martedì 31 luglio 2018

La giustizia del Farone

La giustizia del Faraone.

Nell’antico Egitto i furti, le risse, gli abusi e le insolvenze erano giudicati da tribunali locali, mentre i reati più gravi, come l’omicidio o la ribellione, erano di competenza del visir del faraone.


Attorno al 1752 a.C., quando il re babilonese Hammurabi promulgò il suo famoso codice giuridico, in Egitto non esisteva nulla di simile. Se il sistema legislativo della civiltà mesopotamica si estendeva a tutti gli aspetti della vita quotidiana, i decreti dei faraoni riguardavano solo alcune questioni specifiche. Ne è un esempio il provvedimento emanato da Neferirkara Kakai, della V dinastia, per concedere delle esenzioni fiscali a un piccolo tempio di Abido, nell’Alto Egitto. Il primo codice legale egizio conosciuto apparve solo nel 715 a..C:, durante la XXIV dinastia. Era opera del faraone Boccori e, tra le altre cose prevedeva l’abolizione della servitù per debiti. L’assenza di testi giuridici non significa che in Egitto regnasse l’anarchia. Esisteva infatti un diritto consuetudinario, un insieme di pratiche, usi e costumi sorto dalla tradizione popolare e trasmesso oralmente, che con il tempo aveva acquisito lo status di legge. Una delle più preziose fonti di informazioni sul funzionamento della giustizia nel mondo faraonico si trova sulla riva occidentale del Nilo, esattamente nell’antico villaggio di Deir-el-Medina. Li vivevano gli operai incaricati di costruire le tombe dei faraoni del Nuovo regno (1552-1069 a.C.), la cui capitale, Tebe, era situata sulla sponda opposta. A Deir-el-Medina sono stati ritrovati ben 284 testi a carattere giuridico scritti su papiri e ostraka (frammenti di pietra o ceramica), in cui sono riportati diversi casi giudicati nella località stessa: alterchi, liti tra vicini, malversazioni, furti e vari episodi di violenza e di intimidazione. Secondo questi documenti, le controversie venivano risolte attraverso due organi giudiziarie che avevano entrambi sede nel villaggio: l’oracolo del faraone Amenofi I e un tribunale locale, il kenbet.


                                                      Il tempio di Medine Habu.
nel primo pilone del tempio di Ramses III si trova l'immagine ricorrente del faraone che ristabilisce la maat afferrando per i capelli i nemici dell'Egitto 
Medinet Habu è il nome solitamente dato al tempio funerario di Ramses III, un'importante struttura del Nuovo Regno situata nell'omonimo sito di Medinet Habu nella parte occidentale di Luxor, in Egitto. Oltre alla sua importanza instrinseca per le dimensioni, l'aspetto artistico e quello architetturale, il tempio è probabilmente meglio conosciuto per contenere inscrizioni raffiguranti l'arrivo e la sconfitta dei Popoli del mare durante il regno di Ramses III. Alcuni blocchi di pietra sembrerebbero essere stati asportati e riutilizzati nel tempio di Iside a Deir el-Shelwit.


Cronologia: legge e giustizia in Egitto.
2613-2345 a.C. La stele di Giza (IV o V dinastia), il più antico documento giuridico in Egitto giunto fino a noi, è un contratto di compravendita che dimostra l’esistenza di una specie di diritto civile.
2284-2216 a.C. Il faraone Pepi II emana un decreto, menzionato nel papiro di ipuwer, che dimostra l’esistenza di norme giuridiche durante la VI dinastia.
1319-1292 a.C. Horemheb fa incidere sul decimo pilone del tempio di Karnak un decreto composto di nove parti che mira a frenare gli abusi dei funzionari corrotti tramite una riforma del sistema giudiziario.
720-715 a.C. Il faraone Boccori (XXMIV dinastia() promulga il primo codice egizio di cui si abbia conoscenza. Nel I secolo a. C. Diodoro Siculo afferma che la nuova legislazione aboliva la servitù per debiti.
111 secolo a.C. Il codice di Ermopoli (dal nome della località in cui fu ritrovato) è un rotolo in papiro in scrittura demotica (usata nei documenti indirizzati al popolo) che contiene una raccolta di diritto civile a uso di magistrati e scribi. 


L’IMPERO DELLA MAAT.
Maat la dea della giustizia. questo rilievo rappresenta la Maat, dea della giustizia e dell'ordine, con una piuma di struzzo in testa. Nel giudizio di Osiride la piuma veniva posta su uno dei due piatti della bilancia per pesare il cuore del defunto.
Maat era l'antico concetto[1] egizio della verità, dell'equilibrio, dell'ordine, dell'armonia, della legge, della moralità e dellagiustizia[2]. Era inoltre personificata come una dea antropomorfa, con una piuma in capo[2], responsabile della disposizione naturale delle costellazioni, delle stagioni, delle azioni umane così come di quelle delle divinità, nonché propagatrice dell'ordine cosmico contro il caos[3]. La sua antitesi teologica era Isfet[4].
Mandata nel mondo da suo padre, il dio-sole Ra, perché allontanasse per sempre il caos, Maat aveva anche un ruolo primario nella pesatura delle anime (o pesatura del cuore) che avveniva nel Duat, l'oltretomba egizio[5][6]. La sua piuma era la misura che determinava se l'anima (che si credeva residente nel cuore) del defunto avrebbe raggiunto l'aldilà o men

Al vertice dello stato egiziano spesso rappresentato come una piramide sociale c’era il faraone che doveva regnare sul Paese in perfetto equilibrio e armonia. Gli antichi egizi esprimevano questo concetto con il termine maat, che indicava ordine, verità, equità e giustizia. La personificazione della maat era una divinità femminile , figlia del dio-sole Ra: veniva raffigurata con una piuma di struzzo sul capo e spesso anche con un lungo scettro e un ankh  (simbolo della vita) in mano. Maat era anche colei che difendeva l’ordine cosmico contro il caso. Nei testi egizi si afferma che l’obbligo di garantire la maat ricade sul faraone in quanto intermediario tra gli dei e gli esseri umani. “Ra ha mandato il sovrano sulla terra dei vivi, nei secoli dei secoli, per amministrare la giustizia degli uomini, compiacere gli dei, sostenere Maat e sconfiggere Isfet (il caos e l’ingiustizia)”, si legge in un trattato di teologia scritto ai tempi della regina Hatshepsut (1490-1468 a.C.) 

bassorilievo raffigurane Amenofi I. 
Figlio di re Ahmose I e della sorella di questi, la regina Ahmose Nefertari, ebbe come moglie la propria sorella Ahmose Meritamon, indicata come "figlia del re, sorella del re, grande sposa reale". Fino alla morte del fratello più anzianoAhmose Ankh, e probabilmente del fratello Ahmose-Sipair (è dibattuto se questi fosse figlio di Ahmose o del precedente faraone Seqenenra Ta'o), Amenofi non sembrava destinato a ereditare il trono dell'Alto e Basso Egitto[1]. L'enigmatica regina Ahhotep II è definita, in certe iscrizioni, sua sorella[2], nonostante una teoria alternativa vuole fosse sua nonna[3]. Si ritiene abbia avuto un figlio da Ahhotep II, chiamato Amenhemat, morto molto giovane[2], benché siano stati portati vari argomenti contro questa interpretazione[3]. Senza eredi legittimi in vita, ad Amenofi I succedetteThutmose I, in quanto sposo di Ahmes[2]. Siccome non è noto, riguardo ad Ahmes, il titolo di "figlia del re", alcuni autori dubitano che fosse veramente sorella di Amenofi I[3]
Amenofi fu divinizzato dopo la sua morte, avvenuta intorno al 1506 a.C., dopo un ventennio di regno, e fu venerato come patrono del villaggio di operai che aveva fondato a Deir-el Medina[13]. Sua madre, la regina Ahmes Nefertari, gli sopravvisse un anno e venne parimenti deificata dopo la morte, e il suo nome aggiunto alle invocazioni ad Amenofi I[14]. Il culto, particolarmente sentito, di re Amenofi ebbe un riflesso sull'arte statuaria: gran parte delle statue che lo rappresentano sono idoli funerari funzionali al tale culto, e appartengono a epoche anche molto successive. Amenofi veniva invocato sotto tre specifiche forme divine: Amenhotep della città, indi Amenhotep amato da Amon, e Amenhotep del cortile esterno[3]. Venne considerato un dio in grado di proferire oracoli: alcune delle domande che gli furono poste sussistono oggi su alcuni ostrakadi Deir el-Medina, e sembrano formulate come se l'idolo del re potesse dare cenni d'assenso o diniego, forse per un trucco dei sacerdoti. Inoltre, varie feste gli erano dedicate nel corso dell'anno. Ad esempio, nel primo mese dell'anno egizio, un giorno commemorava l'apparizione di Amenofi I agli operai della necropoli reale (forse da intendere come il giorno in cui la sua statua fu trasportata al villaggio)[15

IL VERDETTO DIVINO. L’oracolo era una statua in cui si credeva risiedesse il faraone Amenofi I divinizzato. Gli abitanti di Deir el-Medina potevano consultarlo in merito a qualsiasi tema, inclusi banali questioni della vita quotidiana come domani sarà un giorno propizio per costruire una nuova casa oppure rimarrò in cinta questo mese?”. In altri casi le domande si riferivano a conflitti fra vicini: “è stato Ineni a prendere una pentola al vicino senza permesso?; è mio quest’oggetto? Lo ha rubato qualcuno del villaggio?”. L’oracolo di Amenofi veniva consultato in occasioni delle processioni, nei giorni di festa, in mezzo all’enorme folla che si radunava per ascoltare i contendenti. Le richieste venivano fatte all’aperto e seguivano una procedura semplice. L’immagine della divinità veniva collocata su una lettiga trasportata da otto sacerdoti wab, (dei normali lavoratori che, nel tempo libero, prestavano servizio come officianti laici e si incaricavano delle cerimonie di purificazione). I querelanti formulavano le loro domande e i responsi dovevano essere chiari, spesso dei semplici si o no: se la statua si spostava in avanti la risposta era positiva, in caso contrario negativa. Il simulacro del faraone poteva anche vibrare o abbassarsi. A quanto si può vedere in alcuni dipinti murali, l’immagine del dio era circondata da una folla entusiasta di uomini e donne che cantavano, ballavano, suonavano i tamburi e altri strumenti musicali chiamati sistri, forse per celebrare la saggezza della sentenza. Il papiro 10335 del British Museum riferisce che, quando qualcuno chiedeva all’oracolo l’identità del ladro: Chi ha rubato il lino o il grano dai magazzini? Si procedeva a leggere ad alta voce la lista degli accusati o degli abitanti di tutto il villaggio. Se all’udire un certo nome la statua faceva qualche movimento particolare (per esempio vibrava ), la persona veniva dichiarata colpevole. Il papiro riporta il caso di un imputato che si proclamò innocente nonostante il verdetto accusatorio del dio. Ma quando altri due oracoli successivi confermarono il primo e convinsero gli spettatori della sua colpevolezza, l’uomo fu abbandonato anche dai suoi sostenitori e picchiato fino a che non confessò i crimini commessi.
Mentire sotto giuramento era considerato un reato grave: invocare il faraone o il dio Amon come testimoni di una falsità era un’offesa punita con la morte. Quindi la giuria ascoltava la denuncia ed emetteva il verdetto, anche se non è chiaro quale sistema di voto adottasse. La maggior parte dei processi si svolgeva nei fine settimana, in Egitto la settimana durava dieci giorni, di cui otto erano lavorativi, o durante le festività locali. In nessun caso era possibile interrompere i lavori alla tomba del faraone. Davanti al kinbet potevano arrivare cause di vario tipo, come quella di una donna che denunciò le violenze subite dal marito e di cui non è nota la conclusione. In un caso opposto un uomo accusò la moglie di non esseri presa di lui quando era malato. Alcuni processi riguardavano i contratti di noleggio degli asini. Questi animali venivano affittati per il trasporto di acqua, legna o persone, ed erano piuttosto cari: il costo poteva raggiungere i tre sacchi di frumento al mese. In più di un’occasione l’affittuario non pagava la somma pattuita o non dava da mangiare all’asino durante il periodo d’uso. In altri casi il proprietario affittava un asino in cattive condizioni fisiche, che moriva qualche giorno dopo, per poi chiedere in risarcimento un animale più giovane.

                                                     Il villaggio degli operai. Panoramica di Deir-el-Medina
                                                    https://it.wikipedia.org/wiki/Deir_el-Medina
Il villaggio di Deir el-Medina, in Egitto nei pressi dell'odierna Luxor, il cui nome in egizio era Pa demi ossia "la cittadina",[2] costituisce uno dei tre esempi noti di "villaggio operaio" (gli altri sono quello di Tell el-Amarna, l'antica Akhetaton, e di Kahun, nei pressi di el-Lashur) che ospitavano gli artigiani e, in genere, le maestranze preposte alla realizzazione e manutenzione delle tombe degli antichi Re della XVIIIXIX, e XX Dinastia. Si tratta, in questo caso, delle tombe della Valle dei Re.

Scandalo a Tebe.
il papiro Abbo. Questo papiro conservato a la British Museum racconta il caso del sovrintendente corrotto di Tebe ovest, Pauraa, accusato di far parte di una rete dedita al saccheggio di tombe nella necropoli tebana

Alla fine della XX dinastia si verificarono alcuni episodi di furti nelle tombe della Valle dei Re, luogo di sepoltura dei sovrani egizi. Uno di questi casi è giunto fino a noi grazie a documenti come il papiro Abbot, che contiene un riassunto della vicenda giudiziaria. Nell’anni 16 del regno di Ramses IX (1100 a.C.) Paser, sindaco di Tebe, presentò una denuncia contro Pauraa, sovrintendente di Tebe ovest e della necropoli. Le indagini fecero emergere una rete ben organizzata di ladri di tombe, di cui facevano parte importanti membri dell’amministrazione. Durante l’interrogatorio gli otto imputati furono bastonati con un palo e sottoposti alla torsione delle mani e dei piedi. Alla fine confessarono di essere penetrati in una tomba reale, di averla saccheggiata e di aver bruciato le mummie del re e della regina. Per la tematica affine si possono collegare al primo anche il papiro Amherst (nel quale si riporta la testimonianza di un ladro) e il papiro Meyer (cita i nomi di alcuni saccheggiatori).



                                                   Il Tempio di Karnak. 
il tempio del dio Amon a Karnak, sulla sponda orientale di Tebe, fu progressivamente ampliato con nuovi piloni e santuari dei faraoni che si succedettero. Nel tempio venivano giudicati i casi di saccheggio di tombe reali. Su alcune pareti furono incisti testi legali come la stele giuridica di Karnak, un documento del regno del faraone Nebiryeau I (XVII dinastia) o il decreto di Horemheb, emanato dall'ultimo faraone della XVIII dinastia.
https://it.wikipedia.org/wiki/Complesso_templare_di_Karnak
Il complesso templare di Karnak - di cui il Grande tempio di Amon e il Tempio di Luxor costituiscono solo una parte - si trova sulla riva destra (rispetto alla sorgente) del Nilo e la sua costruzione procede di pari passo con la storia egiziana antica; esso è, infatti, un sovrapporsi di strutture successive tanto che è oggi quasi impossibile individuare il nucleo originale (vedi fig. b.), risalente al Re Sesostris I della XII Dinastia, che era costituito da tre piccoli locali orientati Est-Ovest, oggi inesistenti, e di cui si conservano solo le soglie ubicate nell'area posteriore al santuario della "barca sacra" di Filippo Arrideo, e nei pressi del "Chiosco di Sesostri I" ricostruito con componenti rinvenuti quale materiale di riempimento del III Pilone (Seti IXIX Dinastia).

UNO SPETTACOLO PUBBLICO. Il kenbet giudicava anche alcuni crimini come i furti di beni statali. In simili eventualità la giuria popolare era composta da membri di una categoria sociale più elevata del solito, come gli scribi del visir di Tebe o i capi della polizia. È questo il caso di una donna di nome Heria, accusata di aver rubato una coppa a un privato, fatto che di per sé non avrebbe avuto grande rilevanza, ma di fronte al rifiuto diHeria ad ammettere il furto, il kenbet ordinò una perquisizione della sua abitazione, dove altro alla coppa in questione furono trovati alcuni beni del tempio di Amon scomparsi tempo prima. Heria continuò a negare ogni responsabilità, ma il kenbet la ritenne colpevole e trasferì immediatamente il caso al visir. La storia di Heria si è conservata grazie alla copia di una lettera che lo scriva del tribunale inviò al visir stesso e in cui dichiarava: “Heria è una manipolatrice che merita la morte”. Le sessioni del kenbet erano pubbliche e vi potevano assistere tutti gli interessati. In un’epoca in cui scarseggiavano altre forme di intrattenimento i casi giudiziari dovevano rappresentare un bel diversivo per gli abitanti di Deir el-Medina. I processi iniziavano con la riunione dei membri del tribunale per ascoltare le accuse del querelante. Le pene andavano dalle multe e dagli ammonimento a non ripetere gli atti fino alle punizioni corporali, che nei casi più gravi prevedevano la bastonatura.

Carceri in stile egizio.
prigionieri e servi. I prigionieri di guerra - come quelli raffigurati in questo bassorilievo del tempio funerario di Ramses III a Medinet Habu diventavano proprietà a vita del faraone, che poteva darli in schiavitù a chi li aveva catturati

All’epoca dei faraoni non esisteva il concettosi carcere come lo intendiamo oggi. Nell’Antico regno compaiono tracce di un’istituzione chiamata kheneret (ovvero luogo chiuso o luogo recintato) che, però si perdono a partire dalla XVIII dinastia. Dall’altro canto, in alcuni testi si fa riferimento all’idea di rinchiudere le persone: ne sono un esempio queste parole di Pepi-Ankh, nomarca del nomo dell’albero e visir: “Non sono mai stato sorvegliato, non sono mai stato incarcerato”. A partire dal Medio regno i kheneret sono centri di reclusione per reati come il sottrarsi agli obblighi di lavoro dovuti al faraone. Nel Nuovo regno questa istituzione fu sostituita dall’itehu, che aveva funzioni simili. In caso di particolare gravità del crimine, i condannati potevano essere inviati in centri di lavoro forzato situati ai confini con l’Egitto o all’estero. Un decreto della V dinastia dice: “dovrà essere trasferito alla Grande Dimora e costretto a lavorare nella cava di pietra”. 

Egitto. Oro e sudore.
Forse i gioielli egizi vi sembreranno meno belli, sapendo in quali condizioni vivevano gli uomini che, fin dal VI millennio a.C., cavavano la preziosa materia prima con cui venivano realizzati. Gli Egizi estraevano la polvere d’oro dai blocchi di quarzo aurifero, un minerale che arrivava dalle miniere del faraone, nel deserto orientale (al confine tra Egitto e Sudan). Ce ne voleva una tonnellata per ricavare pochi grammi d’oro, perciò il lavoro non aveva sosta. Una vera e propria maledizione per i prigionieri di guerra, gli schiavi o i condannati ai lavori forzati che venivano impiegati in queste miniere spesso accompagnati dalle loro famiglie.

TOUR DE FORCE. Incatenati, faticavano giorno e notte nelle gallerie semibuie, scavate a mano nella roccia fino a 25 metri di profondità. Spazi augusti che li costringevano a picconare sdraiati sulla schiena o sul fianco, mentre schegge affilate volavano ovunque, anche negli occhi. Ma c’erano anche altri modi per non rivedere più la luce: i minatori potevano morire burciati dal fuoco acceso sotto alla roccia di quarzo per facilitarne il distacco, soffocati dai fiumi di arsenico sprigionati dal minerale o schiacciati dai frequenti crolli.


LA GIUSTIZIA DEL VISIR. Il kenhet non poteva pronunciarsi sui crimini più gravi, che comportavano pene di reclusione, lavori forzati, mutilazioni o morte, e non poteva neppure concedere la grazia. Tutto ciò era di competenza del visir, il primo ministro del faraone, che risiedeva a corte. Questi reati venivano quindi giudicati prima dal kenbet a Deir el-Medina: se poi l’accusato era ritenuto colpevole, il suo caso veniva trasferito al visir, che in Egitto rappresentava l’ultima istanza giudiziaria, cioè una specie di corte suprema.
Nel papiro Salt 124, conservato al British Museum, c’è un esempio dei processi che potevano arrivare davanti al visir.l’imputato, un certo Paneb, doveva affrontare una lunga lista di accuse: furto, saccheggio di tombe, minacce di morte, corruzione del precedente visir, appropriazione indebita di strumenti del governo egizio di uso personale, comportamento tirannico nei confronti degli abitanti del villaggio, stupri, insulti contro gli dei e omicidio. La denuncia era stata presentata da Amonnakhat, un operaio di Deir el-Medina risentito per il fatto che Paneb gli aveva rubato il posto di capomastro. Non si sa se Paneb fu condannato, perché purtroppo la sentenza finale del visir è andata perduta. Se i suoi crimini furono provati, la pena prevista dalla legge egizia per casi del genere era la condanna a morte, eseguita tramite somministrazione di un veleno mortale o impalamento. Non è chiaro quanto fosse frequente la pena capitale, ma pare che i faraoni tendessero applicarla con moderazione. Per esempio, uno dei faraoni Khety consiglia al figlio Merikara: “Agisci con giustizia, se vuoi conservarti a lungo sulla terra (…) evita di punire ingiustamente. Non colpire nessuno con il coltello, perché ciò è inutile. La prigione e la frusta sono sufficienti a mantenere l’ordine nel Paese, tranne per i ribelli i cui piani vengano scoperti. Dio conosce i colpevoli e ne punisce i peccati con il sangue”. Tra i castighi raccomandati, oltre alla reclusione e alla fustigazione, c’erano i lavori forzati nelle cave o nelle miniere. Come emerge dalla frase di Khety, erano le rivolte contro il sovrano a essere punite senza esitazione con la morte. Ne fornisce un esempio il Papiro giuridico di Torino, che contiene un resoconto completo del processo ai responsabili di un complotto contro il faraone Ramses III, della XX dinastia. La cosiddetta “congiura dell’harem”, che si concluse probabilmente con la morte del sovrano,vide la partecipazione di ufficiali, funzionari di palazzo molto prossimi al faraone. Tuttavia, la vera ideatrice dell’assassino fu la regina Tiye, che voleva sostituire suo figlio Pentaur al legittimo erede al trono, il figlio della moglie principale del faraone, Iside. Lo svolgimento del processo fu semplice: gli accusati furono convocati di fronte al tribunale, dichiarati colpevoli e condannati. Quando, durante le udienze, emerse la complicità di alcuni giudici con sei delle donne accusate, nacque un vero e proprio scandalo. I giudici furono immediatamente puniti:la maat non aveva pietà per i suoi servitori infedeli.


Busto colossale di Akhenaton, con tracce dei colori originari, proveniente dal Grande tempio di Aton ad Amarna (Museo egizioIl CairoAmenofi IV o Amenhotep IV (Tebe, 1375 a.C. circa – Akhetaton, 1334/1333 a.C. circa), è stato un faraone egiziodella XVIII dinastia. Regnò per 17 anni[11], morendo probabilmente intorno al 1334 a.C.
È celebre per aver abbandonato il tradizionale politeismo egizio a favore di una nuova religione di stampo enoteistico, monolatrico[12] (che mantenne, cioè, la credenza in più divinità pur adorandone una sola[13]) o pseudo-monoteistico[N 2], introdotta da lui stesso e basata sul culto del solo dio Aton, il disco solare[14]. La sua rivoluzione religiosa, duramente contrastata[15], si rivelò effimera. Pochi anni dopo la sua morte, i suoi monumenti furono occultati o abbattuti, le sue statue spezzate o riciclate e il suo nome cancellato dalle liste reali[16][17]. Le pratiche religiose tradizionali furono gradualmente restaurate e i sovrani che pochi decenni dopo fondarono una nuova dinastia, senza legami con la XVIII dinastia, screditarono Akhenaton e i suoi immediati successori (NeferneferuatonSmenkhara,Tutankhamon e Ay), appellando lo stesso Akhenaton "il nemico di Akhetaton"[18] o "quel criminale"[19]. A causa di questa damnatio memoriae, Akhenaton fu completamente dimenticato fino alla scoperta, nel XIX secolo, del sito archeologico di Akhetaton (Orizzonte di Aton[20]), la nuova capitale che egli fondò e dedicò al culto di Aton, presso l'attuale Amarna. Gli scavi iniziati dall'archeologo inglese Flinders Petrie nel 1891, e terminati nel 1937, fecero nascere un grande interesse nei confronti di questo enigmatico faraone. Una mummia scoperta nel 1907 da Edward Ayrtonnella tomba KV55 della Valle dei Re potrebbe essere la sua[21]: recenti analisi del DNA hanno accertato che l'uomo scoperto nella KV55 era padre di re Tutankhamon[22], ma l'identificazione di tali resti con Akhenaton è assai dibattuta[5][23][24][25]
ECCO LE PENE PIU’ GRAVI. Nell’antico Egitto la giustizia prevedeva diversi tipi di punizioni corporali. Tra le altre spiccano l’amputazione delle estremità, per esempio naso e dita, un castigo che lasciava il condannato segnato a vita. I responsabili di reati come il mancato pagamento delle tasse erano sottoposti ad altri tipi di castighi pubblici, come la bastonatura e la fustigazione a sangue. In alcuni casi lo stato egizio ricorreva anche alla pena capitale. Rubare in un tempio o insultare o attentare contro la persona del faraone erano considerati reati più gravi che un cittadino potesse commettere ed erano puniti con la morte. L’esecuzione poteva avvenire in vari modi: il più utilizzato fu probabilmente l’impalamento, che consisteva nell’infilzare una pala per il retto, la vagina o la bocca del condannato. L’esposizione pubblica era parte integrante della pena stessa. Per evitare questo supplizio, ad alcune persone appartenenti alle classi privilegiate veniva offerta la possibilità di suicidarsi tramite l’ingestione di veleno. Un’altra pena di morte diffusa era quella per annegamento. Secondo Eusebio veniva praticata anche la decapitazione.

Ma una punizione ancora peggiore della pena capitale era la morte nella vita ultraterrena. La condanna più estrema che si potesse infliggere a un condannato consisteva nel bruciare il suo cadavere o gettarlo nel Nilo e cancellare il suo nome, perché implicava la scomparsa nell’aldilà. In questi casi ai familiari non veniva restituito il corpo del defunto né concessa la possibilità di svolgere qualche forma di rito funebre.    

articolo in parte di Irene Cordon I Sola-Sagales. Storica membro della Società Catalana di Egittologia,  pubblicato su Storica NAtional Geografic di Giugno 2018 altri testi e immagini da Wikipedia 

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