martedì 31 luglio 2018

Invito a cena nella Roma imperiale

Invito a cena nella Roma imperiale.
Dall’austerità delle cene repubblicane ai festini di epoca imperiale: un viaggio gastronomico nell’antica Roma.

Immaginiamo di ricevere un invito a cena da un antico romano. Siamo sulle rive del Tevere, al tramonto,. Finito il lavoro, inizia il riposo serale e in tutte le case cominciano i preparativi della cena. Possiamo scegliere il periodo? Senz’altro quello imperiale, quando l’austera semplicità a tavola cedette il posto al lusso. In origine i gusti erano semplici, basti pensare che il piatto principale era la famosa puls, una sorta di polenta composta da farina, solitamente di farro, ammollata in acqua bollita e accompagnata da legumi, uova, verdure e,  per chi poteva permettersela, carne. Questo piatto era diffuso un po’ in tutta l’Italia antica, tanto che i greci diedero il soprannome ai romani di pultiphagio o pultiphagonides, ossia ‘mangia polenta’. Mentre gli aristocratici abbandonarono quasi del tutto la puls sostituendola con il pane, Giovenale ricorda come nelle case della povera gente ancora bollissero grandi di terracotta fumanti di polenta.

Sapore di pane.
Nel secondo secolo a.C., la dura focaccia, fatta con puls disseccata e arrostita, venne sostituita dal pane lievitato. Comparvero anche le prime panetterie, chiamate pistrina. Tuttavia molti tradizionalisti vedevano in questo cambiamento un segno della decadenza dei costumi.
Triclini: la moda di banchettare alla greca.
Con il passare del tempo gli aristocratici iniziarono a banchettare sdraiati sui letti, imitando la nuova moda importata dai greci che, a loro volta, avevano ripreso l’abitudine dai popoli dell’Oriente. Questi letti, definiti triclini poiché su di essi vi era posto per tre persone distesi, venivano disposti a cerchio attorno a un basso tavolino centrale, e si lasciava un varco solo per il servizio. La sala da banchetto prese il nome di Triclino e i più ricchi avevano anche più triclini: alcuni erano maggiormente adatti al periodo estivo e altri a quello invernale. Per evitare di sporcare la coperta su cui erano distesi, i convitati si portavano da casa un tovagliolo. Quest’ultimo poteva anche servire per avvolgere gli avanzi del pasto, che a fine serata venivano   offerti dal padrone di casa.


CHE IL BANCHETTO ABBIA INIZIO! Abbandonata definitivamente la semplicità dei tempi antichi, in epoca imperiale il banchetto divenne status symbol dell’aristocrazia, il consumo di carne aumentò vertiginosamente soprattutto suini che, secondo Plinio, avevano la carne più buona (l’unica ad avere cinquanta sapori diversi), caprini e, più raramente, ovini (usati invece per il latte e la lana). Molto amati erano anche i volatili da cortile: anatre, piccioni e oche, ingrassate anche per ottenere il ficatum (il nostro foie gras). La gallina, fu allevata a lungo solo per le uova. Poco utilizzata fu da sempre la carne dei bovini poiché questi animali erano fondamentali per il lavoro dei campi, tanto che fino alla fine del IV secolo c’era l’esilio se non addirittura la pena di morte per chi ne uccideva uno. Completava il quadro la selvaggina, tra cui la lepre, il capriolo e il cinghiale. La carne era dura il pesce entrò tardi nell’alimentazione, ma in epoca imperiale il suo consumo si diffuse velocemente: anguille, molluschi (carissimi), cefali, orate, spigole, crostacei e murene.
Con l’espansione militare di Roma nel Mediterraneo, arrivarono sulle rive del Tevere cibi e sapori nuovi. Tra questi molti frutti: le ciliegie, secondo la tradizione introdotte nel 65 a.C., da Lucullo che le aveva apprezzate mentre guerreggiava sul Mar Nero contro Mitridate; le pesche e i limoni (originari rispettivamente di Cina e Pakistan), giunti a Roma dalla Persia.; le albicocche, originarie della Cina, il melograno, diffuso in tutto l’Oriente, e i datteri, provenienti dall’Africa. Questi frutti esotici erano molto cari, tanto che Marziale si lamenta di un anfitrione che non offriva mai  frutta ai suoi commensali per risparmiare! Nelle riserve di caccia degli aristocratici, poi, iniziarono a essere allevati animali esotici come lo struzzo, originario dell’Africa, e il fagiano, proveniente dalle zone vicino al Mar Nero. In epoca imperiale si potevano anche ingaggiare cuochi professionisti. I più ricercati erano senza dubbio quelli orientali e greci, che non solo dovevano cucinare piatti esotici, ma anche creare vere e proprie opere d’arte poiché il cibo doveva essere presentato a tavola scenograficamente. Siamo ben lontani dall’austerità e dalla semplicità dei primi tempi, quando anche il padrone di casa non disdegnava a mettersi ai fornelli. Il ‘De re conquinaria’, manuale di gastronomia attribuito ad Apicio, un buongustaio del I secolo d.C., è senza dubbio la più celebre opera di gastronomia del mondo antico e illustra bene quale fosse la cucina del periodo imperiale. Dalle ricette di quest’opera emergono la commistione in uno stesso piatto di carne e pesce, l’uso e , perfino l’abuso di condimenti, tanto da nascondere il sapore del cibo e, soprattutto, la mescolanza di dolce e salato che dava ai piatti un gusto agrodolce che dava ai piatti un tipico sapore orientale. Nascondere il sapore originario del cibo a noi pare insensato, ma non lo era per gli antichi romani. Basti pensare che, in un suo epigramma Marziale elogia la bravura di un cuoco, capace di imitare tutti i piatti adoperando solo la zucca! Lo stesso Apicio dà ricette con le aringhe.. senza aringhe!

Mangiare con le mani è un’arte.
Risultati immagini per come mangiavano gli antichi romani

Sdraiati e con un solo braccio libero, i commensali non usavano posate, difficili da usare in quella posizione. Ma non era un problema: bastava allungare la mano per prendere il cibo, già tagliato in piccoli pezzi. Scrive Ovidio: “Prendi in punta di dita le vivande, è un’arte pure questa, che vuol garbo!”. E per pulirsi la bocca? Mollica di pane.
Prosciutto in crosta.
(Apicio, De re Conquinaria VII-IX.1).

Se si volesse provare, con Apicio sotto braccio, a riadattare qualche antica ricetta, ci si troverebbe davanti a un grosso problema: Apicio elenca gli ingredienti, ma non le quantità. Qui una sua ricetta reinterpretata dai moderni chef:
INGREDIENTI:  1 prosciutto di circa 3 kg
Per la brisé: 500 gr. di farina, 2 cucchiaini da tè rasi di sale, 10 cucchiai e mezzo di olio, 8 cucchiai di acqua gelata.
PREPARAZIONE: Comprare un prosciutto cotto (Apicio consigliava di lessarlo con molti fichi secchi e tre foglie di alloro, ma oggi basta acquistare un buon prosciutto) e togliere la cotica e parte del grasso. (praticamente le parti più buone). Praticare una serie di incisioni a rombi sulla superficie e bagnare con zucchero bruno o zucchero di ananas (Apicio usa il miele). Preparare la pasta brisée, stenderla con un mattarello e avvolgervi bene il prosciutto. Decorare con i ritagli e   spennellare con rosso d’uovo. Mettere in forno a 180° fino a che la pasta sia ben dorata. Servire caldo o freddo. Freddo è più buono. 


INVITO A CENA CON SORPRESA. Stupire gli ospiti era l’imperativo assoluto, come si evince dal Satyricon di Petronio, opera di fantasia ma sicuramente ispirata alle mode dell’epoca. Vi è descritto il pantagruelico banchetto di Trimalcione, un ex schiavo arricchito; in esso viene servito un cinghiale, cucinato intero e circondato da piccoli maialini e con due cestini colmi di datteri appesi alle zanne. Non appena il cuoco pianta il coltello nel fianco dell’animale, ne escono tordi vivi e svolazzanti. La libertà dura poco, visto che i poveretti vengono subito catturati, cotti e serviti! Letteratura a parte, un piatto molto famoso e ricercato era il porcus troianus: un maiale ripieno di salsicce con salse aromatiche e verdure il cui nome ricorda quello del leggendario cavallo di Troia “ri”pieno di soldati achei. Lucullo, contemporaneo di Cicerone, si fece costruire un tricilinio dentro una voliera. Mentre i suoi ospiti gustavano la carne di fagiano o di pavone, potevano anche vedere l’animale vivo e svolazzante. Piccolo inconveniente: l’odore di pollaio, che rendeva impossibile la sua permanenza all’interno. Più fortuna ebbero i triclini ad acqua. Plinio il Giovane ha lasciato una descrizione del suo triclinio: a una delle estremità di una piscina tondeggiante i commensali erano sdraiati  su triclini in muratura. Dall’altra parte, i servitori spingevano sull’acqua vassoi lignei stracolmi di bontà da gustare in modo tale che, galleggiando, queste raggiungessero i commensali. L’utilizzo di neve per raffreddare le vivande divenne una moda tra i ricchi, che pagavano un bicchiere d’acqua  refrigerata più cara di una coppa di buon vino. Con la neve si facevano sorbetti a base di latte, uova e miele: un vero e proprio gelato ante litteram! Allora come oggi i medici erano contrari alle bevande ghiacciate, anche perché la neve arrivava sporca nelle coppe a causa dei vari passaggi cui era sottoposta: raccolta sui picchi innevati, trasportata su carri, imballata nella paglia e, infine, immagazzinata. Plinio racconta che Nerone non fu il primo a utilizzare neve per refrigerare l’acqua, mentre Svetonio riferisce che abbia introdotto anche la moda di fare i bagni nella neve per arginare la calura estiva. Il gusto cambia nel corso del tempo. Ecco allora alcuni cibi che furono molto amati dagli aristocratici. La carne di pavone, per esempio, era considerata pregiatissima e molto costosa; una volta cotto, l’animale veniva presentato in tavola intero e ornato con le sue bellissime piume. Dall’editto di Diocleziano, sappiamo che il pavone femmina, con piume più modeste, costava un terzo in meno del maschio. Una vera e propria leccornia sembra essere stata la lingua di fenicottero, così come i talloni del cammello, di cui Apicio dà la ricetta. Per non parlare del cervello di struzzo, molto amato da Eliogabalo, o della carne di cucciolo di cane. Molti di questi cibi a noi fanno storcere il naso, ma come ci hanno insegnato gli antichi romani… de gustibus non est disputandum.


Articolo in gran parte di Barbara Faenza pubblicato su Storica National Geografic del mese di luglio 2018. altri tesi e immagini da Wikipedi

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