lunedì 17 dicembre 2018

Uniti fino alla morte. Il destino delle falange.

Uniti fino alla morte. Il destino delle falange.
Combattere nelle fila di un esercito falangitico era coraggio anche degli uomini più abili e risoluti. Erano richieste doti come disciplina e spirito di corpo. Ma più di ogni altra cosa bisognava saper dominare la paura.





Ricostruzione della falange oplitica greca. In realtà l'equipaggiamento dei soldati non era uniforme, tranne che a Sparta, dato che ognuno doveva procurarsi da solo le armi e decorarle
La falange è un'antica formazione di combattimento composta da fanteria pesante i cui soldati sono armati di lance o picchescudi e spada.
Tipica del mondo greco ed ellenistico, venne adottata anche da altri popoli che ne modificarono le caratteristiche e le funzioni fino all'epoca rinascimentale, dove con l'avvento delle armi da fuoco perse di importanza.
La più antica raffigurazione di una formazione a falange si trova in una stele sumera, dove le truppe di Lagash sembrano armate con lance, elmi e larghi scudi che coprivano tutto il corpo; anche la fanteria egizia utilizzò questo tipo di tattica militare. Tuttavia, gli storici non sono riusciti ad accordarsi sul fatto se esista o meno una relazione tra la formazione greca e questi esempi precedenti.
Certo è che la compattezza della falange greca venne utilizzata negli eserciti mercenari fin dai tempi del faraone Psammetico I. Successivamente, però, essa subì numerose modifiche, fra cui la più popolare fu quella che generò la falange macedone.

Per quasi sei secoli la falange oplitica greca (VII-IV) secolo a.C.) e poi macedone (IV-II secolo a.C.) dominò i campi di battaglia del mondo conosciuto, rivoluzionando completamente il modo di guerreggiare precedente. Vederla schierata sui campi di battaglia, pronta ad attaccare, era una visione non adatta ai deboli di cuore o ai codardi. E la sensazione di panico cheera capace di generare era paralizzante. La letteratura greca è ricca di riferimenti in tal senso. Descrivendo una carica di opliti, Plutarco scrive: “Era uno spettacolo grandioso e insieme terrificante vederli avanzare a passo cadenzato dai flauti senza aprire la minima frattura nello schieramento o provare turbamento nell’animo, calmi e allegri, guidati al pericolo della musica”. Ma come si arrivò a sperimentare una simile tecnica?

In alto: Ordine di battaglia oplitico e avanzata.
In basso: La tattica di Epaminonda a Leuttra. L'ala sinistra rinforzata avanza mentre la destra più debole si ritira o segna il passo. I blocchi in rosso indicano il posizionamento delle truppe di élite nello schieramento.

IL DURO MESTIERE DELLE ARMI. “I Greci delle città stato furono i primi uomini sulla Terra a impegnarsi tra loro, in quanto uguali, a combattere il nemico spalla contro spalla senza temere le ferite e non cedere il terreno su cui combattevano, finché il nemico non fosse in rotta o essi stessi non fossero morti durante il combattimento”, ha scritto lo storico John Keegan. Quando e in quale parte della Grecia si sia imposto questo modo di combattere ancora oggi resta un dilemma. Si può solo dire con una ragionevole certezza che, a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C., i Greci decisero di rivoluzionare il loro modo di fare la guerra: se in epoca micinea (1500-1200 a.C.) a scendere in campo in scontri individuali erano le élite aristocratiche, successivamente si affermarono compagini cittadine in formazioni chiuse. Un cambiamento epocale simboleggiato dall’oplon, un pesante scudo rotondo (da cui il termine oplita) ben diverso da quello in cuoio a forma di otto che aveva caratterizzato i secoli precedenti. Con esso non mancava un equipaggiamento che prevedeva elmo, corazza, gambali  e lancia. Ancora oggi si discute se sia stata la scelta dell’oplon a determinare l’adozione di una tattica falangista o viceversa, ma comunque sia andata, a partire da un dato momento tutte le polis si identificarono con questo modo di combattere. E non fu certo un cambiamento semplice. Questi uomini, durante le torride estate greche, erano costretti a indossare un panoplia che poteva pesare di ventidue ai trentacinque chili. Un fardello che, per forza di cose, gravava sulla loro tenuta fisica. Non va dimenticato infatti che, spartani a parte (nascevano votati alla guerra e si addestravano esclusivamente a tale compito), la maggior parte degli opliti erano contadini o cittadini prestati solo temporaneamente al mestiere delle armi. A confermare la difficoltà di quei guerrieri sono stati due ricercatori della Pennsylvania State University (Walter Donlan e James Thompson) che hanno riprodotto, grazie ad alcuni volonterosi studenti, la carica dei Greci a Maratona (oltre un chilometro e settecento metri) contro i Persiani (490 a.C.) “è importante rilevare che per coprire la distanza prescritta con lo scudo all’altezza del torace è stato necessario un incremento medio del 28% del dispendio energetico per ciascun soggetto. L’esperimento ha dimostrato inoltre che il peso e le dimensioni dello scudo erano i fattori critici. Lo scudo dell’oplita, che doveva pesare otto chilogrammi, poteva essere portato solo isometricamente (il muscolo si contrae senza modificare la sua lunghezza), e il considerevole stipendio di energia limita nettamente la distanza per la quale i soldati sono in grado di sostenere uno solo è riuscito a percorrere la distanza completa, arrivando ancora abbastanza fresco da poter sostenere un ipotetico combattimento. Due invece non sono riusciti a coprire tale distanza.





Oplita spartano
L'oplita (o oplite; in greco anticoὉπλίτηςhoplìtes), al plurale opliti, era un soldato della fanteria pesante dell'antica Grecia.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

L'armatura completa di un oplita "tipo", definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, in greco kranos (famoso il modello corinzio, preferito dalle popolazioni doriche, ma diffusi anche modelli meno protettivi, e al contempo meno limitanti per la vista e l'udito come il calcidico, l'attico e il beotico), da una corazza in lana o lino e cuoio lavorati (linothorax) che proteggeva efficacemente dalle frecce o da delle corazze più elaborate in bronzo (le thorax in epoca arcaica diffuse erano quelle "a campana", più costosi e, inizialmente più rari, i torax "anatomici"), da schinieri in bronzo (molto scomodi, per questo non sempre usati o utilizzati solo sulla più esposta gamba destra, spesso sostituiti da schinieri in cuoio o da un'ocrea), da una corta spada in ferro (xiphos, anche se in età arcaica pre falangitica erano utilizzati molti tipi di lama, inclusi il kopis e la makhaira, in seguito proprie della cavalleria), da una lancia (dory) ed infine da uno scudo bronzeo rotondo (hoplon) fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo (antilabē).
In verità era lo scudo che definiva l'oplita, non tutti gli opliti disponevano di una panoplia completa (specie il thorax era molto costoso), ma se utilizzavano lo scudo rotondo hoplonerano opliti. Il termine però può essere talvolta (specie nella Beozia arcaica) anche associata a delle fanterie pesanti armate di scudi a dipylon, simili per molti versi a degli hoplonalleggeriti e ridotti di dimensione, e che, in beozia ("scudo beota") rimasero popolari nei combattimenti a ranghi più aperti. Questo tipo di scudo, che consentiva una tenuta molto salda in posizione di difesa contro gli assalitori, costituì un'innovazione decisiva e sembra da mettere in relazione con il sorgere della falange, formazione compatta di combattenti che con gli scudi si coprivano a vicenda.
L'innovazione consisteva nelle dimensioni dello scudo, che variavano dai 60 cm ai 90 cm, sufficienti a proteggere le parti del corpo più vulnerabili. Inoltre lo scudo era munito di una correggia di cuoio, per permettere anche alle spalle di sostenerne una parte del peso, di un'altra correggia in lino da fasciare sull'avambraccio e da una manopola sul bordo in cui si saldava la mano. Lo scudo non era solo un'arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti in caso di rottura o perdita del dory e dello xiphos.


Oplita spartano
L'oplita (o oplite; in greco anticoὉπλίτηςhoplìtes), al plurale opliti, era un soldato della fanteria pesante dell'antica Grecia.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

L'armatura completa di un oplita "tipo", definita con il termine panoplia, era costituita da un elmo, in greco kranos (famoso il modello corinzio, preferito dalle popolazioni doriche, ma diffusi anche modelli meno protettivi, e al contempo meno limitanti per la vista e l'udito come il calcidico, l'attico e il beotico), da una corazza in lana o lino e cuoio lavorati (linothorax) che proteggeva efficacemente dalle frecce o da delle corazze più elaborate in bronzo (le thorax in epoca arcaica diffuse erano quelle "a campana", più costosi e, inizialmente più rari, i torax "anatomici"), da schinieri in bronzo (molto scomodi, per questo non sempre usati o utilizzati solo sulla più esposta gamba destra, spesso sostituiti da schinieri in cuoio o da un'ocrea), da una corta spada in ferro (xiphos, anche se in età arcaica pre falangitica erano utilizzati molti tipi di lama, inclusi il kopis e la makhaira, in seguito proprie della cavalleria), da una lancia (dory) ed infine da uno scudo bronzeo rotondo (hoplon) fornito di un passante centrale e di un'impugnatura lungo il bordo (antilabē).
In verità era lo scudo che definiva l'oplita, non tutti gli opliti disponevano di una panoplia completa (specie il thorax era molto costoso), ma se utilizzavano lo scudo rotondo hoplonerano opliti. Il termine però può essere talvolta (specie nella Beozia arcaica) anche associata a delle fanterie pesanti armate di scudi a dipylon, simili per molti versi a degli hoplonalleggeriti e ridotti di dimensione, e che, in beozia ("scudo beota") rimasero popolari nei combattimenti a ranghi più aperti. Questo tipo di scudo, che consentiva una tenuta molto salda in posizione di difesa contro gli assalitori, costituì un'innovazione decisiva e sembra da mettere in relazione con il sorgere della falange, formazione compatta di combattenti che con gli scudi si coprivano a vicenda.
L'innovazione consisteva nelle dimensioni dello scudo, che variavano dai 60 cm ai 90 cm, sufficienti a proteggere le parti del corpo più vulnerabili. Inoltre lo scudo era munito di una correggia di cuoio, per permettere anche alle spalle di sostenerne una parte del peso, di un'altra correggia in lino da fasciare sull'avambraccio e da una manopola sul bordo in cui si saldava la mano. Lo scudo non era solo un'arma difensiva, ma permetteva di generare delle spinte utili nel corpo a corpo e negli scontri tra falangi, oltre a menar fendenti in caso di rottura o perdita del dory e dello xiphos.


UNICITA’ GRECA. Allora perché gli eserciti ellenici scelsero di trasformarsi in fanteria pesante? Come sintetizzato da Victor Hanson in L’arte occidentale della guerra: “Data la natura delle fonti di cui disponiamo, non conosciamo né potremmo conoscere la reale successione degli eventi sociali e politici che al volgere dell’età arcaica greca portò a questo tipo di armamento e alla successiva tattica oplitica. Ma sicuramente all’inizio del VII secolo a.C. la cosiddetta riforma oplitica attirò in maniera crescente un numero crescente di contadini”. Il processo socio-politico che aveva condotto alla formazione delle città-stato con il loro ordinamento democratico, favorì l’emergere di una tecnica di combattimento che permetteva a tutti gli uomini liberi, indipendentemente dall’età (dai diciotto ai sessant’anni) e dalla condizione sociale, di combattere fianco a fianco con la massima efficacia. La tattica oplitica in un certo senso si dimostrò la strada più semplice per amalgamare una forza così eterogenea senza dover sottostare a un feroce addestramento. Era in qualche modo più naturale imbracciare lancia e scudo che diventare arcieri, frombolieri o cavalieri.
Ma anche altri fattori ebbero un ruolo determinante. Considerando che la stagione deputata alla guerra era il periodo estivo (dopodiché riprendevano le normali mansioni nei campi) i Greci scelsero di risolvere i loro contrasti affrontandosi in scontri decisivi per stabilire subito vincitori e almeno nell’epoca più antica (VII-V secolo a.C) non erano contemplate lunghe e sfiancanti campagne militari. Inoltre, per quanto l’oplon fosse abbastanza grande da riparare buona parte del corpo, non garantiva a protezione totale: in caso di una battaglia tradizionale, a formazione aperta, lo scudo non avrebbe permesso al soldato di difendersi in maniera adeguata da assalti ai fianchi o alle spalle, mentre usato dentro la falange era molto più sicuro ed efficace.

 SUPERIORITA’, MA A QUALE PREZZO? Se la concezione di una formazione serrata si dimostrò rivoluzionaria, lo studioso Anthony Gnodgrass, ricordando gli eventi che determinarono il successo ateniese a Maratona, si sofferma anche sulla netta superiorità del loro equipaggiamento: “Non sapremo mai n certezza come andarono le cose ma possiamo star certi che il solo valore non sarebbe bastato a vincere. La superiorità dell’armamento greco dev’essere stata un fattore importante in quello”. E negli altri casi? Per assurdo si può affermare che schieramento a falange, sperimentato fino al V secolo a.C. nella sola penisola ellenica, si dimostrò pressoché imbattibile quando i Greci si misurarono contro popoli ed eserciti non abituati, né attrezzati, a combattere in quel modo. La musica cambiava nettamente quando a confrontarsi erano due formazioni composte esclusivamente da opliti (come nella quasi totalità delle battaglie combattute su suolo ellenico) schierate sul campo in maniera speculare: entrambi i contendenti erano armati allo stesso modo e conoscevano perfettamente la tattica da adottare. A fare la differenza in tal caso erano l’addestramento, la coesione e il valore dei comandanti.
Per capire come si comportassero due formazioni oplitiche arrivate a contatto, Hanson scrive: “Quando due eserciti si scontravano, in genere si scatenava una gara di spinta, e possiamo immaginare che un oplita appoggiasse naturalmente l’intero peso dello scudo sula spalla sinistra mentre faceva forza sugli uomini che aveva davanti. Forse la vera rivoluzione nell’armamento fu la forma concava, di concezione così radicale, una forma che permetteva a un individuo che pesava poco, sui settanta chili, di reggere un’arma sproporzionalmente grande e gli offriva la superficie ideale per scaricare la propria forza sulle spalle di coloro che gli stavano davanti”. Se dall’esterno una falange sembrava un blocco monolitico, chi militava all’interno era ben conscio degli sforzi, dei sacrifici e delle sofferenze a cui sarebbe andato in contro per raggiungere un simile risultato. Innanzitutto era bandita ogni iniziativa personale a scapito di una rigorosa disciplina, finalizzata a mantenere la coesione con i compagni verso cui la fiducia doveva essere massima. Anche l’equipaggiamento in molti casi era una fonte di problemi: con l’elmo calato sugli occhi, per esempio, la visuale era limitata e i suoni quasi attutiti. In questo la possibilità di individuare il nemico, soprattutto nelle file più arretrate, era nulla. L’elmo, oltre a gravare sul collo per il peso (almeno due chili), sotto il sole estivo poteva diventare soffocante per uomini abituati a portare barba folta e capelli lunghi. Stesso discorso per un altro elemento della panoplia: i gambali. Se erano in grado di fornire un’ottima protezione agli arti inferiori, soprattutto agli uomini impiegati in prima linea, la lamina di bronzo sagomata poteva rivelarsi scomoda nelle fasi di spostamento. Sebbene fosse dotata di un’imbottitura interna, il continuo movimento dell’arto poteva generare irritazioni e piaghe.  


IL VOLTO DELLA PAURA. Ancora oggi, pensando a un oplita greco o a un falangista macedone, ci si immagina un guerriero indomito e senza paura, un’idealizzazione che la tradizione moderna ha ricamato ad hoc. Consultando per le fonti antiche, questa percezione cambia, Spartani a parte, che per natura, educazione e addestramento sembra siano stati immuni da questo sentimento, gli altri opliti greci vivevano la vigilia di una battaglia nel terrore. Senofonte, rievocando gli istanti che precedettero lo scontro di Corone (394 a.C.), sottolinea il silenzio irreale calato sul campo di battaglia. Altri autori invece descrivano la spasmodica tensione che attanagliava tutti gli uomini, sia i soldati semplici sia gli ufficiali. E poteva essere l’apparato gastrointestinale a subirne le conseguente immediate. Plutarco non si fa scrupolo di sviscerare i frequenti disturbi che affliggevano il generale Arato (III secolo a.C) prima di ogni scontro: “Subito prima della battaglia, era afflitto da crampi agli intestini, mentre paralisi e vertigini si impadronivano di lui non appena il corno dava il segnale di tenersi pronti”. Ma questi inconvenienti erano solo l’effetto più spiacevole della tensione; poca cosa se paragonati al sopraggiungere di attacchi di panico che potevano mettere in crisi la tenuta psicologica. Ci volevano nervi saldi per resistere a queste pressioni e non cedere al raptus di gettare le armi e fuggire. Il generale spartano Brasidia (V secolo a.C.), per esempio, non ha alcuna pietà nel descrivere la viltà dei barbari al cospetto di un esercito greco: “Costoro sono spaventosi per massa d’uomini che presentano e irresistibili per l’altezza delle grida, ma non sono in battaglia altrettanto spaventosi perché non hanno vergogna ad abbandonare la posizione”. Se è indubbio che pochi popoli siano stati in grado di prendere le misure al modo di combattere ellenico, è altrettanto vero che anche tra i Greci la tecnica della falange era una prova che presupponeva doti di resistenza fuori dal comune. Non stupisce pertanto che si facesse uso di vino nei momenti precedenti l’inizio di ogni scontro.

FALANGE OPLITICA CLASSICA .


Una battaglia tra due falangi oplitiche nei secoli VII-V a.C. era di norma dettata da regole non scritte che prevedevano la disposizione sul campo di battaglia di due eserciti disposti in maniera pressoché speculare. In cui la componente di fanteria pesante era predominante. L’impiego di armati alla leggera, arcieri, frombolieri e cavalleria era piuttosto limitato, se non assente. Indipendentemente dagli effettivi messi in campo, in genere le truppe più valorose ed efficienti (nel caso degli Spartani, il re e la sua guardia del corpo) erano dispiegati nell’estrema destra, che pertanto era considerata la posizione più ambita. Al momento del contatto tra i due schieramenti si accendeva un furioso combattimento corpo a corpo finalizzato a spezzare la formazione nemica e metterne la coesione. In questo erano maestri i lacedemoni grazie al loro proverbiale addestramento: dopo aver messo in fuga la sinistra avversaria, che avevano di fronte, la loro avanzata metteva in crisi anche il resto dello schieramento nemico che, per non essere preso alle spalle, era costretto a cedere su tutta la linea e a ritirarsi.
FALANGE OBLIQUA TEBANA.
Per secoli i combattimenti tra formazioni oplitiche si erano limitati a dare vita a schieramenti speculari in cui le truppe più forti erano posizionate sull’ala destra, favorendo in questo modo la superiorità spartana. All’inizio del IV secolo a.C. però, lo stratega tebano Epaminonda riuscì a concepire una tattica innovativa chiamata falange obliqua, capace di mettere in crisi l’avversario nella battaglia di Leuttra (vedi articolo su questo blog) nel 371 a.C. Di che cosa si trattava? Alla vigilia dello scontro, scelse di assottigliare il centro e la destra del suo esercito al fine di concentrare le sue forze migliori in uno schieramento profondo sulla sinistra, laddove nessuno si sarebbe mai aspettato. All’inizio della battaglia inoltre, mentre la sinistra attaccava la prima linea di fronte, il centro e la destra avanzarono più lentamente in modo da ritardare il più possibile il contatto con il nemico (dando vita a una disposizione obliqua). La strategia si rivelò azzeccata: con i suoi opliti più capaci, disposte su linee molto profonde, e quindi in grado di esercitare maggiore pressione, affrontò le truppe nemiche più agguerrite, mettendole fuori combattimento. Dopodiché il resto dello schieramento avversario fu costretto a ritirarsi per non correre il rischio di essere aggirato.
FALANGE MACEDONE.
Ricostruzione: carica di fanti contro i pezeteri schierati nella falange
Sul finire del IV secolo a.C., la Grecia assistette impotente all’affermazione del Regno di Macedonia capace di trasformarsi nella potenza egemone della Penisola Ellenica in virtù di una superiorità militare disarmante. I Macedoni non abbandonarono  il classico schema a falange ma lo portarono a un livello di efficienza maggiore, introducendo una serie di cambiamenti che facevano perno sull’impiego di una lunga picca da impugnare a due mani (la sarissa) l’alleggerimento dell’equipaggiamento e l’introduzione di una potente cavalleria. La disposizione in campo di battaglia pertanto rimaneva simile a quella oplitica, se non fosse stato per la presenza, ai lati dello schieramento, della cavalleria superiore alla controparte greca sia in termini di effettivi sia in di addestramento. Ciò che cambiava in maniera sostanziale era pertanto la tattica di combattimento. I fanti macedoni, con le loro lunghe picche, impegnarono la controporte oplitica, mentre la cavalleria attaccava alle loro spalle dopo aver messo in fuga le truppe montate avversarie.






COLLISIONE E CAOS. Nei primi secoli (VII-V secolo a.C.) le battaglie tra i Greci erano dettate dalle regole fissate dalla tradizione che favorivano, di comune accordo tra i contendenti, una disposizione sul campo pressoché simultanea e speculare. Scaramucce di cavalleria o di soldati armati alla leggera erano rarissime, se non assenti. Al segnale prestabilito la falange si muoveva in avanti al passo, percorrendo la distanza che la divideva dalla formazione nemica, e tutti gli opliti dovevano avanzare all’unisono con lo scudo all’altezza del petto e la lancia sottomano. Secondo la  compagni più valorosi potessero teneri sotto controllo e dargli coraggio. La marcia di avvicinamento era una fase molto delicata per il rischio che la formazione si disunisse, un pericolo dovuto alla presenza di diverse classi di età non sempre in grado di mantenere la setta velocità e la giusta direzione; non va dimenticato infatti che solo le prime file (non per nulla vi trovavano posto i soldati più esperti) erano in grado di individuare il punto di impatto.
Quando i due schieramenti erano a poche decine di metri di distanza veniva suonato il segnale di carica, accompagnato dall’urlo di guerra. Il cozzo tra le due formazioni, che il poeta Callino definisce la prima zuffa sarebbe venuta a distanza di pochi secondi, con un fragore assordante per effetto della collisione di migliaia di lance, elmi e scudi. “ I Greci sapevano che il rumore particolare di quel cozzo iniziale aveva origini differenti. In primo luogo, il tonfo sordo del bronzo contro il legno si avvertiva quando la punta di metallo della lancia si faceva strada attraverso l’anima di legno dello scudo dell’oplita o quando i soldati sbattevano lo scudo contro le corazze e gli elmi di bronzo dei nemici, oppure ancora quando scudi di legno urtavano l’uno contro l’altro”, scrive Hanson. Era il momento chiave della battaglia mentre gli opliti delle prime file cercavano di colpire l’avversario, i compagni più arretrati (dalla quarta in poi), resesi conto dell’improvviso stop, non potevano far altro che esercitare la massima pressione su chi avevano davanti, spingendo energicamente. Si può solo immaginare quali sensazioni vivesse chi si trovava in quell’inferno, il terribile tanfo di sudore, l’odore del sangue e i gemiti di chi era stato colpito. Lo scontro tra falangi era a tutti gli effetti una collisione, fermo restando che uno dei due contingenti non si sfaldasse prima di arrivare a contatto (caso non frequente quando gli avversari erano spartani), il cui obiettivo come ricorda Hanson, era “assestare un primo colpo che costringeva letteralmente il nemico a rinculare, permettendo ai soldati di penetrare in massa nelle brecce che si creavano lungo la linea”. Gli opliti più esperti sapevano come evitare il muro di scudi e lance infilandosi tra i brevi spazi creatisi tra gli avversi in corsa, per poi avventarsi e colpire gli uomini della seconda e terza fila. Tucilide infatti scrive chiaramente: “I grandi eserciti scompaginano lo schieramento quando si scontrano”. L’apertura di una breccia, o più brecce, impediva al resto dell’esercito di serrare le fila e poteva condurre a un crollo generale della prima fila. Gli opliti sapevano di poter avere la meglio sull’avversario maneggiando la lancia con destrezza in modo che non si spezzasse. Tenendola sottomano, si provava a colpire l’inguine, o la parte superiore della coscia dell’avversario nel punto immediatamente sotto lo scudo. Un fendente ben assestato era dolorosissimo e costringeva la vittima ad abbandonare le armi per coprirsi la ferita. altrettanto efficace era il colpo diretto sopra i gambali, all’altezza del ginocchio. In casi simili, come raffigurato spesso sui dipinti nei vasi o nei crateri, c’era la possibilità che l’oplita colpito crollasse all’indietro, travolgendo i compagni della seconda fila. All’impatto seguiva una lotta corpo a corpo, in cui tutti i colpi erano leciti quando le lance si spezzavano e non erano più utilizzabili, si ricorreva a una spada corta, particolarmente in voga tra gli spartani, per il combattimento ravvicinato.  Spesso i soldati, pressati da dietro e raccolti in pochi centimetri, dovevano ricorrere alle mani per sbilanciare il nemico, afferrando la loro lancia o addirittura barba o capelli, e farlo cadere.

LO SCEMPIO DI MORTI E FERITI. Se uno dei due contendenti aveva la meglio, spezzando la formazione avversaria, la battaglia era a una svolta.  Ma  era un evento raro, perché il più delle volte i due eserciti rimanevano al proprio posto, massacrandosi a vicenda, prima di cedere definitivamente o ritirarsi. A prescindere da uno svolgimento dello scontro la carneficina poteva assumere dimensioni significative. Hanson a tale proposito scrive: “Sono numerosi i riferimenti ai soldati calpestati, oppure letteralmente soffocati nel punto in cui si trovavano. Chiunque inciampasse o cadesse ferito correva il rischio di essere maciullato pesantemente, accecati dalla polvere e dalla stretta dei corpi” Con la rottura di uno schieramento, per la parte sconfitta si profilava il rischio della disfatta totale, evitabile solo se gli uomini avevano abbastanza sangue freddo da arretrare ordinatamente combattendo. Ma era un evento poco frequente: il più delle volte, questi soldati, ormai in preda al panico, gettavano l’equipaggiamento dandosi alla fuga in maniera disordinata e voltando le spalle. Corpi lacerati e moribondi, feriti in modo orribile, sparsi ovunque: al termine dello scontro, il campo di battaglia era uno spettacolo spaventoso a cui pochi sapevano resistere. Già all’epoca lo shock da combattimento, con conseguente perdita della ragione, colpiva indistintamente soldati e ufficiali. Nelle fonti si parla di un fenomeno chiamato epiphanies, traducibile con allucinazioni, come il celebre episodio di Maratona, quando un oplita giurò di  aver visto passare al suo fianco un guerriero gigantesco che abbatté un avversario poco distante. Se nell’immediato la vista di cadaveri era impressionante, nei giorni successivi il loro numero poteva diventare anche un problema sanitario, perché spesso, nel caso di grandi battaglie in aree isolate, era impossibile recuperare i caduti. E poi c’era la questione dei feriti, più o meno gravi: c’era chi aveva subito danni relativamente leggeri da potersi muovere con le proprie gambe, o aiutato dai compagni, ma c’erano anche i moribondi, le cui lacerazioni erano così profonde da non poter essere spostati. Per questi ultimi la medicina dell’epoca era quasi impotente. I feriti, anche quando la lesione sembrava rimarginata, potevano comunque risentirne a distanza di giorni o settimane. Nel Corpus Hippocraticum (un testo medico del IV secolo a.C.) si può leggere di come un oplita colpito da un giavellotto nella parte bassa della schiena fosse morto nel giro di cinque giorni, mano a mano che il suo quadro clinico era peggiorato per via di un’infiammazione peritoneale. Frequentissime erano anche gli edemi celebrali dovuti ai colpi ricevuti sull’elmo: sebbene l’arma non fosse in grado di penetrarne la superficie metallica, la violenza dell’impatto era tale da provocare danni irreparabili al cervello. Nelle fonti però si celebrano anche casi di veterani sopravvissuti a numerosi colpi, come il generale tebano Pelopida che a Mantinea (362 a.C.) era stato trafitto ben sette volte. per arrestare le emorragie si faceva ricorso a sostanze come il latte di fico, la mirra e il vino. In certe situazioni, come le ferite aperte, i medici erano in grado di intervenire, avendo maturato una certa esperienza nelle fasciature con bende di lino e cotone. E si facevano anche tamponi di lana e impiastri di grano e giuggiola per pulirle. Nei casi più gravi, non mancavano operazioni di sutura con aghi in bronzo, a patto che le arterie non fossero state recise. In quel caso c’era ben poco da fare. Di fatto, la paura nei volti dei sopravvissuti era evidente. Gli uomini di una falange non erano più coraggiosi o intrepidi dei loro contemporanei, ma rispetto a loro avevano assimilato una regola base a cui era impossibile sottrarsi: la vittoria sul campo dipendeva dalla loro capacità di stare uniti, come fossero una cosa sola. Rinnegarla poteva significare soltanto la disfatta totale.

Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerriero n. 20. Altri testi e foto da Wikipedia.

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