AUSPICI, PRESAGI E PROFEZIE.
Indovini a Roma.
Preoccupati da ciò che gli riservava il futuro, i romani adoperarono ogni mezzo per conoscere in anticipo i disegni divini. Fecero ricorso a indovini e aruspici, sacerdoti specializzati nell’interpretare la volontà degli dei.
Suovetaurilia: sacrificio di un toro, un maiale e una pecora; Maestro delle imprese
Pochi popoli hanno vissuto ancorati ai buoni e cattivi presagi nell’andamento della vita quotidiana come gli antichi romani. In ogni momento del giorno o della notte poteva presentarsi un segno di cattivo auspicio. Se un romano inciampava nella soglia di casa, pensava che quel giorno fosse meglio stare in casa. Se durante un banchetto si udiva il canto di un gallo, si smetteva di mangiare e si facevano gli scongiuri per allontanare il presagio negativo.
Accadeva lo stesso negli affari pubblici. Prima di riunire un’assemblea, eleggere un magistrato o andare in battaglia si considerava imprescindibile consultare la volontà degli dei per assicurarsi risultati favorevoli. A tal fine, era utilizzata una particolare pratica di divinazione: gli auspici, in altre parole l’osservazione degli uccelli, dal latino auspicium o avispicium, più concretamente del loro volo o del canto. Come asserì il filoso e politico Cicerone, dall’abolizione della monarchia all’instaurazione della repubblica “a Roma nessuna decisione riguardante lo stato, in pace come in guerra si prendeva senza essere primi ricorsi agli auspici”.
AUGURI E AUSPICI A ROMA.
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47 d.C. Claudio riorganizza l’Ordo LX haruspicum, un ordine di aruspici etruschi che
collaborerà con gli imperatori e con il senato.
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Contro la superstizione.
Cicerone, nell’opera Della Divinazione, si mostra molto critico nei confronti della superstizione. Ritiene che generi paure e insicurezze, devii dai canoni religiosi stabiliti e costituisca un pericolo per la sicurezza dello stato. Perciò è indispensabile superarla: “la superstizione si è estesa a tutti i popoli, ha oppresso gli spiriti di quasi tutti gli uomini e ha fatto loro commettere una quantità di stupidaggini”.
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La Sibilla Cumana (gr. Σίβυλλα, lat. Sibylla), sacerdotessa di Apollo, è una delle più importanti Sibille, figure profetiche delle religioni greca e romana
ROMOLO IL PRIMO AUGURE. La pratica degli auspici risale alle origini dell’Urbe. Secondo il noto racconto della fondazione di Roma, i fratelli Romolo e Remo decisero di consultare gli auspici per sapere chi dei due dovesse fondare la nuova città. Remo si pose sul colle Aventino e avvistò sei avvoltoi, mentre Romolo dal Palatino ne scorse il doppio. Romolo e Remo furono considerati i primi àuguri, sacerdoti incaricati dell’interpretazione dei segni degli uccelli. A Numa Pompilio, secondo re di Roma, fu attribuita più tardi la fondazione del collegio augurale. In origine il collegio era presumibilmente composto di tre membri, numero che Tarquinio portò a sei, e che raggiunse i sedici membri nel I secolo a.C. per molto tempo, l’accesso a questo incarico fu limitato ai patrizi, l’aristocrazia che dominava Roma sin dalla costituzione della repubblica. Tuttavia nel 300 a .C. una legge riservò ai plebei cinque dei nove posti di cui allora il collegio era composto.
Importanti per tutta l’epoca imperiale, gli àuguri si riconoscevano da due segni distintivi: il lituus o lituo, un bastone arcuato all’estremità superiore, e la trabea, un tipo di toga con le strisce di color rosso brillante e l’orlo porpora. Si ritiene che il lituo di Romolo fosse custodito nella culla dei Salii, sul Palatino, e che fosse miracolosamente scampato all’incendio che aveva bruciato il recinto nel 390 a .C., quando Roma fu invasa dai Galli. Quando questi ultimi abbandonarono la città, l’importante reliquia apparve sul pavimento dell’edificio incendiato senza aver subito alcun danno. Il lituo era rappresentativo per il potere della repubblica e veniva persino raffigura sulle monete. La scienza augurale aveva grande prestigio a Roma, grazie al particolare legame che questa aveva con Giove, che si consultava e invocava dall’alto del colle. Tuttavia, occorre ricordare che gli àuguri non erano intermediari tra gli dei e gli uomini ma, come sostiene Cicerone “interpreti degli dei”. Infatti, i veri intermediari (internuntiae Iovis) di cui si serviva il dio per comunicare con gli uomini erano gli uccelli, non gli àuguri. I romani non erano gli unici nell’antichità a consultare gli dei sul futuro. Com’è risaputo, i greci avevano molti oracoli, come quelli dei santuari di Zeus a Olimpia o di Apollo a Delfi. Anche i romani avevano un oracolo, quello della Sibilla Cumana. I responsi della pitonessa (pizia) si basavano sui libri di profezie portati a Roma dai primi re della città, e che furono in seguito consultati dai magistrati, i decemviri, ogni volta che nell’Urbe si prospettava una sventura. Le cronache raccontano che i Libri sibillini furono consultati in occasione delle copiose piogge di pietre su Roma. Il responso, confermato dall’oracolo di Delfi, fu di portare a Roma, dalla città di Pessinunte (in Asia Minore), un betilo o pietra sacra, che rappresentava la dea Cibele. All’infuori di questi libri, la divinazione romana era ben lontana dal competere con quella greca o etrusca. L’augure osservava e interpretava i segni offerti dagli uccelli, senza preoccuparsi di prevedere o annunciare il futuro. Chiedeva a Giove di inviargli un segno per capire se fosse lecito intraprendere una guerra, celebrare un’assemblea o nominare un sacerdote.
La risposta della divinità poteva essere solo affermativa o negativa, e non illuminava mai sul futuro. L’auspicio aveva infatti la sola finalità di conoscere la volontà di Giove, in altre parole di sapere se la divinità approvasse o no i progetti politici o militari romani, e non cosa riservasse alla città il destino. Il responso aveva inoltre una validità precisa, scadeva alla fine del giorno, anche se si poteva ripetere quello successivo o in altri momenti. L’augure romano non era, pertanto, un indovino con il ruolo di predire il futuro. A Roma la funzione più propriamente divinatoria era compiuta dall’aruspicina, antica scienza introdotta dagli etruschi, e dall’astrologia.
Il lituo era uno strumento di culto nell'antica Roma, già in uso presso popoli come gli etruschi e i latini. Era costituito da un bastone ricurvo in cima. La forma era simile a quella del pastorale, il bastone curvo del Vescovo. Wikipedia
I suovetaurilia.
Prima di intraprendere una battaglia, l’esercito romano si purificava con la cerimonia della lustratio. In essa si eseguivano i suovetarulia, il sacrificio di un maiale, una pecora e un toro. Gli aruspici interpretavano le viscere degli animali per conoscere la volontà degli dei. Gli animali erano condotti dal victimarius, mentre bucinatores e symphoniacus intonavano melodie sacre.
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CLASSI DI AUSPICI. Gli auspici si potevano racchiudere in due tipologie. Gli auspicia oblativi erano quelli che si presentavano inaspettatamente, come potevano essere i lampi e i tuoni, definiti ex caelo, in altre parole segni dal cielo. Erano considerati molto sfavorevoli poiché rappresentavano l’interruzione della pace con gli dei (pax deorum) ed erano interpretati come il segno che doveva impedire o annullare un determinato progetto. Se si verificavano durante i comizi o una sessione al senato, bisognava interpretare immediatamente l’evento. Questo tipo di auspici poteva essere percepito e interpretato da chiunque. La seconda tipologia era costituita dagli auspici richiesti (auspicia impetrativa), in altre parole compiuti da un magistrato con diritto di auspicio, come un console. Era uno di loro a “osservare” o “ricevere il segno” inviato dagli dei, sempre con l’aiuto dell’augure che, in qualità di “esperto” o di “consigliere”, interpretava i segni diretti al magistrato. Il magistrato doveva pertanto sottostare ai responsi degli àuguri, con conseguenze rilevanti, perché questi potevano paralizzare o ritardare i propri piani.
Il sacrificio di un console.
Nel
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Manuale d’istruzioni per leggere fegati.
Nel 1877 nei pressi di Piacenza fu ritrovato un oggetto di bronzo a forma di fegato di pecora, datato intorno all’anno
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l'altare dei Lari. Le case custodivano un altare dedicato ai lari, divinità domestiche. In questo, appartenente ai Vettij, a Pompei, lo spirito del focolare (con la testa ricoperta da un velo) attorniato da due lari, sta per offrire un sacrificio
I Lari (dal latino lar(es), "focolare", derivato dall'etrusco lar, "padre") sono figure della religione romana che rappresentano gli spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale.
Agostino di Ippona nella sua opera La città di Dio, in cui cita Apuleio, riporta che sono le anime dei defunti buoni:
(LA)
« Dicit quidem et animas hominum daemones esse et ex hominibus fieri lares, si boni meriti sunt; lemures, si mali, seu larvas; manes autem deos dici, si incertum est bonorum eos seu malorum esse meritorum. »
| (IT)
« [Apuleio] afferma inoltre che anche l'anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione. »
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(Agostino di Ippona, La città di Dio IX,11[1) |
GLI UCCELLI, MESSAGERI DIVINI. Per la richiesta di auspici si rispettava un procedimento ben disciplinato. I sacerdoti si ponevano nell’auguraculum, uno spazio quadrangolare di piccole dimensioni, generalmente recintato e con un’unica entrata, e posto in cima a un colle. Al centro s’innalzava una tenda o capanna, all’interno una sedia in pietra su cui occupava posto l’augure. Da qui tracciava con il lituo uno spazio celeste immaginario, o templum, e procedeva con l’osservazione. La richiesta si compiva all’alba e in assoluto silenzio. Qualsiasi rumore, la caduta di un oggetto, lo squittio di un topo o semplicemente un errore del celebrante nel recitare la formula annullava gli effetti del consulto. L’orientamento nord-sud ed est-ovest era fondamentale dato che divideva lo spazio celeste in quattro porzioni proiettate in forma immaginaria sulla terra, il templum terreste. Forse guardando verso sud l’augure osservava gli uccelli entrare nel templum: quelli favorevoli venivano da sinistra, e quelli sfavorevoli da destra. Gli àuguri esaminavano non solo il volo ma anche la specie di uccelli in questione. Gli alites (avvoltoio, aquila, falco) per esempio, esprimevano segnali attraverso il volo, e il luogo in cui si posavano. Invece gli oscines (corvo, cornacchia, gufo) davano segni attraverso il canto e se ne valutava il tono, la direzione del suono o la frequenza. In entrambi i gruppi esisteva una gerarchia tra gli uccelli, in cui l’aquila e il picus (ovvero il picchio) assicuravano gli auspici più significativi. Gli auspici erano precettivi in numerose circostanze della vita dello stato romano. Si facevano, per esempio, nell’assunzione delle funzioni dei principali magistrati, come consoli, censori e tribuni militari. Nel caso di magistrati eletti, se gli auspici non erano favorevoli, bisognava rinunciare all’incarico, anche se comunque la consultazione si poteva ripetere in un altro giorno. Cicerone ricorda la capacità degli àuguri di sciogliere le assemblee o il senato, di annullare le sessioni già iniziate e persino di riuscire a far sì che i consoli rinunciassero al loro mandato. Infatti, secondo Cicerone bastava una semplice formula: “A un altro giorno” anche sul campo di battaglia era obbligatorio consultare gli auspici prima di entrare in combattimento. Tito Livio racconta che, durante la guerra tra Roma e la città etrusca di Veio agli inizi del IV secolo a.C., l’esercito romano non poté sferrare l’attacco, nonostante gli etruschi aspettassero rinforzi, poiché il dittatore Camillo “Fissava con insistenza la cittadella, da dove gli àuguri dovevano inviare il segnale convenuto, non appena i presagi fossero propizi”. Quando i romani cominciarono a combattere lontano dalle città, la comunicazione con gli àuguri diventò più difficile. Difatti, prima di partire per una campagna, i generali disponevano con una cerimonia nel Campidoglio che li legittimasse a consultare gli auspici di guerra fuori dai confini della città.
il monte Palatino. In epoca imperiale il colle diventò la residenza ufficiale degli imperatori. Era uno dei luoghi in cui si realizzavano le augurationes attraverso l'osservazione degli uccelli.
La morte annunciata di Cesare.
Prima dell’assassinio di Giulio Cesare alle Idi di marzo del
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TECNICHE DI MINOR PRESTIGIO. Nel I secolo a.C., l’ultimo della repubblica, la scienza augurale entrò in crisi o, forse, si trasformò per adattarsi ai nuovi tempi. Gli auspici tradizionali furono sostituiti dalla tecnica del tripudium, che consisteva nell’osservazione dell’appetito e del comportamento dei polli sacri. Se all’uscita dalla gabbia in cui erano rinchiusi i volatili, mangiavano con avidità i chicchi appena gettati, e qualche granello si staccava dal becco e cadeva a terra, allora il presagio era favorevole. Se, al contrario, non avevano appetito o battevano le ali, il presagio era sfavorevole. La spiegazione del cambiamento risiede probabilmente nella semplicità del nuovo metodo, in contrasto con la complessità dell’osservazione e interpretazione degli uccelli augurali. Al tripudium ricorrevano i capi militari e i magistrati che non avevano diritto di auspicio. Questi ultimi avevano un assistente per compiere l’osservazione, il pullarius. In quegli anni sembra che si consultassero i polli sacri in diverse occasioni, sul campo di battaglia o prima di iniziare una sessione in senato. La popolarità del metodo è dimostrata dal fatto che l’imperatore Augusto si facesse ritrarre con i polli sacri in opere come il Cammeo di Colonia o nell’altare dei lari del Vicus sandalarius, quartiere dei fabbricanti di sandali a Roma. Ciononostante, erano in molti a sostenere che questo metodo non avesse lo stesso valore degli auspici tradizionali. Cicerone, che oltre a essere un politico e filosofo era anche un augure, lamentava che non si osservassero più nel cielo aperto uccelli nobili e grandi come l’aquila. Ma semplici polli chiusi in gabbia.
Il rifiuto dei polli.
Durante la prima guerra punica il console Publio Claudio Pulcro, al comando della flotta romana in Sicilia, consultò i polli sacri per sapere se gli dei gli sarebbero stati favorevoli in battaglia. Nonostante gli sforzi dell’augure, i polli si rifiutarono di mangiare e il console, furioso, ordinò di gettarli in mare mentre esclamava: “Se non vogliono mangiare, che bevano”. Inutile dire che la battaglia fu persa.
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INDOVINI ETRUSCHI. Agli inizi del II secolo a.C. il senato importò a Roma una nuova categoria d’indovini: gli aruspici etruschi. Si tratta di un caso eccezionale, difatti poche società antiche concedevano a un sacerdote di nazionalità straniera, in questo caso etrusca, di parte picare alle questioni religiose e politiche nazionali, in più Roma e l’Etruria erano state potenze nemiche irreconciliabili per oltre due secoli. Il sacerdozio degli aruspici era prestigioso e inizialmente era legato alle famiglie aristocratiche etrusche, sostituite con il passare del tempo da aruspici di origine romana o latina che agivano come consiglieri provinciali e imperatori, funzionari delle città o indovini dell’esercito romano. Gli aruspici utilizzavano tre tecniche divinatorie: l’aruspicina o osservazione delle viscere delle vittime sacrificali, l’interpretazione di fenomeni quali terremoti, eclissi solari, passaggio di comete, nascita di bambini con malformazioni o di animali con due teste… Gli aruspici diventarono famosi per tutte tre le tecniche ma la più importante fu senza dubbio l’aruspicina. Questa pratica divinatoria incentrava l’attenzione sul fegato, una delle sei viscere estratte dall’animale (le altre erano milza, stomaco, reni, cuore e polmoni). Anzitutto, si osservava la posizione all’interno del corpo e, dopo l’estrazione, si analizzavano il colore e l’aspetto esterno. Con una postura rituale caratteristica, l’aruspice teneva il fegato nella mano sinistra e lo palpava con la destra mentre poggiava il piede sinistro su una roccia. Il fegato doveva orientarsi sempre verso sud. Per determinare la divinità corrispondente e il significato di qualsiasi anomalia o deformità l’indovino era solito servirsi di uno strumento ausiliario, un fegato di bronzo di piccole dimensioni, come il fegato di Piacenza (vedi riquadro sopra). Quest’oggetto presenta i nomi delle divinità iscritti nei registri o caselle (sedes deorum) nelle diverse sezioni dell’organo.
Nel I secolo a.C. furono introdotte altre forme di divinazione provenienti dall’estero, in altre parole l’astrologia, l’interpretazione dei sogni o le tecniche profetiche di engastrymithoi (ventriloqui) e harioli (indovini). In epoca imperiale si diffusero profezie e oracoli, con circoli di profete germane (Veleda, Ganna, Aurinia) o druidi galli (Maricco) che annunciavano la fine di Roma. Quando il tempio di Giove Capitolino subì un nuovo incendio nel 69 d.C., i druidi interpretarono il fuoco come un segno della collera degli dei e profetizzarono non solo l’imminente fine dell’impero, ma anche la nuova egemonia dei galli. Tuttavia, àuguri e aruspici mantennero le loro funzioni fino alla fine dell’impero. Ancora nel 410 d.C. offrivano i loro servigi al prefetto di Roma per frenare l’invasione dei barbari di Alarico richiamando i fulmini contro l’esercito nemico. Quella volta il tentativo non funzionò.
Il collegio degli Aruspici.
Nel 47 l’imperatore Claudio presentò al senato una petizione per chiedere la protezione della disciplina divinatoria dell’aruspicina, di origine etrusca. Tacito spiega negli Annali: “Claudio riferì poi in senato sul collegio degli aruspici, onde impedire la scomparsa, per incuria, di un sapere antichissimo in Italia”. Fu pertanto promulgato un decreto per preservare e rafforzare la disciplina.
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articolo in gran parte di Santiago Montero Università Complutense di Madrid.pubblicato su Storica National Geografic di maggio 2018. altri testi e immagini da Wikipedia.
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