lunedì 17 dicembre 2018

La guerra nel deserto.


La guerra nel deserto.
Fu una lotta spietata tra i disagi provocati dal caldo infernale e dalla sabbia che si insinuava ovunque, danneggiando i mezzi meccanici britannici, tedeschi e italiani combatterono per mesi in nord Africa.
Arretrati tecnologicamente e impreparati a uno scontro di tale portata, i nostri soldati riuscirono comunque dimostrare una grande tenacia.
Panzer III Afrikakorps.jpg

Panzer III dell'Afrikakorps durante la campagna del desertoData10 giugno 1940 - 13 maggio 1943LuogoAfrica SettentrionaleEsitoVittoria Alleata


Nel febbraio 1941 la guerra parallela immaginata da Benito Mussolini poteva già dirsi conclusa: l’Italia perdeva la propria libertà di azione e la facoltà di perseguire obiettivi strategici propri per divenire, suo malgrado, poco più di una pedina sulla scacchiera di Adolf Hitler.
Il 12 del mese, infatti, il generale Erwin Rommel era sbarcato a Tripoli, assumendo il comando delle truppe che l’alleato tedesco aveva inviato sul suolo africano e, contemporaneamente, anche la guida di fatto delle operazioni militari in quel teatro. Era l’inevitabile conseguenza di un processo iniziato molti anni prima. L’Italia fascista aveva raccolto e interpretato un diffuso quanto nebuloso sentimento di affermazione nazionale. Ambizioni di potenza che indussero il nostro Paese a un crescente protagonismo in politica estera, spesso tradottosi in conflitti intensi e prolungati. Gli anni Trenta furono per l’Italia anni dii guerra: a partire dalla “pacificazione” della Libia (conclusasi nel gennaio 1932), seguita dalla guerra di Abissinia  (ottobre 1934-maggio 1936) e, infine, dal coinvolgimento nella Guerra civile spagnola (luglio 1936-febbraio 1939), l’apparato militare italiano arrivò alla vigilia della Seconda guerra mondiale esausto e arenato su mezzi e dottrine arretrate. Avrebbe avuto bisogno di anni per prepararsi a un conflitto tra nazioni europee.
Il neoacquisto impero coloniale e le ambizioni italiane di accrescerlo avevano però ampliato le faglie del conflitto con Francia e Gran Bretagna. La prima occupava la Tunisia, territorio da sempre mira dell’espansionismo italiano. La seconda non solo controllava l’Egitto – chiudendo la Libia a est come a ovest tra due potenziali nemici – ma soprattutto contendeva all’Italia il dominio del Mediterraneo, presidiandone gli sbocchi oceanici a Gibilterra e a Suez, in particolare passava il collegamento tra l’Italia e le sue colonie dell’Africa Orientale: la chiusura del canale avrebbe inevitabilmente portato alla loro perdita. La difesa dell’Impero e l’ambizione di accrescerlo ulteriormente furono forse il fattore decisivo che spinse l’Italia all’alleanza con la Germania e di conseguenza, all’entrata in guerra contro la Gran Bretagna e la Francia. 


  1. Il maresciallo Rodolfo Graziani, successore del maresciallo Balbo


Combattere tra le dune. 

Un autoblinda AB41 del Regio Esercito in Nordafrica
Il deserto viene spesso descritto come l’ideale campo di battaglia delle truppe corazzate e motorizzate, per gli ampi spazi pianeggianti e l’assenza di grandi elementi geografici che ne ostacolino le rapide manovre. Ma se è vero che per questi motivi i mezzi a motore svolsero un ruolo decisivo nel teatro nordafricano, non si possono sottovalutare le terribili difficoltà materiali che anche i mezzi meccanici dovevano affrontare nel teatro nordafricano; a partire ovviamente dal clima che, con punte di 50 gradi e oltre, non schiantava solo gli uomini, ma poteva surriscaldare i motori fino a fonderli. Un’insidia altrettanto pericolosa era rappresentata proprio dal suolo sul quale i mezzi dovevano muoversi. La superficie del deserto, infatti, è costituita da due strati: un velo di sabbia finissima nasconde un fondo roccioso e accidentato. Il primo si solleva con il vento e con l’aria spostata dai mezzi e i suoi minuscoli granelli penetrano inesorabilmente nelle parti meccaniche inceppandole, nel sistema di distribuzione intasandolo, nell’impianto di raffreddamento bloccandolo. Sollevandosi, poi, quel leggero strato lasciava scoperta la seconda insidia: il fondo roccioso che massacrava sospensioni e treni di rotolamento. Gli equipaggi dei mezzi erano costantemente impegnati in operazioni di manutenzione, ma altrettanto essenziali erano le unità di recupero, il cui compito era quello di effettuare riparazioni sul posto o trainare nelle retrovie i mezzi che richiedevano operazioni più complesse. L’incognita che gravava sull’efficienza dei reparti era enorme e i comandati non avevano alcuna certezza sul numero di mezzi che sarebbero riusciti a portare in combattimento. E poi, banalmente, il deserto è il deserto: non c’è niente, e ogni minima cosa dipende dall’apparato logistico. Per avere un’idea delle difficoltà logistiche affrontate dai contendenti in Africa Settentrionale, basta ricordare che tra Tripoli e Alessandria d’Egitto ci son circa duemila chilometri, ovvero quasi il doppio della distanza che corre tra la Prussia orientale e Mosca.   


Prigionieri italiani catturati dai britannici durante la prima offensiva in Nordafrica del 1940-41.

LA GUERRA PARALLELA, ATTO PRIMO. L’attacco tedesco alla Francia il 10 maggio del 1940 colse l’Italia di sorpresa: Mussolini fu avvistato dell’inizio delle operazioni militari tedesche alle 5 di mattina di quello stesso giorno. Tuttavia, il dittatore ingoiò il rospo: era deciso a parteciparvi ugualmente, anche perché convinto che sarebbe stata una guerra breve. I fatti sembrarono dargli ragione. In sei settimane di blitzkrieg, le armate tedesche sconfissero quelle francesi e costrinsero all’evacuazione di Dunquerk quelle britanniche. La fine della Seconda guerra mondiale sembrava imminente, perché Hitler programmava di invadere la Gran Bretagna con l’operazione Seelowe (Leone marino). Per l’Italia si prospettava un’occasione strategica irripetibile per invadere l’Egitto, in quello che nelle intenzioni di Mussolini sarebbe stato il primo atto della guerra parallela, ovvero condotta in piena indipendenza dall’alleato germanico, seppure contro un nemico comune. La Tunisia non rappresentava più una minaccia, visto che il Paese era in mano al governo francese collaborazionista di Vichy, mentre la Gran Bretagna sarebbe stata impegnata a difendere la propria isola con ogni risorsa disponibile.
In realtà, l’operazione Seelowe era un progetto irrealizzabile, e l’Italia commise un grave errore strategico a farvi affidamento. Le contraddizioni della guerra parallela, indipendente in teoria, ma in pratica già vincolata alle decisioni strategiche di un alleato che si stava rivelando poco affidabile, potevano essere risolte solo passando all’offensiva in Africa settentrionale.
Il 28 giugno 1940, Italo Balbo, governatore della Libia, venne abbattuto per errore dalla contraerea italiana mentre era in volo su Tobruch. Il suo incarico fu assunto dal maresciallo Rodolfo Graziani, militare di carriera con precedenti esperienze di alto comando sia in Libia sia nella guerra di Etiopia. A sua disposizione circa 220mila uomini divisi in due armate: la V, schierata con 8 divisioni al confine tunisino, e la X, con 6 divisioni, fronteggiava l’Egitto. Graziani era a dir poco scettico sull’eventualità di passare all’offensiva, come prima di lui era stato Balbo. L’imponente numero di truppe non poteva nascondere la loro impreparazione alla guerra moderna e tanto meno in un teatro desertico. La carenza maggiore riguardava i mezzi corazzati e i veicoli per la logistica, che avrebbe dovuto alimentare lo sforzo bellico in ogni sua esigenza e rendere mobili le fanterie. Ma anche l’addestramento delle truppe lasciava desiderare, il loro equipaggiamento era incompleto e datato, e, nonostante numeri roboanti, le unità erano persino gravemente sotto organico. La Libia, inoltre, non produceva praticamente nulla e ogni esigenza degli uomini sul terreno doveva essere soddisfatta con le importazioni via nave dalla madrepatria, esposte dunque al rischio della potenza aeronavale nemica.
Le forze britanniche in tutta l’area mediorientale assommavano a 100mila uomini, al comando del generale Archibald Wavell, ma alla difesa dell’Egitto era destinata solo la Western Desert Force: due divisioni, una delle quali corazzata, per complessivi 35mila uomini. Poche truppe ma perfettamente addestrate alla guerra nel deserto, ben equipaggiate, meglio comandate. Al contrario degli italiani, potevano contare su un apparato logistico efficiente, su mezzi di trasporti in abbondanza, e persino su una produzione industriale e agricola locale in grado di soddisfare alcune esigenze primarie. In queste condizioni, un’invasione era, se non compromessa in partenza, almeno molto svantaggiata, ma Mussolini era deciso: per ragioni eminentemente di opportunità politica, l’attacco doveva avvenire.


 Alti ufficiali britannici catturati dai tedeschi: a sinistra il generale John Combe, al centro il generale Philip Neame e a destra il generale Richard Gambier-Parry; dietro a Neame si scorge il generale Richard O'Connor.


Le forze armate del nostro Paese.
Il Regio esercito italiano non era pronto nel 1940 ad affrontare una guerra moderna, tanto meno in un ambiente ostile come il deserto nordafricano. Molte carenze strutturali pesarono per tutta la durata del conflitto. Il sistema industriale italiano era nel complesso troppo arretrato rispetto alle maggiori nazioni europee. I materiali forniti al REI erano sempre quantitativamente inferiori alle necessità e spesso anche tecnologicamente un passo indietro rispetto a quelli prodotti dagli avversari e dall’alleato tedesco. Questo ritardo socioeconomico si traduceva anche nella scarsità di specialisti, come autisti, meccanici e personale medico. A ciò si potrebbero aggiungere gli errori, spiegando così i rovesci subiti nei primi mesi di guerra. Quello che sorprende oggi, come ieri sorprese i britannici, fu la rapida reazione all’onta di 9 divisioni distrutte in poche settimane. Il senso di abbandono, l’avvilimento per l’inferiorità materiale e una certa sicumera degli alleati tedeschi si tradussero nella convinzione che ogni minimo successo fosse dovuto, come in effetti lo era, alla qualità umana del soldato italiano, alla sua capacità di sacrificio, alla sua voglia di farcela comunque. Le unità superstiti vennero riorganizzate e ripresero la lotta con tenacia e orgoglio. Lo spirito di corpo e la solidarietà tra gli uomini divennero molto alte, in particolare nelle unità con addestramento più accurato, carristi, bersaglieri, paracadutisti, artiglieri, le più preparate al combattimento. Le divisioni corazzate e meccanizzate e le unità di fanteria aggregate all’Afrika Korps, dovendo agire in stretta collaborazione con l’alleato, ne avevano assimilato le tattiche più moderne ed efficaci di quelle britanniche.   



 Truppe britanniche durante l'assedio di Tobruk.

OPERAZIONE COMPASS. Dopo aver tergiversato a lungo, un Graziani a dir poco riluttante attraversò il confine con l’Egitto il 13 settembre 1940, interrompendo la sua avanzata dopo 80 chilometri a Sidi el Barrani, che distava circa 130 da Marsa Matrub, dove le forze britanniche erano attestate. In quei giorni la battaglia d’Inghilterra stava raggiungendo il suo apice e il pericolo di un’invasione tedesca era ancora incombente. Appena un mese dopo, la minaccia dell’operazione Seelowe era però evaporata e il governo britannico guidato da Winston Churchill iniziò a inviare rinforzi a Wavell. In dicembre, 126mila uomini del Commonwealth arrivarono in Egitto: britannici, australiani, neozelandesi e indiani. Anche il bilancio dei numeri si stava equilibrando e Wavell decise che era il momento di passare al contrattacco con l’Operazione Compass.
Le truppe italiane erano ferme da più di tre mesi a Sidi el Barrani. Graziani attendeva altri rinforzi per riprendere l’offensiva, in particolare i tanto necessari carri armati e autocarri. Nel frattempo aveva schierato le sue divisioni sulla fascia costiera in campi trincerati. Per un comandante della sua esperienza non era certo una decisione brillante, perché in questo modo, oltre ad annullare completamente la mobilità già scarsa delle sue unità consegnava al nemico il proprio indirizzo di casa. Wavell ne approfittò per studiare a fondo il dispositivo italiano, ne individuò i punti deboli, primo fra tutti l’eccessiva distanza fra i campi che impediva agli italiani di supportarsi vicendevolmente e lasciava aperti ampi corridoi nei quali si poteva avanzare in profondità. Il 9 dicembre la Western Desert Force attaccò Sidi el Barrani: una divisione di fanteria indiana  (poi sostituita da una divisione australiana) e la 7a divisione corazzata, i Desert Rats, comandata dal generale Richard O’Connor. Uno dopo l’altro i campi italiani vennero travolti con una specie di effetto domino. la loro resistenza iniziale fu accanita, ma i britannici, grazie alla loro mobilità, potevano concentrare le proprie forze su un obiettivo alla volta. La fanteria della divisione indiana contava sul potente sostegno dei lenti ma inarrestabili carri Matilda I e II, mostri rispettivamente da 11 e 27 tonnellate, la cui corazzatura resisteva ai colpi di artiglieria controcarro italiana, ma si sarebbe rivelata difficile da penetrare anche per i tedeschi Panzer III e IV. Nel frattempo i Desert Rats potevano spingersi in veloci manovre di aggiramento.
Era solo l’inizio. Graziani fu costretto a ripiegare disordinatamente in territorio libico, inseguito dai britannici che il 3 gennaio 1941 ottennero una nuova vittoria a Bardia e il 22 conquistarono l’importante porto di Tobruch. La guerra in nord Africa si era trasformata in una corsa impari: gli italiani si ritiravano marciando lungo la via costiera, O’Connor e suoi mezzi meccanizzati procedevano direttamente all’interno della Cirenaica per tagliare loro la strada. La trappola si chiuse a Beda Fomm il 7 febbraio: in appena tre mesi la Western Desert Force era avanzata 800 chilometri, avevano distrutto 10 divisioni italiane e catturato 130mila prigionieri, al costo di 555 morti e circa 1400 feriti.

Mezzi motorizzati e corazzati dell'Afrikakorps in movimento nel deserto


L’AFRICA KORPS E LA VOLPE DEL DESERTO. Gli italiani avevano virtualmente perso la Libia: quando Wavell fosse riuscito a riorganizzare le sue forze e sistemare qualche problema logistico, poco o nulla si poteva fare per impedirgli di arrivare a Tripoli. Se gli italiani, ormai, sembravano destinati alla sconfitta, due cruciali decisioni vennero in loro soccorso: Mussolini aveva infatti accettato l’offerta di aiuto tedesco e i primi contingenti di quello che sarà l’Africa Korps iniziavano a sbarcare in Libia. Forse, però, questo aiuto sarebbe stato tardivo e insufficiente se Churchill non avesse deciso di trasferire molte delle truppe di Wafell in Grecia, contro la quale  l’Italia aveva aperto, in modo decisamente sventato, un secondo fronte della sua guerra parallela. In Libia rimasero solo 5 brigate e i britannici furono costretti ad interrompere l’offensiva. Erwin Rommel era un generale di grande intuito tattico e di abilità di manovra fuori dal comune. Aveva dimostrato a sufficienza queste sue qualità già durante la Prima guerra mondiale partecipando all’offensiva austro-tedesca a Caporetto. Come comandante, nonostante lo scetticismo degli altri alti ufficiali tedeschi che ne sottolineavano la provenienza dalla fanteria di montagna. Non era un uomo con il quale fosse difficile collaborare e gli alti comandi italiani se ne accorsero ben presto, ma, a differenza dei suoi superiori, al quartier generale di Hitler, aveva compreso l’importanza di vincere in Africa settentrionale, se si voleva assestare un colo al valore strategico della Gran Bretagna. Arrivare ad Alessandria d’Egitto e al Canale di Suez divenne la sua ossessione, il motivo delle sue vittorie e allo stesso tempo delle sue sconfitte.
 In poco più di un mese, quando l’Africa Korps era costituito ancora da una sola divisione, Rommel ritenne di essere pronto per passare all’offensiva. Il 24 marzo saggiò le difese di El Agheila, prendendo subito le misure del nemico e puntando decisamente, nonostante le raccomandazioni di Hitler di mantenere un atteggiamento difensivo. Il 10 aprile le armate italo-tedesche erano già a Tobruch. Neppure in questa situazione Rommel ritenne fosse il caso di fermarsi, divise le sue forze destinandone una parte all’assedio della città e proseguendo con l’altra ad esercitare pressione sui britannici. Rommel era ansioso di riportare la guerra in Egitto e il 14 aprile raggiunse Sollum occupando l’importante posizione strategica del passo di Halfaya. Era uno scacco difficile da sopportare e i britannici passarono al contrattacco: il 15 maggio lanciarono l’operazione Brevity; il passo di Halfaya fu ripreso, ma i cannoni antiaerei tedeschi da 88 mm usati in funzione anticarro, in combinazione con l’abile gestione tattica dei carri armati di Rommel, fecero pagare un prezzo altissimo agli assalitori e un contrattacco tedesco ben programmato riuscì a riconquistare la posizione. Esattamente un mese dopo, il 15 giugno, i britannici ci riprovarono con l’operazione Battleaxe, ma la sorte della battaglia fu identica alla precedente. Surclassato dall’abilità tattica di Rommel, Wavell venne destituito e rimpiazzato dal generale Claude Auchinleck.


Il generale Alan Gordon Cunningham, comandante dell'8ª Armata britannica.

OPERAZIONE CRUSADER, LA VITTORIA DI PIRRO. Vittoriose ma esauste, le forze italo-tedesche non poterono sfruttare il successo:  negli stessi giorni di Battleaxe era infatti scattata l’operazione Barbarossa, l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica. Nei piani strategici dell’alto comando tedesco, l’Africa settentrionale era diventato uno scenario più che secondario, addirittura residuale: non c’erano e non ci sarebbero stati i mezzi e le risorse per sostenerlo con gli adeguati rinforzi. Ancora una volta l’Italia doveva rimarcare l’inaffidabilità dell’alleato tedesco.
L’estate e l’inizio dell’autunno del 1941 trascorsero così senza attività militari di rilievo, dando il tempo ai britannici di preparare una nuova offensiva, che sarebbe stata denominata operazione Crusader. Il generale Alan Cunnigham fu posto al comando di quella che prese il nome di 8a Armata: una forza di 700 carri armati, 1000 aerei e 8 divisioni rinforzate, contro le quali gli italo-tedeschi potevano opporre 414 carri, 320 aerei e 9 divisioni, di cui 6 italiane.
L’attacco britannico scattò il 18 novembre con una direttrice contro il passo di Halfaya e una seconda puntata offensiva che intendeva aggirare a sud lo schieramento italo-tedesco per liberare Tobruch. La prima parte del piano ebbe successi e i difensori di Halfaya si trovarono circondati. Non così la seconda parte che incontrò la resistenza della divisione corazzata Ariete, al suo primo vero appuntamento con la battaglia e la vittoria. Dopo giorni di intensi combattimenti, Cunnigham, sfiduciato, chiese di interrompere l’offensiva. Auchinleck era però di opinione contraria, sostituì Cunningham con un nuovo comandante, il generale Neil Ritchie, contando sul fatto che in quella disperata battaglia di attrito, i numero preponderanti delle truppe al suo comando avrebbero avuto finalmente ragione. Così fu, e Rommel dovette ripiegare in Cirenaica. La Volpe del Deserto aveva corso un rischio troppo alto, ma il successo di Crusader si rivelò per i britannici una vittoria di Pirro.


 Un carro britannico Crusader supera i resti di un Panzer IV distrutto.

Strategia in Africa settentrionale.
Come si svolsero tre scontri fondamentali.
L’operazione Compass 8 dicembre 1940-9 febbraio 1941

La X armata attraversò il confine il 13 settembre 1940 e tre giorni dopo raggiunse Sidi el Barrani, attestandosi in cinque campi fortificati. Il 9 dicembre la Western Desert Force guidata dal generale Archibald Wavell contrattaccò con l’Operazione Compass. Il successo fu rapido e ottenuto approfittando del pessimo schieramento della X Armata, e causò un disordinato ripiegamento delle forze italiane che venne sfruttato nelle battaglie di Sidi el Barrani e di Tobruch e si concluse con la morsa di Beda Fomm il 5 febbraio 1941.
In dicembre 126mila uomini del Commonwealth arrivarono in Egitto: britannici, australiani e indiani. Anche il bilancio dei numeri si stava equilibrando e Wavell decise che era il momento di passare al contrattacco con l’operazione Compass.
Battaglia di Ain El  Gazala 4 febbraio – 13 giugno 1942

Questa lunga battaglia fu il più eclatante successo di Rommel. I britannici avevano allestito una potente linea difensiva da Gazala a Bir Hacheim. Le armate italiane la investirono frontalmente, mentre le divisioni corazzate italo-tedesche si lanciarono in una temeraria manovra di aggiramento. Dopo aver resistito ai furiosi contrattacchi britannici, Rommel riconquistò Tobruch e si lanciò poi all’inseguimento degli avversari, attestatasi a Marsa Matruh. Anche quell’ostacolo fu superato e i britannici dovetto ripiegare fino a El Alamein. 
El Alamein 1 luglio - 3 novembre 1942
El Alamein fu il teatro di lunghi mesi di combattimenti, duranti i quali le forze dell’asse di logorarono nel vano tentativo di sfondare le linee difensive nemiche.



L’ultima e decisiva battaglia si svolse tra il 23 ottobre e il 3 novembre 1942.  Con un rapporto di forze a proprio favore di 2 a 1, il generale Bernard Montgomery passò decisamente all’offensiva, travolgendo le difese  nemiche. Le poco mobili unità italiane furono sacrificate in una disperata difesa statica per consentire il ripiegamento delle truppe meccanizzate.  
La prima vittoria dell’Ariete: la battaglia di Bir El Gubi 19 novembre 1941.

Nel novembre del 1941 Rommel progettava una nuova offensiva per Tobruch e quindi permettere un più agevole proseguimento della sua corsa verso Alessandria. Il generale tedesco era convinto di aver talmente intimidito i britannici da averne spento ogni velleità aggressiva. Meno ottimista, o forse più realista, il comandante in capo delle forze italiane in Nord Africa, generale Ettore Bastico, e soprattutto il comandante del XX corpo d’armata italiano, generale Gastone Gambara, che aveva notato l’intensificarsi dell’attività nemica sul fianco sud italo-tedesco. Rommel rassicurò Gambara che un attacco britannico non era imminente e si limitò ad invitarlo a vigilare. Gambara seguì però il suo istinto e mise in stato di massima allerta le truppe al suo comando. L’operazione britannica Crusader scattò il 18 novembre: il XIII Corpo d’Armata avrebbe attaccato lungo la costa  per attirare Rommel in una trappola, che sarebbe stata chiusa da una manovra di aggiramento del XXX corpo d’Armata. Di quest’ultimo, la 22a brigata corazzata costituiva l’elemento di manovra più esterno, con l’importante compito di proteggere il fianco all’attacco principale diretto contro l’Afrika Korps, e quindi di colpirlo sul fianco. Sul suo cammino, a Bir el Gubi, c’era solo l’ostacolo della divisione corazzata italiana Ariete e, visti i precedenti, i britannici lo ritennero un dettaglio trascurabile. Il 19 novembre i 150 carri della brigata britannica avanzarono in formazione ordinata contro Bir el Gubi. Intorno al villaggio, i tre battaglioni di bersaglieri della divisione Ariete stavano modificando il proprio schieramento difensivo: sul fianco destro i carri britannici riuscirono a passare, ma vennero respinti dall’artiglieria italiana. Su quello sinistro la penetrazione ebbe maggiore successo e i britanni proseguirono la loro avanzata. I 130 carri della divisione italiana, però, li contrattaccarono con decisione e li respinsero con gravi perdite. Il valore dell’Ariete non fu mai più messo in dubbio.   

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Fanti della 9ª Divisione australiana, Libia, 1941

LA RESA DI TOBRUCH.  Il 21 gennaio 1942  Rommel lanciò una controffensiva: sorpresi i britannici si ritirarono di quasi 500 chilometri in pochi giorni, fermandosi il 4 febbraio su una linea difensiva tra Gazala e Bir Hacheim. Ancora una volta la battaglia finì per esaurimento delle forze. Sarebbe ripresa il 26 maggio quando Rommel diede avvio all’Operazione Venezia. Le armate contrapposte erano di entità comparabile, ma Ritchie aveva disperso le sue unità su un’aerea troppo ampia e Rommel seppe approfittarne, lanciandosi in un’ampia manovra di aggiramento a sud, mentre a nord un secondo elemento di manovra impegnava frontalmente il nemico. A decidere la vittoria sarebbero stati l’abilità tattica delle unità in combattimento, la qualità e la quantità dei mezzi, lo spirito di sacrificio degli uomini. Questa volta i protagonisti furono gli italiani della divisone Trieste. Rommel aveva spinto i suoi panzer alle spalle delle linee britanniche e il 28 maggio iniziò a trovarsi in gravi difficoltà. L’8a armata aveva ricevuto i primi carri Grant americani che sorpresero i tedeschi per la loro potenza e corazzatura. Solo i semoventi italiani da 75/18 erano in grado di contrastarli e i tedeschi si salvarono per l’intervento della Trieste, il giorno 29, che aprì un varco nelle difese britanniche. Rommel radunò le truppe superstiti in una posizione difensiva a semicerchio, che per la sua forma prese il nome di calderone, e respinse uno dietro l’altro i tentativi di sfondamento di Ritchie. Logorati da giorni e giorni di combattimenti infruttuosi, i britannici non resistettero al contrattacco di Rommel dell’11 giugno e, ancora una volta, furono respinti in Egitto A Marsa Matruh. Dieci giorni dopo anche Tobruch fu costretta alla resa, consegnando agli italo-tedeschi, tra i tanti materiali, anche duemila tonnellate di preziosismo carburante, che Rommel impegnò immediatamente. Con gli ultimi 60 carri che aveva a disposizione avanzò su Marsa Matruh e in tre giorni di combattimenti mise in rotta i resti di quattro divisioni britanniche, seminando il panico al Cairo dove si iniziò addirittura a preparare l’evacuazione degli uffici bruciando i documenti sensibili per evitare che cadessero in mano nemica. In realtà Auchinleck aveva già individuato un altro tatto di deserto, 200 chilometri ancora più indietro, per fermare definitivamente Rommel: El Alamein.

Equipaggi britannici salgono a bordo dei nuovi carri armati M4 Sherman.

IL DESERTO CHE INGHIOTTI’ L’ASSE. Un villaggio di poche anime, sede di una stazione ferroviaria, senza alcuna importanza se non quella di sorgere là dove la Depressione di Qattara giungeva più vicina alla costa, formando un corridoio largo appena 60 chilometri: questo era El Alamein: qualunque mezzo meccanico avesse provato ad attraversarlo, era invalicabile. Tra esse e il mare, una serie di rilievi rocciosi di poche decine di metri dominavano per ampio raggio il piatto territorio circostante: due in particolare, le creste di Ruweisat e Alam el Halfa, sarebbero state al centro della battaglia che avrebbe deciso le sorti del conflitto. Nell’insieme El Alamein era una fortezza naturale, che i britannici avevano avuto il tempo di rinsaldare ulteriormente con solide opere difensive e campi minati. Rommel raggiunse la posizione il 1° luglio 1942. Seguirono tre settimane di intensi combattimenti, ma l’apparato difensivo disposto da Auchinleck, dinamico e sempre pronto al contrattacco, alla fine resse. Decisivo fu l’apporto della Royal Air Force che disponeva di oltre 1500 veicoli contro gli scari 500 dell’avversario. Ma era solo il primo atto di un confronto che sarebbe durato mesi.
Auchinleck aveva assestato un colpo durissimo ai piani di Rommel, ma comunque qualcuno doveva pagare per il rischio corso e Churchill lo sollevò dal comando, rimpiazzandolo con il generale Harold Alexander. La guida dell’ottava Armata fu assegnata al generale William Gott. Questi, però, mentre volava verso il suo incarico, fu abbattuto e ucciso dai caccia tedeschi, e il suo posto venne assegnato al generale Bernard Montgomery, che assunse il comando il 13 agosto. Uomo dal carattere spigoloso e accentratore, Montgomery era però carismatico, energico e organizzatore meticoloso: le truppe britanniche furono rivitalizzate dal suo arrivo. I lavori di rafforzamento della posizione, secondo i piani già predisposti da Auchinleck, ripresero con alacrità, e nuovi rinforzi vennero a sostituire le gravi perdite del mese precedente.
Il 31 agosto Rommel lanciò l’offensiva che nelle sue intenzioni avrebbe portato le sue truppe sul Nilo. Ancora una volta i rapporti di forze erano a deciso vantaggio del suo avversario: la metà degli uomini (100mila contro 200mila), la metà dei carri (550 contro 1000). Preoccupante soprattutto la disponibilità di carburante, dalla quale dipendevano le manovre ad ampio raggio che costituivano la peculiarità tattica del comandante tedesco: le cifre sono discordanti, ma è certo che i britannici ne avevano in abbondanza e che la loro linea logistica non era mai stata così breve, mentre quella italo-tedesca si allungava per 900 chilometri fino a Bengasi e doveva essere percorsa di notte per limitare i danni dei bombardamenti aerei. Rommel era vittima ancora una volta della sua irruenza, ma sempre determinato a tentare il tutto per tutto per sfondare il dispositivo nemico. Ruweisar e Alam el Halfa furono al centro di feroci combattimenti: in particolare questo secondo sperone roccioso fu oggetto di un ultimo disperato attacco frontale da parte degli unici carri tedeschi con sufficiente carburante nei serbatoi per essere operativi. La superiorità numerica e la qualità dei mezzi ebbero la meglio, ma Montgomery non seppe approfittare del successo, contrattaccando con solo due brigate di fanteria neozelandese, che vennero respinte con gravi perdite.
Era comunque il punto di svolta della campagna del Nord Africa; dopo 26 mesi di combattimenti le sorti del conflitto non sarebbero state più messe in discussione. La terza e ultima battaglia di El Alamein avrebbe definitivamente rimosso il pericolo che fino ad allora incombeva su Alessandria e sul canale di Suez. Il 23 ottobre del 1942 i rapporti di forza tra le armate contrapposte erano schiaccianti quanto mai prima: l’8a armata aveva ricevuto i nuovissimi carri americani Sherman, che conobbero il battesimo del fuoco proprio in questa occasione. A nulla valsero le prove di valore passate alla storia, come la resistenza offerta dalla divisione Folgore. Il 4 novembre le armate italo-tedesche iniziarono una ritirata che non si sarebbe più fermata.


Prigionieri italo-tedeschi catturati a El Alamein.



La battaglia di Kasserine.
Truppe americane sbarcano vicino ad Algeri l'8 novembre 1942.


L’inizio del 1943 vedeva le forze italo-tedesche del Nord Africa ridotte in Tunisia, strette in una fascia di territorio che dalla costa arrivava a ovest fino alla dorsale tunisina orientale dell’Atlante, mentre a sud giungeva alla linea fortificata di Mareth, allestita dai francesi al confine con la Libia contro un’eventuale aggressione italiana. Dall’8 novembre 1942, con gli sbarchi in Marocco e Algeria dell’operazione Torch, le truppe statunitensi erano al fianco dei   britannici sul teatro nordafricano. Forze fresche e molto ben equipaggiate, anche se inesperte, con il cui contributo gli alleati si preparavano a passare all’offensiva. Le loro basi logistiche erano riparate da una catena montuosa più interna, la dorsale occidentale, attraversabile solo in pochi stretti passaggi, tra i quali uno era destinato a diventare famoso: il passo di Kasserine. Qui Rommel tra il 19 e il 25 febbraio 1943 ottenne la sua ultima vittoria in terra d’Africa: un successo limitato, ma che riuscì a scompaginare l’avanzata alleata e a rinviare l’invasione dell’Italia. Il generale tedesco ancora una volta si dimostrò un tattico spregiudicato, capace di approfittare delle debolezze dell’avversario, in questo caso dell’inesperienza delle truppe e dei comandanti americani. La loro reazione a un risoluto attacco di sorpresa, agli occhi di Rommel, era prevedibile: avrebbero perso il controllo generale della situazione e sarebbero stati incapaci di controllarla. La piana antistante il passo di Kasserine fu teatro di scontri durante i quali i veterani italiani e tedeschi poterono mettere a frutto la loro tattica superiore e il passo di Kasserine fu preso con un attacco combinato frontale e sulle pendice ai suoi fianchi, al quale parteciparono distinguendosi i bersaglieri italiani. Lo sfondamento però non ottenne l’auspicata profondità, arenandosi contro inattesi e tenaci focolai di resistenza appoggiati da uno schiacciante potere di fuoco d’artiglieria. Gli americani si erano dimostrati capaci di compensare la loro inesperienza con   una sorprendente rapidità di apprendimento.


    
Articolo in gran parte pubblicato su Storie di guerre e guerrieri extra n. 1 Sprea Editori. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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