamente non seguì il consiglio.
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ENZO FERRARI. La Prima guerra mondiale colpì molto duramente la famiglia di Enzo Ferrari. Suo fratello maggiore, Dino, infatti, arruolatosi volontario, morì durante il conflitto, nel 1916. Enzo invece trascorse la sua esperienza al fronte tra le file degli alpini, prendendo servizio nel 1917, e fu congedato poco dopo a causa di una gravissima pleurite. Dopodiché, nel 1923, in occasione di una corsa sportiva, conobbe la madre del grande aviatore Francesco Baracca, che gli donò l’emblema del figlio come portafortuna. Era il celebre cavallino rampante, poi divenuto il simbolo della casa automobilistica da lui fondata, la Ferrari.
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NEDO NADI. Prima di entrare in guerra, colui che diventerà uno fra i più grandi schermitori italiani, aveva già vinto un oro nel fioretto alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912. Durante il conflitto il livornese continuò a fare man bassa di decorazioni, questa volta al valor militare: due medaglie come ufficiale del reggimento di cavalleria Alessandria. Rischiò la corte marziale per aver fraternizzato con un altro schermitore arruolato tra gli austriaci.
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CURZIO MALAPARTE. Quando scoppiò la guerra il celebre giornalista e scrittore toscano, all’anagrafe Curzio Suckert, aveva appena sedici anni, ma decise di arruolarsi, inizialmente nella Legione Straniera Francese. Nel 1915, si unì alle forze italiane, appena entrate in guerra, in qualità di fante, guadagnandosi il grado di tenente e una medaglia di bronzo al valore. Il suo primo libro, pubblicato nel 1921, lo dedicò proprio alla guerra e lo intitolò provocatoriamente Viva Caporetto. In esso i politici e i generali venivano additati come i principali responsabili del disastro. Dopo essere stata sequestrata a causa proprio del titolo, nello stesso anno l’opera fu ripubblicata con un nuova titolazione: la rivolta dei santi maledetti.
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GIUSEPPE UNGARETTI. Arruolatosi volontario nel 1915 e assegnata alla Brigata Brescia il famoso poeta combatté fino al 1918, prima sul fronte italiano e poi su quello francese. Oltre a collaborare con un giornale di trincea, il Sempre Avanti, durante l’esperienza al fronte raccolse le idee che ispirarono la sua prima raccolta di poesie, intitolata il Porto sepolto e pubblicata nel 1916 grazie a un ufficiale suo amico, di nome Ettore Serra. Tre anni più tardi questi versi confluirono nell’opera Allegria di naufragi, primo grande successo della sua lunga carriera letteraria.
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TOTO’. Insofferente alla vita militare, nel 1915 il grande attore partenopeo, all’anagrafe Antonio De Curtis, fu assegnato al 182° battaglione di fanteria, destinato a combattere sul fronte francese. Non lo raggiungerà mai: durante il tragitto in treno, spaventato (così si racconta) dalle strane abitudini sessuali dei soldati marocchini che viaggiavano con lui, finse alla perfezione un attacco epilettico riuscendo a evitare i combattimenti. Trascorse l’ultimo periodo da militare stanziato a Livorno. Probabilmente proprio l’esperienza sotto le armi gli ispirò l’interrogativo Siamo uomini o caporali?, che è il titolo di un suo celebre film del 1935
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HERNEST HEMINGWAY. Come molti suoi coetanei Hemingway si arruolò volontario nell’esercito statunitense, ma per un difetto alla vista fu relegato ai servizi di autoambulanza nell’American Red Cross e inviato sul Piave. Qui, nel giugno 1918, mentre stava portando cioccolata e sigarette per i soldati, fu colpito da alcune schegge di mortaio e, pur ferito, riuscì a mettere in salvo un militare italiano. Per l’eroismo dimostrato, il governo di Roma gli conferì la medaglia d’argento al valore. Nel corso della sua permanenza in Italia collaborò per un quotidiano chiamato Ciao, e la sua esperienza al fronte fu indispensabile per la stesura di uno dei suoi romanzi più noti: Addio alle armi del 1929.
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WALT DISNEY. Seguendo le orme dei due fratelli maggiori, già sotto le armi, nel 1917 Disney tentò di arruolarsi sotto le armi, ma la sua domanda fu respinta perché troppo giovane (aveva 16 anni). Ciò nonostante, l’anno seguente riuscì a entrare nell’American Red Cross falsificando la data di nascita. Arrivò però in Francia quando la Germania aveva siglato l’armistizio. Vi rimase quasi un anno e in questo periodo, che in futuro considerò essenziale per la crescita della sua autostia, continuò a disegnare fumetti, ispirato proprio dalla vita militare.
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CARLO EMILIO GADDA. Fervente patriota e acceso interventista, si arruolò volontario negli Alpini nel 1915 e visse in prima persona, da ufficiale, il dramma di Caporetto. A seguito della disfatta fu fatto prigioniero e incarcerato in Germania, nei pressi di Hannover, dove rimase fino alla fine del conflitto. Alcune parti del suo diario, pubblicate nel secondo dopoguerra, contengono una spietata denuncia delle condizioni di vita dei prigionieri, oltre a una feroce critica all’incompetenza di molti generali. Tornò in Italia nel 1918, appena in tempo per apprendere la tragica morte in combattimento del fratello, all’epoca pilota.
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L’amaro ritorno dei reduci.
Finita la Grande guerra, nel 1918 l’Europa si ritrovò sommersa da un numero enorme di reduci. Solo in Italia erano quasi tre milioni, mentre la Germania sconfitta ne ebbe il doppio. Il loro fu un ritorno difficile: dopo anni passati tra sanguinosi combattimenti e in condizioni igieniche precarie (o peggio in prigionia) una volta tornati a casa gli ex combattenti, molto spesso operai o contadini, si aspettavano di godere di condizioni di vita agevolate. Ma per molti di loro il reinserimento nella vita civile fu impossibile per via della grave crisi economica e industriale che attanagliò i Paesi europei (sia vinti che vincitori), nel dopoguerra,
MALCONTENTO. La frustrazione dei reduci, abbandonati dalle istituzioni, li portò a infoltire le file dei nuovi partiti di massa, come quello socialista, o a divenire protagonisti di numerose proteste, spesso violente, contro la classe politica dominante. Ad approfittarne furono le nascenti forze nazionaliste, il fascismo in Italia e i più tardi il nazismo in Germania, che fecero leva sul loro risentimento, per mettere in crisi la tenuta di precari regimi democratici. | ||
Articoli in gran parte a cura di Massimo Manzo pubblicato su Focus storia n. 145 del mese di ottobre 2018.
Il vero killer del XX secolo.
L’influenza spagnola era in realtà americana. Fece più vittime della Grande Guerra e si diffuse proprio a causa del conflitto.
“Eppur si muore”. Parafrasando Galileo ecco una frase che avrebbe potuto esprimere lo sconcerto di qualsiasi medico di fronte al divampare planetario dell’influenza spagnola, vera piaga biblica del XX secolo, annunciatasi sotto le mentite spoglie di un banale malessere di stagione. Definita il più grande olocausto sanitario della Storia, la pandemia nel 1918 si sovrappose alle fasi finali della Grande Guerra, addirittura surclassandone il triste primato in vite umane: se infatti i morti del primo conflitto mondiale furono circa 10 milioni, quelle della spagnola, secondo stime aggiornate oscillerebbero tra i 50 e i 100 milioni di persone – di cui circa 600mila solo in Italia – cioè da 3 al 5% della popolazione mondiale dell’epoca. Numeri superiori anche a quelli della famigerata Peste Nera che a metà del Trecento devastò l’Europa: allora morì circa un terzo degli abitanti del continente, ma a conti fatti solamente 20 milioni di individui.
29 maggio 1919, Massachusetts. Come in tutti i paesi, anche qui, in seguito al riempirsi degli ospedali, si fecero costruire ospedali da campo per sopperire alle esigenze dei malati
COLPA DEL CONFLITTO. Sull’origine geografica dell’apocalisse virale che un secolo fa portò la morte in ogni angolo del mondo non esistono prove certe. Una delle ipotesi più accreditate è quella dello storico americano John. Barry, autore del volume The Great influenza (Penguin), secondo cui il primo focolaio della malattia si sviluppò nella contea di Haskell, in Kansas (Usa), dove il medico di campagna Loring Miner descrisse per la prima volta la patologia con sintomi simili a una comune influenza, ma di intensità insolita e talora letale. Tuttavi “Isolata e spopolata com’era Haskell, il virus che infettava la contea avrebbe potuto facilmente rimanere dov’era, sena riuscire a diffondersi nel resto del mondo. Ma quello era tempo di guerra”, racconta Barry. Accade dunque che numerose reclute si mossero da Haskell verso Camp Funston, all’epoca uno dei più grandi acquartieramenti del Paese per addestrare le truppe americane da inviare in Europa. Fu cos’ che un virus pericolosissimo ma a dimensione provinciale fu catapultato nel vasto mondo. Una tesi confermata anche dalla giornalista scientifica inglese Laura Spinney nel suo recente 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo (edizioni Marsilio). La mattina del 4 marzo 1918, scrive Spinney, un cuoco di Camp Funston, tale Albert Gitchell, andò in infermeria lamentando mal di gola, febbre e mal di testa. “All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero dei malati crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo fu costretto a requisire un hangar per sistemarli tutti”. Nel frattempo, complici i trasferimenti di soldati, l’epidemia si era diffusa in due terzi dei centri di reclutamento degli USA. Spostandosi con i militari, “a metà aprile l’influenza aveva già raggiunto il Fronte occidentale” sottolinea la studiosa. E ben presto anche le truppe tedesche dovettero vedersela con quello che all’inizio chiamarono blitzkatarrh, il catarro fulmineo. Dalle prime linee l’epidemia si propagò velocemente in tutta Francia e da lì in Gran Bretagna, Italia, Germania, Spagna, Polonia. Prima della fine di maggio aveva attraversato l’Africa alla volta dell’India e quindi della Cina, lasciandosi dietro legioni di malati e anche molti cadaveri. Non così tanti, però: “Era infatti la prima ondata della pandemia, relativamente leggera”.
Differenza tra la mortalità influenzale secondo le varie età tra l'epidemia del 1918 e le precedenti epidemie. Decessi per 100.000 persone in ogni fascia di età, Stati Uniti, per gli anni interpandemici 1911-1917 (linea tratteggiata) e l'anno pandemico 1918 (linea continua)[43]
EFFETTO DOMINO. In agosto, l’influenza tornò: trasformata e ben più letale. Tre i focolai accertati: Brest in Francia, Freetown in Sierra Leone e Boston negli Stati Uniti. Da lì, con un devastante effetto domino, il virus si sparse ovunque attraverso uomini e navi, ma soprattutto come conseguenza delle logiche di guerra per cui i malati in forma leggera restavano al loro posto in trincea, mentre quelli più gravi e contagiosi tornavano a casa, o comunque in ospedali da campo affollati e promiscui, contribuendo a diffondere la malattia. Il quadro può dirsi completo se aggiungiamo anche l’assenza di antibionici (saranno scoperti solo un decennio dopo, e avrebbero potuto rivelarsi decisivi contro polmoniti e infezioni batteriche, i veri killer degli organismi debilitati dalla spagnola), le precarie condizioni igenico-sanitarie e le terapie grossolane come le dosi da cavallo di aspirina, somministrata in quantità dieci volte superiori a quelle attuali. La pandemia non risparmiò quasi nessun angolo del globo, nemmeno l’Alaska o i più isolati atolli del Pacifico. Oltre alla guerra degli eserciti infuriava quelle delle etichette: “I medici militari francesi la chiamavano cripticamente maladie onze, ovvero malattia undici; in Senegal era l’influenza brasiliana, in Brasile l’influenza tedesca, in Danimarca la malattia che viene dal sud, in Polonia la malattia bolscevica, i persiani incolpavano gli inglesi e i giapponesi i loro celebri lottatori: diagnosticata per la prima volta durante un torneo, divenne l’influenza del sumo” scrive Laura Spinney. Perché allora la malattia del secolo passò alla storia con il nome convenzionale di Spagnola? Semplicemente perché in tutti i Paesi in guerra la censura militare nascondeva le notizie sulla malattia per non demoralizzare la popolazione già provata dal conflitto. La Spagna invece era rimasta neutrale e permetteva ai giornali di scrivere diffusamente della mortale influenza chiamata in quel Paese soldato napoletano, dal nome di un motivetto in voga, e che aveva contagiato anche il re Alfonso XIII e il primo ministro. Altra singolarità della spagnola era quella di colpire giovani adulti in buona salute anziché vecchi e bambini, tradizionali vittime designate di ogni epidemia. Questo perché erano proprio gli organismi più forti a sviluppare la cosiddetta tempesta di citochine, una reazione immunitaria fuori controllo e dagli esiti potenzialmente fatali. Con la spagnola essere giovane diventava dunque uno svantaggio; in particolare per le donne incinte. In più, secondo recenti studi, i giovani tra i 18 e i 30 anni nel 1918 si trovavano in una sorta di finestra di vulnerabilità: non avevano infatti sviluppato le difese immunitarie legate all’insorgenza di due virus simili a quelli della spagnola, rispettivamente nel 1889 (la cosiddetta influenza russa) e nel 1900.
Un grafico che mostra il numero di decessi nelle principali città, con un picco tra ottobre e novembre 1918.
VIRUS IN RITIRATA. La spagnola scemò nella primavera del 1919 repentinamente come era comparsa. La malattia di cui non si parlava mai – e di cui a lungo si continuò a tacere, per non guastare il clima euforico del dopoguerra – aveva cambiato il volto del pianeta, almeno quanto il massacro globale appena concluso. Tra i decessi eccellenti il poeta Guillame Apollinaire, il pittore Egon Schiele (non prima di aver ritratto su tela la moglie Edith, in agonia dello stesso male), l’autore del Cyrano di Bergerac Edmond Rostand, l’ex presidente brasiliano Francisco de Paul Rodriguez Alves. Ben più vasto invece l’elenco delle celebrità che guarirono: da Ernest Hemingway a Theodore Roosevelt a Ezra Pound, fino al futuro imperatore d’Etiopia Hailé Selassié e al padre della Turchia moderna, Mustafà Kemal Ataturk.
A LUNGO TERMINE. Ma gli effetti a lungo termine, ribadisce Laura Spinney, sono ancora tutti da investigare. Anzitutto la pandemia potrebbe averne propiziata un’altra, quella di encefalite letargica del 1919-1920. Inoltre è molto probabile che la spagnola fosse una malattia cronica, con un impatto negativo sulla salute di alcuni individui per mesi o anche anni successivi. Tra gli ex ammalati di spagnola gli esempi non mancano: il musicista ungherese Béla Bartok sviluppò un’infezione all’orecchio che lo rese sordo a vita. Amelia Earhat, pioniera dell’aviazione femminile, ebbe una sinusite che secondo alcuni ne compromise la capacità di volare, contribuendo forse alla tragedia in cui perse la vita durate la trasvolata del Pacifico (vedi articolo su questo blog dedicato all’episodio e all’aviatrice). Quanto al presidente americano Woodrow Wilson, convalescente della terza e ultima ondata di spagnola, agli incontri di Parigi nel 1919 era l’ombra di se stesso; fu così che nella Conferenza di pace passò la linea dura del primo ministro francese Clemenceau, che umiliava la Germania con pesantissime riparazioni, ponendo le basi di quel malcontento popolare che sarebbe stato un formidabile alleato per l’ascesa al potere di Hitler. Fuori dal coro e decisamente meno nota la vicenda del fisico ungherese Leo Szilard, a cui la spagnola salvò la vita: soldato con la divisa austrica, fu rispedito febbricitante a Budapest evitando così la sorte del suo reggimento, spazzato via dagli italiani a Vittorio Veneto. “In seguito Szilard si trasferì in America e lavorò alla fissione nucleare. Fece parte del gruppo impegnato nella produzione della prima bomba atomica…” ricorda Spinney. Bizzarie di una storia che nelle parole del celebre batteriologo Hans Zissner – attivo sui fronti europei della Grande Guerra come ufficiale medico – è spesso scritta più dai microbi che dagli uomini.
Un altro articolo sulla pandemia della spagnola è stato pubblicato su questo blog da questo link https://articolistoria.blogspot.com/2018/07/la-spagnola-la-grande-epidemia-del-1918.html
Articolo in gran parte di Adriano Monti Buzzetti Colella pubblicato su Focus storia n. 145. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Patria ingrata.
La guerra del 15-18 fu per gli ebrei italiani l’occasione di sentirsi finalmente cittadini le Belpaese. Vennero ripagati nel peggiore dei modi.
Il 4 novembre 1918 sui fronti italiani della Grande guerra le artigliere tacquero e per molti soldati incominciò il tanto atteso ritorno a casa. Quel giorno fu particolare per tantissimi, ma fu ancora più speciale per gli ebrei d’Italia. Avevano partecipato alla guerra e avevano condiviso le sofferenze del Paese: erano partiti per il fronte 5mila soldati, su una popolazione ebraica totale di 35mila individui.
In quel giorno si sentirono non più solo ebrei ma italiani al fianco di altri italiani. Era l’ultimo atto di un percorso di emancipazione iniziato quanto diventarono a pieno titolo cittadini del Piemonte nel 1848 e poi, tra il 1859 e il 1861, cittadini italiani. Nel Regno d’Italia trovarono una patria di cui furono fieri, come racconta Gadi Luzzato Voghera, presidente della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec): “Da quando era stata attribuita loro la cittadinanza gli ebrei ebbero una partecipazione molto attiva nella società italiana e nelle vicende politiche del Paese. Erano ebrei molti parlamentari, intellettuali, professori universitari, professionisti. E gli ebrei contribuirono attivamente alla discussione sulla partecipazione italiana
UGUALI TRA UGUALI. Anche i membri della comunità ebraica si divisero, infatti, tra interventisti e neutralisti. Tutti furono però uniti da una comune concezione riguardo al loro status all’interno della nazione. Spiega Luzzati: “parteciparono al dibattito sulla guerra e poi al conflitto non sentendosi membri di una componente religiosa, ma come italiani. Volevano prima di tutto rivendicare il proprio diritto-dovere di essere uguali fra uguali”. Fu questo a spingere molti ebrei a offrirsi come volontari. Così fece per esempio Riccardo Luzzato, che era stato tra i mille di Garibaldi e che venne decorato con medaglia d’argento a 73 anni. Tra gli ebrei ci furono ragazzi del Novantanove come Alberto Segre, padre di Liliana, oggi senatrice a vita; tanti ufficiali medici: molti graduati, dato che la metà dei soldati di origine ebraica combatté come ufficiale e sottoufficiale; numerose crocerossine. Fu un’adesione totale alla causa patriottica con tanto di album d’epoca colmo di foto di caduti, parenti al fronte e bimbi vestiti da militari come i papà e i nonni. “Dare il proprio contributo nella guerra voleva dire sancire definitivamente la propria cittadinanza italiana, l’appartenenza alla compagine nazionale, e completare il processo di integrazione che era costato non poca fatica e sofferenze”, precisa Luzzato Voghera. L’unica specifica presenza ebraica fu l’istituzione del rabbinato militare, fortemente voluto dal rabbino capo di Roma Angelo Sacerdoti per dare conforto religioso, proprio come accadeva già con i cappellani militari cattolici.
SUI FRONTI OPPOSTI. La guerra del 15-18 fu epocale per gli ebrei per un’altra ragione. Per la prima volta essi militarono nei vari eserciti e combatterono su fronti opposti. Ben 320mila erano infatti, nell’esercito austriaco, 100mila in quello tedesco, 50mila tra le file inglesi, 55mila quelli francesi, 650mila quelli russi. “In quel primo Novecento, l’ideale di nazione fu più forte di tutti, e gli ebrei lo abbracciarono con convinzione, al pari di tantissimi loro contemporanei. Così ci furono ebrei triestini che scelsero di rimanere con l’Austria e molti ebrei di Trieste che parteggiarono per l’Italia. Alcuni furono arrestati, altri giustiziati, altri ancora si arruolarono nell’esercito italiano” spiega Luzzato Voghera. La Grande Guerra rimescolò completamente le carte dell’Europa, tanto che tra i rappresentanti italiani alla conferenza di pace di Parigi un ruolo di primo piano lo ebbe proprio un ebreo irredentista, Salvatore Barzilai, l’uomo cui si deve la richiesta italiana di ricevere come bottino di guerra, l’Alto Adige, l’Istria e la Dalmazia. Il caso di Salvatore Barzilai fa capire quanto fosse ampio e di alto livello la presenza ebraica nel nostro paese negli anni di guerra.
“Molti considerarono il conflitto come il coronamento del Risorgimento e aderirono poi al progetto nazionalista rappresentato dal fascismo”, racconta Luzzato Voghera.
PUGNALATI ALLE SPALLE. Lapidi in onore dei caduti spuntarono sulle mura delle sinagoghe e nelle commemorazioni non mancava mai una presenza ebraica, quasi a lasciare intendere che l’antisemitismo era morto e sepolto. Addirittura il monumento commemorativo a Roberto Sarfatti venne inaugurato da Vittorio Emanuele III nel 1938. Pochi giorni dopo lo stesso sovrano firmò le leggi razziali. “Per il patriottismo ebraico fu un tradimento inaspettato e inspiegabile. Ancora nel 1940 molti ebrei fecero richiesta di arruolamento ma fu tutto inutile.” conclude Luzzato.
Per gli ebrei italiani il destino fu comune agli ebrei tedeschi, morti in diecimila per il kaiser e poi umiliati e uccisi da Hitler. Delle migliaia di vittime della Shoa in Italia, circa 250 furono i combattenti ebrei che vennero deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti. L’odio che infiammò l’Europa non risparmiò nessuno, nemmeno gli eroi.
Articolo in gran parte di Roberto Roveda pubblicato su Focus Storia n. 145. Altri testi e foto da Wikipedia.
Dal mito alla propaganda.
Come gli eroi e i caduti vennero strumentalizzati dal fascismo.
Consolidare il mito della Grande guerra e idealizzare la memoria dei caduti. A questo servirono i monumenti e i parchi della rimembranza che furono realizzati in tutta Italia dopo la fine del conflitto. Fu però il fascismo a usare tale mito a fini politici e di propaganda, per rafforzare il consenso intorno al nascente regime. Appena giunto al potere Mussolini volle standardizzare l’iconografia della memoria accentuando il tono nazionalistico e militaristico dei monumenti. A partire dagli anni ’30 si procedette allo smantellamento di moti piccoli cimiteri e si iniziarono a costruire decine di sacrari e ossari monumentali nei territori che erano stati teatro di guerra. E al loro interno vennero traslati i resti di migliaia di soldati. Furono realizzate opere architettoniche imponenti – a cominciare dalla principale, il Sacrario di Redipuglia – usando uno stile ispirati ai fasti dell’antico impero romano. Attraverso questi monumenti e realizzando una sorta di fascistizzazione postuma dei caduti, il regime cercò di porsi come l’ere degli eroi della Grande Guerra.
ENRICO TOTI. (1882-1916) prima di diventare un eroe della Grande guerra, Toti era stato il primo atleta paraolimpico della storia d’Italia. Nato a Roma, a 26 anni un gravissimo incidente sul lavoro gli costò l’amputazione dell’intera gamba sinistra. Tre anni dopo intraprese il giro del mondo con una bicicletta dotata di un solo pedale, da lui stesso modificata. Allo scoppio del conflitto cercò in tutti i modi di partecipare allo sforzo bellico dell’Italia, ma le sue domande di arruolamento vennero respinte a causa della grave menomazione. Partì lo stesso per il fronte e riuscì infine a farsi destinare al Comando di Cervignano del Friuli come volontario civile. Affrontò la vita di trincea come tutti gli altri e prese parte ai combattimenti sul Carso. Il 6 agosto 1916, durante la sesta battaglia dell’Isonzo, fu colpito a morte. Una famosa copertina della Domenica del Corriere lo ritrae mentre scaglia la sua stampella contro il nemico, poco prima di essere ucciso.
FRANCESCO BARACCA (1888-1918) Nato a Lugo (Ra) da una famiglia benestante, fu un asso dell’aviazione italiana, fiore all’occhiello della 91° Squadriglia di aerei da caccia che si rese protagonista di decine di epici combattimenti. Le circostante della sua morte sono ancora avvolte nel mistero: il 19 giugno 1918 cadde con il suo biplano sulle pendici del Montello nell’Alto Trevigiano, con ogni probabilità colpito da terra dalle postazioni austro-ungariche. A lungo gli storici si sono divisi sulla sua fine, arrivando a ipotizzare un suicidio e contribuendo così ad alimentare il mito.
NAZARIO SAURO (1880-1916) Nato in Istria da genitori italiani, fu fin da giovane un convinto sostenitore degli ideali mazziniani di indipendenza dei popoli. Su arruolò come volontario nella Marina italiana e guidò decine di incursioni sulle coste dell’Istria e del Quarnero a bordo dei sommergibili, prima di essere catturato dalle autorità austro-ungariche durante una missione al largo di Fiume. Condannato a morte per alto tradimento e impiccato a Pola il 10 agosto del 1916, è da allora considerato il principale martire dell’irredentismo istriano. Dopo la guerra il suo corpo fu persino riesumato per conservarne le reliquie. Dal ’47 la salma è al Tempio votivo (famedio) del Lido di Venezia, dedicato ai Caduti della Grande Guerra.
CESARE BATTISTI (1875-1916) DAMIANIO CHIESA (1894-1916) FABIO FILZI (1884-1916).
Nel 1916 questi tre irredentisti furono condannati a morte per alto tradimento e giustiziati nel Castello del Buoncosiglio (Tn). Nato a Trento già prima della guerra, Battisti, deputato socialista al parlamento di Vienna, si convinse che solo con le armi sarebbe stato possibile staccare il Trentino dall’Austria, e si arruolò come volontario nell’esercito italiano. Combatté contro le forze austro-ungariche e fu catturato sui fronti di guerra insieme ai suoi due compagni di lotta irredentista. Damiano Chiesa, nato a Rovereto, e Fabio Filzi, nato a Pisino in Istria. Le sue ultime parole prima di salire sul patibolo che Battisti pronunciò furono: Viva Trento italiana, viva l’Italia. Da allora i tre martiri sono considerati eroi nazionali dallo stato italiano.
I monumenti alla memoria.
1. SACRARIO MILITARE DI ASIAGO, 1936
Voluto dal fascismo nel 1932 e ultimato quattro anni dopo, raccoglie le salme di 54.000 caduti.
2. OSSARIO DEL MONTE CIMONE. (1929)
Tonezza del Cimone. Custodisce i resti di 1210 caduti (ignoti) ed è uno dei simboli della provincia di Vicenza.
3. SACRARIO MILITARE DI OSLAVIA.
Gorizia 1938. Custodisce le spoglie di 57741 soldati di cui 36000 morti nelle battaglie di Gorizia.
4. TEMPIO DELLA VITTORIA
Milano 1928. Complesso monumentale eretto in occasione del decennale della Vittoria contro gli austriaci.
5. OSSARIO DELLA CHIESA DELLA GRAN MADRE.
Torino (1932) Nella cripta della chiesa (uno degli edifici più famosi della città) sono ospitate
Le spoglie di oltre 3000 soldati.
6. TEMPIO DEL BASSANO DEL GRAPPA (1934). Sono tumulati in ordine alfabetico 5405 soldati italiani
7. SACRARIO MILITARE DEL MONTE GRAPPA.
Cresparo del Grappa 1935 Contiene 12615 salme di soldati italiani e 10295 di caduti austro-ungarici.
8. OSSARIO DEL MONTE PASUBIO.
Valli del Pasubio 1926. Sorge sul Colle di Bellavista a 1265 metri, e contiene le ossa di oltre 5146 soldati italiani e 40 austro-ungarici caduti durante i combattimenti sul monte Pasubio.
9. MONUMENTO ALLA VITTORIA.
Bolzano 1928. Progettato dall’architetto Marcello Piacentini e inaugurato il 12 luglio 1928 nell’anniversario della morte dell’irredentista trentino Cesare Battisti, è al tempo stesso un sacrario dedicato ai caduti e un concentrato di retorica fascista usata per italianizzare l’Alto Adige.
10 . TOMBA DEL MILITE IGNOTO.
Roma, P.zza Venezia 1921. La cerimonia di tumulazione dell’eroe senza nome, simbolo di tutti i soldati italiani caduti durante la Prima guerra mondiale, si tenne il 4 novembre 1921. Fu la più grande manifestazione patriottica dell’Italia unita.
11. SACRARIO DI REDIPUGLIA. Detto anche Sacrario dei Centomila, si trova nel comune di Fogliano Redipuglia (vicino a Gorizia), ed è il principale monumento italiano dedicato ai caduti della Grande guerra. Voluto dal regime fascista, venne realizzato su progetto dell’architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni e inaugurato il 19 settembre 1938 nell’ambito delle celebrazioni del ventennale della vittoria nel conflitto. Contiene le salme di oltre centomila soldati italiani ed è suddiviso in tre parti principali: una grande piazza con le targhe che ricordano i diversi luoghi di combattimento sull’Isonzo uno spazio con la tomba di Emanuele Filiberto duca d’Aosta e dei comandanti della Terza Armata e infine una gigantesca scalinata che raccoglie in ordine alfabetico le salme di circa quarantamila caduti identificati, il cui nome è inciso su una lastra di bronzo. In due grandi tombe comuni sono stati poi collocati i resti di quasi sessantamila caduti ignoti. Ogni loculo è sormontato dalla scritta PRESENTE ripetuta all’infinito, che richiama il rito dellappello caro al fascismo.
Articolo in gran parte di Riccardo Michelucci pubblicato su Focus Storia n. 145 altri testi e immagini da Wikipedia
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