martedì 31 luglio 2018

Karl Marx: da ribelle a rivoluzionario

Karl Marx: da ribelle a rivoluzionario.
Appassionato della filosofia di Hegel, Marx osservò in prima persona le ingiustizie sociali ed elaborò una teoria della rivoluzione che nel 1848 plasmò nel Manifesto del Partito Comunista.
A due secoli dalla sua nascita, avvenuta il 5 maggio del 1818, la figura di Karl Marx  è ancora oggi associata all’aspetto severo e alla folta barba bianca immortalata dal pioniere della fotografia John Mayall attorno al 1875. Al punto che a volte costa immaginarsi che dietro quell’icona possa esserci mai stato un giovane. Eppure fu proprio prima di scrivere il manifesto del Partito Comunista, uscito nel 1848, quando non aveva ancora trent’anni, che Marx visse le esperienze politiche, intellettuali e personali che avrebbero segnato tutta la sua opera. Cresciuto nel pieno apogeo della cultura romantica, Marx fu il tipico giovane ribelle. Suo padre Heinrich, un ricco avvocato di origine ebraica che si era convertito al cristianesimo un anno prima della nascita del figlio, lo introdusse al pensiero liberale illuminista e alla critica del regime assolutista prussiano (la Renania, regione natale di Marx, era allora prussiana, all’età di 17 anni Karl entro all’Università di Bonn. Qui trascorse una giornata in prigione per ubriachezza e disturbo della quiete pubblica, partecipò al duello di rito delle matricole e si iscrisse a un circolo di poeti. L’anno successivo si trasferì all’università di Berlino per studiare diritto e filosofia. Fu lì che entrò in contatto con il pensiero di Hegel, il filosofo più influente dell’epoca. Marx aderì alla corrente dei cosiddetti Giovani hegeliani, un movimento di discepoli del filosofo di Stoccarda che avevano dato un’interpretazione democratica e laicista del pensiero del maestro. Tra questi si distinguevano il filosofo e teologo bavarese Ludwig Feuerbach – che dichiarava: “non aver religione è la mia religione –, lo scrittore e giornalista tedesco Arnold Ruge e il giovane professore di teologia Bruno Bauer, che divenne mentore di Marx.

Bruno Bauer (Eisenberg6 settembre 1809 – Berlino13 aprile 1882) è stato un filosofo e teologo tedesco


I fronti del giovane Marx.
1818. Karl Marx nasce il 5 maggio a Treviri, nella Renania-Palatinato, in una Prussia governata da una monarchia assoluta.
1841. comincia a lavorare per la Gazzetta renana dalle cui pagine critica con durezza lo stato prussiano, che per tutta risposta chiude il giornale. 
1843. Si trasferisce a Parigi dopo il matrimonio con Jenny. Qui entra in contatto con i circoli comunisti della città e incontra Engels.
1845. Espulso dalla Francia, Marx va in esilio a Bruxelles, dove poco dopo fonda con Enels il Comitato comunista di corrispondenza.
1848. conclude il manifesto del partito comunista, quindi si trasferisce definitivamente a Londra.


L’ESPULSIONE DALL’UNIVERSITA’. Inizialmente i Giovani hegeliani si identificavano con il liberalismo ed esercitavano ed  esercitavano una critica rispettosa nei confronti del regime, ma i continuo scontri con le autorità li spinsero verso posizioni più radicali. Per reazione il governo chiuse le porte dell’università ai membri del movimento, che si trovarono così costretti a intraprendere carriere più insicure. In un certo senso, furono la generazione perduta dalla vita intellettuale tedesca. Il 1841 segnò per Marx il passaggio all’età adulta: “Ci sono momenti della vita che costituiscono il confine di fronte a un tempo trascorso, ma contemporaneamente indicano con precisione una direzione nuova”. Obbligato a rinunciare alla professione accademica, Karl si orientò verso l’attività giornalistica grazie al progetto del giurista Georg Jung e dell’intellettuale radicale Moses Hess, che fondarono un quotidiano di politica ed economia, la Gazzetta renana. Fu qui che il giovane cominciò ad affinare la sua voce. Uno dei suoi primi interventi fu in difesa della libertà di stampa, da lui descritta come “lo specchio spirituale in cui il popolo si contempla”. Rappresentò una delle cause che all’epoca lo vide maggiormente coinvolto, insieme alla libertà di commercio. Marx entrò ben presto a far parte del comitato editoriale e divenne il direttore informale della Gazzetta, che grazie a lui triplicò il numero delle copie stampate, ma si attirò in questo modo le attenzioni del governo. Marx scriveva di questioni locali, come la situazione dei viticoltori della Mosella o la legge che vietava la raccolta di legna nelle vecchie foreste comunali. Nel fondo, però, rivolgeva una critica allo stato prussiano, che in tutta risposto non esitò a proibire la pubblicazione del quotidiano nel marzo 1843 “In Germania non mi lasciano fare nulla”, si lamentava Marx. Ciononostante, quell’anno fu per lui memorabile. Cominciò a scrivere la sua prima opera teorica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, dove delineava le sue idee sull’alienazione ed esprimeva le sue convinzioni repubblicane e democratiche, prendendo le distanze dal suo vecchio maestro. A giugno sposò Jenny von Westphalen figlia di Johann Ludwig, un aristocratico e alto funzionario prussiano, amico del padre di Karl, che prese il genero sotto la sua ala e gli fece conoscere le opere di Shakespeare. Il matrimonio destò preoccupazioni in entrambe le famiglie per la differenza di età, lei aveva quattro anni più di lui, e per l’incerta situazione economica della coppia. Ma Jenny, una donna talentuosa, affascinante e di grande intelligenza, non ebbe esitazioni. Sarebbe rimasta la compagna di vita e di pensiero di Marx fino alla morte, avvenuta nel 1881. Lui l’avrebbe raggiunta due anni dopo. Nel frattempo Arnold Ruge aveva deciso di fondare una nuova pubblicazione a Parigi, al riparo dalla censura prussiana: gli annali franco-tedeschi. Propose a Marx di collaborare al progetto e questi accettò. Alla fine di ottobre lui e Jenny partirono per la Francia dove avrebbero vissuto un periodo decisivo.



Leader dalla “criniera leonina”.
A 24 anni Karl Marx  era “Un uomo vigoroso, con una folta peluria nera, che gli invadeva guance, braccia, naso e orecchie (…) e dotato di un’illimitata fiducia in sé stesso”, secondo l’uomo d’affari di Colonia Gustav von Mevissen. Dieci anni più tardi un rapporto dei servizi segreti prussiani, che lo seguivano in tutta Europa, ribadiva: “Ha un aspetto possente, la carnagione scura, i capelli e la barba di un nero intenso. Non si rade. È un uomo geniale e energico”. In seguito quella criniera leonina scura come il carbone, si trasformò nell’emblematica capigliatura bianca da profeta bibilico.


L’EPOCA PARIGINA. Parigi era allora la “grande sorgente magica da cui sgorga la storia del mondo” secondo la definizione di Ruge. Una città spumeggiante, caratterizzata da una vita sociale, politica e culturale unica in Europa. Qui Marx lesse avidamente i socialisti francesi Saint-Simon, Cabet e Fourier, e gli economisti britannici Ricardo e Smith. Trattò anche con il poeta Heine, Proudhon – autore del pamphlet cos’è la proprieta?, che contiene la celebre affermazione la proprietà è un furto – e con l’anarchico Bakunin, che in seguito sarebbe diventato uno dei suoi principali antagonisti. Iniziò a frequentare i circoli operai e ad ammirare la capacità organizzativa perché in essi “la fraternità tra le persone non è un concetto vuoto, ma una bella realtà. in quei volti induriti dal lavoro risplendono i sentimenti più nobili dell’umanità”. D’altra parte era molto critico nei confronti delle teorie che sorgevano attorno a questi gruppi, che riteneva utopistiche o romantiche, e si prefisse in contrapposizione di elaborare in contrapposizione di elaborare una dottrina comunista scientifica. Nel maggio 1844 i coniugi ebbero la loro prima figlia, che chiamarono Jenny, come la loro madre. Tra  agosto e settembre conobbero colui che sarebbe diventato il migliore amico e protettore della famiglia: Friedrich Engels. Figlio di un ricco industriale tessile, scrisse un’opera che Marx studiò attentamente e da cui attinse i dati su cui fondare la sua teoria della storia: La situazione della classe operaia in Inghilterra. Fu l’inizio di una grande amicizia e collaborazione intellettuale che durò tutta la vita e il cui primo frutto, La sacra famiglia, venne pubblicato nel 1845. Il testo rappresenta un regolamento di conti con l’eredità hegeliana e, in particolare, con l’ex mentore di Marx, Bruno Bauer. Alla fine uscì un solo numero degli Annali, ma i due articoli scritti da Marx furono centrali per lo sviluppo della sua visione del mondo. Nel primo, “introduzione alla crita della filosofia del diritto di Hegel” dichiarava che la religione era il prodotto di un’umanità alienata e definiva l’oppio dei popoli. Per Marx la critica alla religione non era fine a sé stessa: “La critica del cielo si trasforma (…) in critica della terra, la critica della religione in critica del diritto, la critica della teologia in critica della politica”. Nel secondo articolo intitolato “sulla questione ebraica” e a volte ingiustamente accusato di antisemitismo, esponeva per la prima volta l’idea che l’emancipazione umana fosse legata alla fine del capitalismo.

Amico provvidenziale.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda27 agosto 1770 – Berlino14 novembre 1831) è stato un filosofo tedesco, considerato il rappresentante più significativo dell'idealismo tedesco.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda27 agosto 1770 – Berlino14 novembre 1831) è stato un filosofo tedesco, considerato il rappresentante più significativo dell'idealismo tedesco.

Firma di Hegel
È autore di una delle linee di pensiero più profonde e complesse della tradizione occidentale; la sua riflessione filosofica nasce all'interno dell'ambiente culturale tedesco di inizio '800, dominato dalla filosofia kantiana e dai suoi sviluppi idealistici
Friedrich Engels apparteneva a una facoltosa famiglia proprietaria di un’industria tessile. Fin dal loro primo incontro a Parigi, nel 1844, divenne intimo amico di Marx. Fu il suo più stretto collaboratore, scrisse anche alcuni articoli che poi Marx firmò con il proprio nome, e lo sostenne nei vari momenti di difficoltà economica.

ESILIO A BRUXELLES. Dopo il fallimento dell’esperienza degli Annali, Karl e Jenny contribuirono alla pubblicazione di Avanti!, un giornale dei lavoratori che uscì senza previa autorizzazione ufficiale. Per questa ragione il ministro degli interni lo fece chiudere e ordinò l’espulsione del suo comitato direttivo: Marx, Heine e Ruge. Nel febbraio del 1845 la famiglia Marx avrebbe lasciato Parigi per stabilirsi a Bruxelles. A conti fatti la permanenza nella capitale  solo di 15 mesi, ma rappresentò un periodo determinante, uno dei pochi in cui Marx conobbe persone con le quali ebbe relazioni cordiali e scambi fecondi, e anche una certa intimità. L’alternarsi di momenti di cordialità e di turbolenza caratterizzò la vita della coppia anche a Bruxelles, una città accogliente in cui regnava la libertà e dove nacque la loro seconda figlia, Laura. Ma la situazione economica della famiglia si fece sempre più precaria e non precipitò solo grazie all’aiuto di Engels e di alcuni amici tedeschi. Nonostante le difficoltà economiche, Marx riuscì a dedicarsi allo studio dell’economia politica, della storia e delle teorie socialiste, a costo di dormire solo quattro ore per notte. Chi ebbe a che fare con lui in quel periodo conobbe un tratto del suo carattere che non avrebbe più abbandonato: l’arroganza intellettuale. Il critico letterario russo Pavel Annenkov, per esempio descrive Marx come un uomo vigoroso, di solide convinzioni e incrollabile forza di volontà, per il quale “parlava soltanto per giudizi che non ammettevano replica, rafforzati per di più da un tono terribilmente sferzante”. Era in breve, un dittatore democratico.
A Bruxelles Marx lavorò a due testi importanti che sarebbero stati pubblicati solo postumi: L’Ideologia tedesca, scritta con Engels, e le Tesi su Feurbach. Il primo riunisce una serie di manoscritti in cui Marx sviluppa la sua concezione materialistica della storia,secondo cui le società sono il riflesso dei loro rapporti economici e materiali: quando questi rapporti cambiano, le società si trasformano, sotto la guida di una classe dominante. Se all’epoca il potere era nelle mani della borghesia, dietro di essa stava sorgendo un nuovo soggetto, il proletariato, che avrebbe rovesciato l’ordine stabilito e posto fine all’oppressione di classe. Questa era anche la missione che si era prefisso Marx, come si legge in un famoso passo delle Tesi su Feurbach: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, ora si tratta di trasformarlo”.

Gli anni londinesi.
Espulso da Bruxelles, nel 1848, Marx si trasferì con la sua famiglia prima a Parigi, poi a Colonia e, infine a Londra. quelli londinesi furono anni di estrema povertà tanto che alla morte di uno dei figli, la moglie Jenny dovette chiedere un prestito per comprare la bara. Ciononostante nel 1867 Marx riuscì a pubblicare il primo volume del suo capolavoro, Il Capitale.



manoscritto del Manifesto

VERSO IL MANIFESTO.  Nel giugno del 1845, Marx decise di recarsi a Manchester e a Londra per prendere contatto con un’associazione di esuli tedeschi e con i militanti inglesi del movimento cartista. Al suo ritorno a Bruxelles fondò il Comitato comunista di corrispondenza, che mirava a creare una ret di relazioni internazionali tra gruppi e associazione di Francia, Inghilterra e Germania. Era l’embrione della Lega dei comunisti, che nacque nel giugno del 1847. Marx aveva ormai rotto con tutte le altre forme di socialismo e comunismo, ritenendo il suo approccio l’unico valido. Nel marzo del 1846 ebbe un duro scontro con Wilhelm Weitling, sarto e oratore tedesco critico verso gli eccessi di teoria e paladino dei sentimento del popolo. “Fino ad ora l’ignoranza non ha mai aiutato nessuno!” gli gridò Marx durante una riunione, alzandosi di scatto. Analogamente, nel 1847 rispose alla Filosofia della miseria di Proudhon con un’acida critica intitolata Miseria della filosofia. Queste posizioni gli valsero non pochi nemici, ma anche la fame di pensatore rigoroso e implacabile. Al secondo congresso la Lega dei comunisti, tenutosi nel dicembre del 1847, il comitato di Londra affidò a Marx ed Engels l’incarico di redigere un documento che illustrasse le posizioni del gruppo. I due raccolsero la sfida. Marx rientrò a Bruxelles e a fine gennaio del 1848 concluse la stesura del Manifesto del partito comunista, un saggio che riassumeva la teoria marxista della storia e della rivoluzione in un linguaggio vivace e accessibile a tutti. Pochi giorni dopo scoppiava a Parigi un’insurrezione che si sarebbe propagata presto nel resto dell’Europa. Era la Comune. Il Manifesto non ebbe una grande influenza su quel periodo rivoluzionario, né sul successivo trentennio. Ma a partire dal 1880 lo spettro del comunisco e l’appello all’unione dei proletari di tutto il mondo iniziarono ad aggirarsi per il continente europeo e per il mondo intero.



Articolo in gran parte di Vladimir Lopex Alcaniz pubblicato su Storica National Geografic del mese  di luglio 2018. altri testi e immagini da Wikipedia.    

Varata, affondata e ritrovata 450 anni dopo

VARATA, AFFONDATA E RITROVATA 450 ANNI DOPO.
Nel 2011 alcuni archeologi svedesi hanno identificato il relitto della Mars, una nave da guerra affondata nelle acque del Baltico nel 1564.





vista della Mars sul fondale del  Baltico.
metà del XVI secolo il sovrano svedese Erik XIV era alle prese con la Guerra del nord dei sette anni. Il conflitto vedeva il suo Paese contrapposto a una coalizione formata dalla Danimarca e dalla città-stato Lubecca. Le tre potenze si contendevano il controllo delle rotte mercantili del mar Baltico dopo il declino della Lega anseatica, la federazione di città che durante il Medioevo aveva dominato la regione. Per affrontare la sfida da Erik XIV aveva fatto costruire quella che avrebbe dovuto esser l’arma risolutiva del conflitto: la Mars. Dedicata a Marte, il dio della guerra romano, era la nave usata a scopi belli più grande e moderna dell’epoca: quasi 60 metri di lunghezza – “dieci piedi in più della cattedrale di Lubecca” come scrisse un impressionato contemporaneo -. 1800 tonnellate di dislocamento e più di cento cannoni distribuiti su cinque piani rinforzati con legno di quercia svedese di primissima qualità. Non sorprende che fosse denominata Makalos “L’ineguagliabile”. Il suo equipaggio era composto da 350 marinai e da 450 soldati. Nel 1564, quando ne fu ultimata la costruzione, quest’imponente fortezza marina dotata di cannoni in bronzo  di – dimensioni mai viste prima su un’imbarcazione – sembrava destinata a cambiare l’asseto delle future armate navali europee. 


Erik XIV Vasa (Stoccolma13 dicembre 1533 – Örbyhus26 febbraio 1577) fu re di Svezia dal 1560 al 1568.
Erik era il figlio primogenito di Gustavo I di Svezia e della di lui prima moglie Caterina di Sassonia-Lauenburg (1513 – 1535). Egli fu anche regnante dell'Estonia dopo la sua conquista ad opera della Svezia nel 1561.

1564. il fiore all’occhiello della marina reale svedese affonda contutto l’equipaggio durante la batta di Oland.
DECENNIO 1900. i fratelli Lundgren, sommozzatori professionisti, iniziano le ricerche della Mars nelle acque del Baltico.
2011Il 26 maggio i fratelli Lundgren localizzano i resti di un imponente relitto che risulta la mitica nave.
2014. National Geographi realizza un documentario sul ritrovamento e lo studio del relitto della Mars.

UN INCENDIO FATALE. Il 30 maggio 1564, poco tempo dopo il varo della Mars, la flotta svedese e quella della coalizione tedesco-danese si scontrava nei pressi dell’isola di Oland. Durante il primo combattimento la Mars ebbe la meglio. Mantenendosi sopravento la nave riusciva a respingere facilmente qualsiasi tentativo di attacco degli avversari. Ma incomprensibilmente, dopo il tramonto la flotta svedese si disperse: all’alba del 31 maggio solo sei navi erano ancora schierate in formazione. Duramente provata dalle perdite del giorno prima, l’armata navale nemica decise di tentare il tutto per tutto assaltando la Mars. Per prima cosa fece fuoco sul timone, che mise fuori uso, poi bombardò la coperta con proiettili incendiari. Quindi trecento uomini si lanciarono all’arrembaggio dell’imbarcazione svedese. Mentre il ponte ardeva e i soldati si battevano in un sanguinoso corpo a corpo, un barile di polvere da sparo fu centrato da un colpo di cannone. L’esplosione conseguente scatenò una reazione a catena che distrusse completamente la prua della Mars. Al crepuscolo il fiore all’occhiello della marina svedese giaceva sui freddi e oscuri fondali del Baltico. Con essa venivano inghiottiti dal  mare seicento membri dell’equipaggio e centinaia di soldati nemici. Riuscirono a salvarsi solo alcune decine di naufraghi, tra cui l’ammiraglio Jakob Bagge. In Svezia non tutti si stupirono della tragica fine della Mars: era una nave maledetta. Per costruire i suoi imponenti cannoni di bronzo il volubile e arrogante re Erik aveva fatto fondere le campane delle chiese locali. Agli occhi del popolo, questo era senza dubbio un grave sacrilegio. 450 anni più tardi la Mars sembrava vittima di un’altra maledizione, che ne impediva il ritrovamento. Nel 1998 i fratelli Richard e Ingemar Lundgren, sommozzatori professionisti e appassionati di archeologia marittima, hanno creato la Global Underwater Explorers, un’organizzazione che è riuscita a rinvenire vari relitti nel Baltico. Ma per lungo tempo la leggendaria Mars si è sotratta a ogni tentativo di ritrovamento.



L’orgoglio della Svezia.
Secondo l’archeologo subacqueo Johan Ronnby ai suoi tempi la Mars era la nave da guerra più moderna del mondo. Due dei suoi cinque ponti erano riservati esclusivamente all’artiglieria., cosa non comune nelle imbarcazioni militari dell’epoca.

INIZIANO LE RICEERCHE. La svolta è arrivata la notte del 26 maggio 2011, quando i Lundgren erano a bordo della nave da ricerca Princess Alice, a 18 miglia (quasi 30 km) dall’isola di Oland. Il sonar dell’imbarcazione ha iniziato a segnalare la presenza sul fondale marino, a  75 metri di profondità. Seguendo le indicazioni degli strumenti di bordo, alle 23,45 i due fratelli hanno individuato quello che sembrava lo scafo in legno di un grande vascello, adagiato sul lato di dritta e circondato da residui di travi. Sul ponte di comando della Princess Alice è esplosa l’euforia. Ma bisognava verificare che si trattasse proprio della storica nave svedese, visto che il fondale del Baltico è letteralmente cosparso di relitti. I fratelli Lundgren e Frederik Sszkogh si sono preparati a calarsi lungo i 75 metri che li separavano dalla nave. Erano attrezzati con costosi rebeather a circuito chiuso, delle apparecchiature per la respirazione che consentono immersioni estreme, anche se richiedono lunghe decompressioni a quattro gradi di temperatura. La visibilità era solo di due metri, ma lo stato di conservazione del relitto era ottimale: le caratteristiche dell’acqua del Baltico, infatti, possono preservare le navi per secoli. L’esplorazione ha permesso ai sommozzatori di verificare che la prua era andata distrutta e le assi di legno dello scafo presentavano segni dell’incendio divampato a bordo. Tra i  resti della nave sono state ritrovate armi, stoviglie, oggetti personali e persino ossa umane. Sul fondale sabbioso era adagiato un cannone di bronzo. Avvicinatosi i sub hanno notato lo stemma del re Erik XIV. Era la conferma definitiva del fatto che si trattasse della Mars. Richard Lundgren ha lanciato un grido attraverso la maschera: “siamo atterrati su Marte!”.  

LA PIU’ FOTOGRAFATA. Il sito è stato accuratamente documentato. La squadra archeologica, guidata da Johan Ronnby dell’Università di Sodertorn, ha scattato migliaia di foto. La prima immagine completa del relitto è stata fornita dal fotografo polacco Tomasz Stachura: dopo 20 ore di immersioni e altre 300 di paziente lavoro al computer, Stachura ha messo insieme 650 scatti per creare un foto mosaico, che è stato poi utilizzato dagli archeologi per realizzare modelli 3D completi della nave. In base alla severa legislazione svedese sul patrimonio sommerso, la squadra è stata autorizzata a riportare in superficie solo poche cose: qualche trave, pochi cannoni e tre talleri d’argento così ben conservati che è stato possibile studiarli subito, “senza nemmeno bisogno di ripulirli”,  secondo quanto dichiarato da Richard Lundgren. Tutti i resti dell’imbarcazione sono stati fotografati e georeferenziati in situ. Non è esagerato affermare che la Mars fu la nave più potente della sua epoca. E ora è anche la più studiata. L’analisi dettagliata alla quale è stata sottoposta ha rivoluzionato la tecnica di immersione e di documentazione dei relitti depositati nelle profondità marine a livelli mondiale.


Articolo in gran parte di Xabier Armendàriz pubblicato su Storica National Geografic di Aprile 2018, immagini da Wikipedia.

L'ultima missione dell'Hunley

L’ultima missione dell’Hunley.


Durante la guerra di secessione americana, il sommergibile sudista Hunley fu il primo di sempre ad affondare una nave nemica. Cambiò la storia navale. 


La CSS H. L. Hunley[3] era un battello appartenente alla Marina degli Stati Confederati d'America, che lo impiegò nel corso della guerra di secessione.
Primo esempio di sommergibile a trovare impiego con successo nel corso di un conflitto, prese il nome dal suo progettista, Horace Lawson Hunley. Attualmente è conservato presso il Warren Lasch Conservation Center diCharleston all'interno di una vasca appositamente progettata e riepita con acqua dolce per favorirne la conservazione.


Tutti fermi al loro posto, in quello spazio angusto che era diventato la loro bara. Sono stati trovati così i nove uomini del sottomarino Hunely, inabissatosi nel 1864 e recuperato solo nel 2000 nelle acque di fronte al porto della cittadina di Charleston, nella Carolina del Sud. All’equipaggio, nel 2014, sono stati dedicati funerali pubblici con tutti gli onori. D’altronde scrissero con la loro morte un capitolo importante della Storia. La loro infatti fu la prima missione vittoriosa di un sottomarino. Ma torniamo all’inizio della vicenda: già nel 1863 la Guerra di secessione americana era giunta agli sgoccioli. Le forze dell’Unione erano in vantaggio e assediavano Charleston mentre un blocco marittimo al largo della Carolina impediva i rifornimenti bellici ai confederati sudisti che opponevano un’accanita resistenza. Che però non bastava: occorreva un’arma segreta. Poteva diventarlo la macchina subacquea a cui stavano lavorando a Mobile, in Alabama, due soci di un’officina meccanica, Baxter Watson e James McClintock, e un avvocato della Louisiana, Horace Lawson Hunley. Dopo un paio di prototipi finiti male, si unirono al lavoro anche i tenenti William Alexander e George Dixon. Il nuovo prototipo fu chiamato Hunley, proprio in onore di Horace Lawson, uno dei suoi sponsor più accaniti. In primavera, in gran segreto, un treno lo trasportò a Charleston


Horace Hunley
MACCHINA INFERNALE. Ma di che cosa si trattava esattamente? Un cilindro piuttosto rudimentale, in ferro corazzato, lungo circa 12 metri e con una linea slanciata. Per l’equipaggio solo  una cabina alta 1,20 e larga uno. La riserva d’aria (che dava un’autonomia di 120 ore, anche se non rimase mai sott’acqua più di 25 minuti) era garantita da un mantice che la aspirava da due tubi metallici utilizzabili in prossimità della superficie, mentre la navigazione era affidata a un comandate che si orientava bussola alla mano. La propulsione era rappresentata da un albero a gomito azionato da otto uomini e dotato di un grande volano che contribuiva a mantenere la velocità: ci si muoveva a 4 nodi (7,5 km. h). A rendere letale questo sottomarino era un’asta di 6 metri con una sommità una carica esplosiva, ovvero un barilotto di rame riempito con 61 kg di polvere da sparo, che andava agganciata con un rampone allo scafo di una nave e veniva azionata tramite un cavo che si srotolava mentre il sottomarino si allontanava dall’imbarcazione nemica. Più facile a dirsi che a farsi: quando il generale Pierre Gustave Toutant de Beauregard, responsabile della difesa di Charleston, diede il suo assenso all’utilizzo dell’Hunley al comando, il mezzo sembrò quasi inutilizzabile. I primi tentativi andarono a vuoto, poi per ben due volte, nell’agosto e nell’ottobre del 1863 (in quest’ultimo caso lo stesso Hunley prese il comando), il sottomarino affondò e dovette essere recuperato: nessuno era sopravissuto, nemmeno Hunley. Questo però non scoraggiò il tenente George Dixon, deciso a prendere il comando Beauregard volle che fosse chiaro a tutti che quella dell’Hunley poteva essere una missione suicida. I volontari comunque non mancarono.


L'interno del sottomarino disegnato da William Alexander nel 1863


Lt. George Dixon's gold coin on display at the Warren Lasch Conservation Center, where the Hunley is being restored

IN AZIONE. L’occasione giusta si presentò il 17 febbraio 1864, quando la nave da guerra unionista Housatonic si posizionò a sole quattro miglia dalla costa: non erano troppe da percorrere con la sola forza delle braccia dei marinai. Erano le 8,45 quando John Crosby, l’ufficiale di guardia dell’Housatonic, suonò l’allarme dopo aver avvistato qualcosa sulla superficie del mare. Dixon, al timone, si avvicinò al pelo dell’acqua per prendere la mira e puntare verso l’obbiettivo  l’asta che sporgeva dalla pura dello scafo e sulla cui sommità si trovava la carica. I tentativi dei nordisti di fermare il misterioso oggetto in avvicinamento furono vani e il sottomarino Huney squarciò lo scafo dell’Housatonic affondando per la prima volta nella storia una nave nemica. La missione era compiuta, ma senza lieto fine: il sottomarino finì infatti, con l’inabissarsi trascinando con sé l’intero equipaggio.

ONDA D’URTO. Come morirono questi uomini sprezzanti del pericolo? Le ipotesi avanzate sono state molte: per anossia (mancanza d’ossigeno), per avvelenamento da anidride carbonica presente in quantità massicce a causa dello sforzo compiuto o per qualche problema tecnico? Nel 2017, un team di ricercatori ha ricostruito la dinamica dei fatti utilizzando alcuni modellini e ha avanzato la tesi che ad ucciderli sia sta l’onda d’urto dell’esplosione da loro stessi provocata, all’impatto con l’ Housatonic: un’onda d’urto che avrebbe colpito i marinai a una velocità di 30 metri al secondo spappolandone i tessuti molli. L’Hunley era stato il primo sottomarino ad avere successo in un’azione militare. Ma nessuno del suo equipaggio si era nemmeno reso conto che nel giro di 5 minuti la Housatonic era colata a picco. Erano già tutti morti, ognuno al proprio posto.

Articolo di Anita Rubini e Emilio Vitaliano pubblicato su Focus Storia n. 139 altri testi e  immagini da Wikipedia.

La battaglia delle Midway

La battaglia delle Midway (1942)

Un duro colpo all’impero del sol levante.
La battaglia al largo dell’atollo del pacifico vide l’inaspettato trionfo della flotta americana su quella, più esperta e agguerrita dei nipponici. Il bilancio per il Giappone fu tremendo: oltre alle 4 portaerei fiore all’occhiello della marina, perse centinaia dei suoi migliori piloti.
Collage Battle Midway.jpg
Da in alto a sinistra proseguendo in senso orario: caccia giapponesi Mitsubishi A6M"Zero", le portaerei Hiryu e USS Yorktown in fiamme, e caccia Grumman F4F Wildcat sul ponte della USS Hornet

L’8 dicembre 1941, all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt aveva fatto alla Nazione una promessa: “Non importa quanto impiegheremo a punire questa aggressione premeditata: il popolo americano nella sua giusta potenza prevarrà con una vittoria assoluta”. Le Forze Armate statunitensi erano ora chiamate a mantenerla. E gli americani, furiosi e sfiduciati, avevano bisogno di una scossa spettacolare che certificasse a loro stessi, prima ancora che al Giappone e al resto del mondo, l’orgoglio ritrovato e una ferrea volontà di riscossa. Gli alti comandi giapponesi, intanto, dibattevano da tempo su come proseguire il conflitto. In seno all’esercito l’opinione più diffusa era quella che si dovesse insistere ad ampliare e rafforzare il cuneo che era stato inserito tra gli americani e i loro alleati del Commonwealth grazie alla conquista del Sud-Est asiatico, eventualmente spingendosi fino all’Australia o minacciando l’India. La Marina nipponica, nella persona dell’autorevole ammiraglio Isoroku Yamamoto, chiedeva invece che venisse ripresa l’iniziativa nel Pacifico centrale. A sciogliere ogni dubbio in merito fu proprio la risposta americana all’attacco a Pearl Harbor: un raid sul Giappone di pura valenza dimostrativa e di scarsa efficacia distruttiva, effettuato da 16 bombardieri. Durante l’azione i piloti americani, guidati dal tenente colonnello James H. Doolittle risparmiarono cavallerescamente la residenza imperiale, un facile bersaglio al centro di Tokyo, ma era evidente a tutti che la vita dell’imperatore giapponese Hirohito era alla loro mercé, se solo avessero voluto andare fino in fondo. Esercito e Marina concordarono sulla necessità di evitare che una minaccia di tale portata potesse ripetersi, e convennero che ciò potesse essere ottenuto solo allontanando ulteriormente a est gli americani. Decisero quindi di attaccare il nemico nel Pacifico centrale, e l’obbiettivo scelto fu l’atollo di Midway, che della potenza americana rappresentava l’estrema propaggine occidentale.


James H Doolittle.jpg

James Harold Doolittle, detto Jimmy (Alameda14 dicembre 1896 – Pebble Beach27 settembre 1993), è stato ungenerale e aviatore statunitense. Dopo una brillante carriera come aviatore, pilota competitivo e istruttore, si distinse come ufficiale superiore delle United States Army Air Forces durante la seconda guerra mondiale.




Le forze in campo
FORZE AMERICANE: 3 portaerei, 7 incrociatori pesanti, 1 incrociatore leggero, 15 cacciatorpediniere, 233 aerei imbarcati, 127 aerei basati a Midway, 16 sottomarini.
DANNI E PERDITE AMERICANE: 1 portaerei affondata (Yorktown), 1 cacciatorpediniere affondato, circa 150 aerei distrutti, 307 uomini uccisi.
FORZE GIAPPONESI: 4 portaerei, 2 corazzate, 2 incrociatori pesanti, 1 incrociatore leggero, 12 cacciatorpediniere, 248 aerei imbarcati, 16 idrovolanti.
DANNI E PERDITE GIAPPONESI: 4 portaerei affondate,  (Akagi, Kaga, Soryu, Hiryu), 1 incrociatore pesante affondato, 1   incrociatore pesante danneggiato, 248 aerei distrutti, 305 uomini uccisi, 37 prigionieri
Il piano di Yamamoto.
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La strategia dell’ammiraglio Yamamamoto era forse eccessivamente complessa e disperdeva il suo naviglio su un’area troppo vasta, ma dal punto di vista giapponese era indubbiamente un buon piano. Pur preparato frettolosamente dopo il raid di Doolitle, era comunque ben strutturato e assicurava una considerevole superiorità locale. Nell’area della battaglia principale, secondo le previsioni Yamamoto avrebbe contrapposto 4 portaerei, 4 portaerei leggere, 7 corazzate, 16 incrociatori e 46 cacciatorpediniere contro solo 3 portaerei, 8 incrociatori e 15 cacciatorpediniere avversari. La disparità di forze sembrava schiacciante solo nel numero di ponti portaerei, aerei disponibili e sottomarini vi era una sostanziale disparità. Nonostante gli inconvenienti e gli imprevisti verificatosi, durante l’esecuzione del piano, sembrava che Yamamotho avesse in mano tutte le carte per vincere. Indubbiamente se la Kido Butalavesse avuto una ricognizione maggiore e più efficiente, oltre a un po’ di fortuna, la battaglia avrebbe potuto essere diversa.

Le principali navi da battaglia.

PORTAEREI YORKTOWN (USA)
TIPO: portaerei classe Yorktown
ENTRATA IN SERVIZIO:  1937
DISLOCAMENTO A PIENO CARICO: 25900 tonnellate
VELOCITA’ MASSIMA: 32 nodi
LUNGHEZZA: 230 metri
LARGHEZZA: 33 metri
ARMAMENTO: 8 cannoni bivalenti calibro 5, in-38, 16 da 1,1 in-75, 24 da 20 mm.
AEREI IMBARCATI: 90
USS Yorktown (CV-5) anchored in Hampton Roads on 30 October 1937.jpg
PORTAEREI AKAGI (GIAPPONE)
TIPO: portaerei derivate classe Amagi.
ENTRATA IN SERVIZIO: 1927
DISLOCAMENTO A PIENO CARICO: 42000 tonnellate
VELOCITA’ MASSIMA: 31 nodi
LUNGHEZZA: 261 metri
LARGHEZZA: 31 metri
ARMAMENTO: 10 cannoni da 20 cm., 6 da 12, 12 da 12,7 e 14 da 2,5 cm
AEREI IMBAJapanese aircraft carrier Akagi 01.jpgRCATI: 68
INCROCIATORE MIKUMA (GIAPPONE)
TIPO: incrociatore pesante classe Mogami
ENTRATA IN SERVIZIO: 1923
DISLOCAMENTO A PIENO CARICO: 11200 tonnellate
VELOCITA’ MASSIMA: 37 nodi
LUNGHEZZA: 190 metri
LARGHEZZA: 29,72 metri
ARMAMENTO: 15 cannoni da 15,5 cm, 4 da 12 cm, 8 da 25 mm, 12 lanciasiluri da 610 mm.
CORAZZATURA: 100-140 mm cintura, 25 mm torrette.
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La battaglia in breve.
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La conquista da parte dei giapponesi dell’atollo di Midway avrebbe spinto più a est la flotta americana, allontanando il pericolo di incursioni aeree sul Giappone. Preso di sorpresa dall’attacco nemico, l’ammiraglio americano Cheser Nimitz sarebbe stato costretto ad intervenire, esponendosi al duplice attacco delle portaerei del vice ammiraglio Nagumo e delle navi da battaglia dell’ammiraglio Yamamotho.  Mimitz, però, era informato dei piani della Marina giapponese, grazie alla decrittazione del codice JN25: non si fece ingannare da una manovra diversiva contro le isole Aleutine, e anzi predispose la sua flotta ad una battaglia contro il nemico diviso. L’inefficace ricognizione delle flotte giapponesi e la difettosa comunicazione  tra i due comandanti agevolo’ il contrattacco americano, rovesciando l’effetto sorpresa e infliggendo gravisse perdite alla forza di Nagumo, non tanto e non solo materiali:  con le portaerei in fiamme perirono infatti i migliori piloti della marina giapponese.  

 AZIONE A SORPRESA. Per quanto convinto che gli Stati uniti fossero stati pericolosamente sottovalutati, l’ammiraglio Yamamoto, che pure era la mente più aperta tra gli alti gradi imperiali nipponici, era giunto alla conclusione che i nemici fossero ormai a un passo dal crollo morale: la nuova offensiva sarebbe stata dunque l’occasione decisiva per vincere la guerra. Il piano elaborato dal suo staff prevedeva di cogliere gli americani di sorpresa e conquistare Midway con uno sbarco anfibio, in modo da costringere quanto rimaneva della flotta avversaria a esporsi per poi poterla sconfiggere definitivamente nella “Kantai Kessen”, la battaglia decisiva che, negli auspici, li avrebbe finalmente costretti ad accettare una proposta di pace. Di questi due presupposti strategici il primo, l’inerzia americana che avrebbe consegnato alla flotta giapponese l’assoluta iniziativa, si sarebbe dimostrato errato, e avrebbe di conseguenza impedito di mettere alla prova il secondo, la presunta debolezza del morale americano. Ciò che Yamamoto non sapeva, e che nessuno in Giappone sospettava, era che l’Intellingence americana avesse invece decrittato, del codice della Marina imperiale JN25, quanto bastava per conoscere le intenzioni nipponiche. Di più: aveva anche già preso le opportune contromisure. Mentre la flotta giapponese entrava in mare, quella americana guidata dall’ammiraglio Chester Nimitz era infatti già uscita da Pearl Harbor, e stava andandole incontro.

La “Rengo Kantai o la Flotta Combinata” imperiale, era stata suddivisa in due elementi operativi: un gruppo era diretto a nord per effettuare una manovra diversiva tesa a occupare capisaldi nelle isole Aleutine, mentre la componente principale, al comando di Yamamoto, era destinata a compiere l’assalto su Midway. Si trattava di una forza poderosa e a sua volta distinta in tre reparti diversi: il primo riuniva le corazzate e le navi da battaglia ed era preparato a intervenire nel previsto scontro risolutivo contro la flotta americana con tutto il volume di fuoco delle sue artiglierie. Il secondo era la Kido Butai o forza mobile d’attacco comandato dal vice ammiraglio Chuichi Nagumo: qui erano concentrati i due terzi delle portaerei. La Kido Butai, però, era una specie di pugile dotato di un pugno devastante, ma pessimo per incassare i colpi avversari: le sue portaerei possedevano infatti difese antiaeree scadenti e avevano destinato solo pochi velivoli a protezione del convoglio; le navi di scorta, inoltre, erano state schierate in un ampio anello di ricognizione posto assai distante dalle portaerei, anziché cingerle da vicino. L’ultima componente della Rengo Kentai era costituita, infine, dalle forze da sbarco destinate a operare l’assalto anfibio su Midway.

Invito a cena nella Roma imperiale

Invito a cena nella Roma imperiale.
Dall’austerità delle cene repubblicane ai festini di epoca imperiale: un viaggio gastronomico nell’antica Roma.

Immaginiamo di ricevere un invito a cena da un antico romano. Siamo sulle rive del Tevere, al tramonto,. Finito il lavoro, inizia il riposo serale e in tutte le case cominciano i preparativi della cena. Possiamo scegliere il periodo? Senz’altro quello imperiale, quando l’austera semplicità a tavola cedette il posto al lusso. In origine i gusti erano semplici, basti pensare che il piatto principale era la famosa puls, una sorta di polenta composta da farina, solitamente di farro, ammollata in acqua bollita e accompagnata da legumi, uova, verdure e,  per chi poteva permettersela, carne. Questo piatto era diffuso un po’ in tutta l’Italia antica, tanto che i greci diedero il soprannome ai romani di pultiphagio o pultiphagonides, ossia ‘mangia polenta’. Mentre gli aristocratici abbandonarono quasi del tutto la puls sostituendola con il pane, Giovenale ricorda come nelle case della povera gente ancora bollissero grandi di terracotta fumanti di polenta.

Sapore di pane.
Nel secondo secolo a.C., la dura focaccia, fatta con puls disseccata e arrostita, venne sostituita dal pane lievitato. Comparvero anche le prime panetterie, chiamate pistrina. Tuttavia molti tradizionalisti vedevano in questo cambiamento un segno della decadenza dei costumi.
Triclini: la moda di banchettare alla greca.
Con il passare del tempo gli aristocratici iniziarono a banchettare sdraiati sui letti, imitando la nuova moda importata dai greci che, a loro volta, avevano ripreso l’abitudine dai popoli dell’Oriente. Questi letti, definiti triclini poiché su di essi vi era posto per tre persone distesi, venivano disposti a cerchio attorno a un basso tavolino centrale, e si lasciava un varco solo per il servizio. La sala da banchetto prese il nome di Triclino e i più ricchi avevano anche più triclini: alcuni erano maggiormente adatti al periodo estivo e altri a quello invernale. Per evitare di sporcare la coperta su cui erano distesi, i convitati si portavano da casa un tovagliolo. Quest’ultimo poteva anche servire per avvolgere gli avanzi del pasto, che a fine serata venivano   offerti dal padrone di casa.


CHE IL BANCHETTO ABBIA INIZIO! Abbandonata definitivamente la semplicità dei tempi antichi, in epoca imperiale il banchetto divenne status symbol dell’aristocrazia, il consumo di carne aumentò vertiginosamente soprattutto suini che, secondo Plinio, avevano la carne più buona (l’unica ad avere cinquanta sapori diversi), caprini e, più raramente, ovini (usati invece per il latte e la lana). Molto amati erano anche i volatili da cortile: anatre, piccioni e oche, ingrassate anche per ottenere il ficatum (il nostro foie gras). La gallina, fu allevata a lungo solo per le uova. Poco utilizzata fu da sempre la carne dei bovini poiché questi animali erano fondamentali per il lavoro dei campi, tanto che fino alla fine del IV secolo c’era l’esilio se non addirittura la pena di morte per chi ne uccideva uno. Completava il quadro la selvaggina, tra cui la lepre, il capriolo e il cinghiale. La carne era dura il pesce entrò tardi nell’alimentazione, ma in epoca imperiale il suo consumo si diffuse velocemente: anguille, molluschi (carissimi), cefali, orate, spigole, crostacei e murene.
Con l’espansione militare di Roma nel Mediterraneo, arrivarono sulle rive del Tevere cibi e sapori nuovi. Tra questi molti frutti: le ciliegie, secondo la tradizione introdotte nel 65 a.C., da Lucullo che le aveva apprezzate mentre guerreggiava sul Mar Nero contro Mitridate; le pesche e i limoni (originari rispettivamente di Cina e Pakistan), giunti a Roma dalla Persia.; le albicocche, originarie della Cina, il melograno, diffuso in tutto l’Oriente, e i datteri, provenienti dall’Africa. Questi frutti esotici erano molto cari, tanto che Marziale si lamenta di un anfitrione che non offriva mai  frutta ai suoi commensali per risparmiare! Nelle riserve di caccia degli aristocratici, poi, iniziarono a essere allevati animali esotici come lo struzzo, originario dell’Africa, e il fagiano, proveniente dalle zone vicino al Mar Nero. In epoca imperiale si potevano anche ingaggiare cuochi professionisti. I più ricercati erano senza dubbio quelli orientali e greci, che non solo dovevano cucinare piatti esotici, ma anche creare vere e proprie opere d’arte poiché il cibo doveva essere presentato a tavola scenograficamente. Siamo ben lontani dall’austerità e dalla semplicità dei primi tempi, quando anche il padrone di casa non disdegnava a mettersi ai fornelli. Il ‘De re conquinaria’, manuale di gastronomia attribuito ad Apicio, un buongustaio del I secolo d.C., è senza dubbio la più celebre opera di gastronomia del mondo antico e illustra bene quale fosse la cucina del periodo imperiale. Dalle ricette di quest’opera emergono la commistione in uno stesso piatto di carne e pesce, l’uso e , perfino l’abuso di condimenti, tanto da nascondere il sapore del cibo e, soprattutto, la mescolanza di dolce e salato che dava ai piatti un gusto agrodolce che dava ai piatti un tipico sapore orientale. Nascondere il sapore originario del cibo a noi pare insensato, ma non lo era per gli antichi romani. Basti pensare che, in un suo epigramma Marziale elogia la bravura di un cuoco, capace di imitare tutti i piatti adoperando solo la zucca! Lo stesso Apicio dà ricette con le aringhe.. senza aringhe!

Mangiare con le mani è un’arte.
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Sdraiati e con un solo braccio libero, i commensali non usavano posate, difficili da usare in quella posizione. Ma non era un problema: bastava allungare la mano per prendere il cibo, già tagliato in piccoli pezzi. Scrive Ovidio: “Prendi in punta di dita le vivande, è un’arte pure questa, che vuol garbo!”. E per pulirsi la bocca? Mollica di pane.
Prosciutto in crosta.
(Apicio, De re Conquinaria VII-IX.1).

Se si volesse provare, con Apicio sotto braccio, a riadattare qualche antica ricetta, ci si troverebbe davanti a un grosso problema: Apicio elenca gli ingredienti, ma non le quantità. Qui una sua ricetta reinterpretata dai moderni chef:
INGREDIENTI:  1 prosciutto di circa 3 kg
Per la brisé: 500 gr. di farina, 2 cucchiaini da tè rasi di sale, 10 cucchiai e mezzo di olio, 8 cucchiai di acqua gelata.
PREPARAZIONE: Comprare un prosciutto cotto (Apicio consigliava di lessarlo con molti fichi secchi e tre foglie di alloro, ma oggi basta acquistare un buon prosciutto) e togliere la cotica e parte del grasso. (praticamente le parti più buone). Praticare una serie di incisioni a rombi sulla superficie e bagnare con zucchero bruno o zucchero di ananas (Apicio usa il miele). Preparare la pasta brisée, stenderla con un mattarello e avvolgervi bene il prosciutto. Decorare con i ritagli e   spennellare con rosso d’uovo. Mettere in forno a 180° fino a che la pasta sia ben dorata. Servire caldo o freddo. Freddo è più buono. 


INVITO A CENA CON SORPRESA. Stupire gli ospiti era l’imperativo assoluto, come si evince dal Satyricon di Petronio, opera di fantasia ma sicuramente ispirata alle mode dell’epoca. Vi è descritto il pantagruelico banchetto di Trimalcione, un ex schiavo arricchito; in esso viene servito un cinghiale, cucinato intero e circondato da piccoli maialini e con due cestini colmi di datteri appesi alle zanne. Non appena il cuoco pianta il coltello nel fianco dell’animale, ne escono tordi vivi e svolazzanti. La libertà dura poco, visto che i poveretti vengono subito catturati, cotti e serviti! Letteratura a parte, un piatto molto famoso e ricercato era il porcus troianus: un maiale ripieno di salsicce con salse aromatiche e verdure il cui nome ricorda quello del leggendario cavallo di Troia “ri”pieno di soldati achei. Lucullo, contemporaneo di Cicerone, si fece costruire un tricilinio dentro una voliera. Mentre i suoi ospiti gustavano la carne di fagiano o di pavone, potevano anche vedere l’animale vivo e svolazzante. Piccolo inconveniente: l’odore di pollaio, che rendeva impossibile la sua permanenza all’interno. Più fortuna ebbero i triclini ad acqua. Plinio il Giovane ha lasciato una descrizione del suo triclinio: a una delle estremità di una piscina tondeggiante i commensali erano sdraiati  su triclini in muratura. Dall’altra parte, i servitori spingevano sull’acqua vassoi lignei stracolmi di bontà da gustare in modo tale che, galleggiando, queste raggiungessero i commensali. L’utilizzo di neve per raffreddare le vivande divenne una moda tra i ricchi, che pagavano un bicchiere d’acqua  refrigerata più cara di una coppa di buon vino. Con la neve si facevano sorbetti a base di latte, uova e miele: un vero e proprio gelato ante litteram! Allora come oggi i medici erano contrari alle bevande ghiacciate, anche perché la neve arrivava sporca nelle coppe a causa dei vari passaggi cui era sottoposta: raccolta sui picchi innevati, trasportata su carri, imballata nella paglia e, infine, immagazzinata. Plinio racconta che Nerone non fu il primo a utilizzare neve per refrigerare l’acqua, mentre Svetonio riferisce che abbia introdotto anche la moda di fare i bagni nella neve per arginare la calura estiva. Il gusto cambia nel corso del tempo. Ecco allora alcuni cibi che furono molto amati dagli aristocratici. La carne di pavone, per esempio, era considerata pregiatissima e molto costosa; una volta cotto, l’animale veniva presentato in tavola intero e ornato con le sue bellissime piume. Dall’editto di Diocleziano, sappiamo che il pavone femmina, con piume più modeste, costava un terzo in meno del maschio. Una vera e propria leccornia sembra essere stata la lingua di fenicottero, così come i talloni del cammello, di cui Apicio dà la ricetta. Per non parlare del cervello di struzzo, molto amato da Eliogabalo, o della carne di cucciolo di cane. Molti di questi cibi a noi fanno storcere il naso, ma come ci hanno insegnato gli antichi romani… de gustibus non est disputandum.


Articolo in gran parte di Barbara Faenza pubblicato su Storica National Geografic del mese di luglio 2018. altri tesi e immagini da Wikipedi