lunedì 17 dicembre 2018

La Grande Armée in azione.

La Grande Armée in azione.
Come si svolgevano le battaglie durante le campagne militari di Napoleone? Ecco i segreti del suo straordinario successo.

Napoleone distribuisce le insegne della Legion d'onore ai soldati dell'Armata d'Inghilterra nel 1804 che diverrà la Grande Armata nel 1805


Le guerre della Rivoluzione francese e quelle napoleoniche furono caratterizzate, come in precedenza quella dei Sette Anni (1756-1763), dal ruolo assunto dalla battaglia campale, divenuta il momento risolutivo delle campagne. La potente lezione di Federico II di Prussia, protagonista di quella guerra, aveva fortemente influenzato il pensiero militare, ponendo il confronto in campo aperto tra grandi eserciti all’apice degli obiettivi dell’attività bellica, il momento dello sforzo supremo nel quale cercare la vittoria di un conflitto. “Sono le battaglie che decidono il destino di una Nazione”, scrive il re di Prussia, e Napoleone è ancora più preciso: “… io vedo una sola cosa: e cioè la parte più forte del nemico. Il cerco di annientarla, pensando che le questioni meno importanti si sistemeranno da sole”. La manovra strategica diventa così finalizzata a ottenere il prima possibile, e alle migliori condizioni possibili, una battaglia che ponesse celermente fine alla guerra. Il comandante in capo, Napoleone o uno dei suoi marescialli, disponeva sul terreno i propri elementi di manovra, basandosi quasi esclusivamente sul proprio intuito e la propria esperienza per delineare le sue intenzioni, senza grandi informazioni sull’entità del nemico. Esploratori di cavalleria leggera determinavano in modo approssimativo forza, posizione e direzione dell’armata avversaria, tentando nel contempo di mascherare le proprie, e molto dell’esito della battaglia dipendeva da questa fase cruciale di avvicinamento. La cavalleria leggera della Grande Armée si trovò spesso ad agire in inferiorità quantitativa rispetto a quella avversaria, difetto contenuto dal loro impegno e dal genio di Napoleone. Durante la campagna di Russia, però, il numero schiacciante dei polacchi dello zar diede un decisivo contributo alla sconfitta francese. Per vincere una battaglia si dovevano logorare il morale del nemico fino ad annullare la sua volontà di combattere un obiettivo che veniva ottenuto con la forza delle armi, ovvero l’effetto combinato del fuoco e dell’urto.
L’artiglieria era l’arma principe dell’azione di fuoco, e naturalmente, non era in grado di effettuare un’azione di urto. La cavalleria, al contrario, con le sue cariche all’arma bianca svolgeva quasi esclusivamente quest’ultima funzione e, per quanto potesse essere equipaggiata con armi da fuoco, non ne faceva quasi mai uso, in particolare nelle battaglie campali. Inoltre, essendo il reparto più mobile, era il più adatto a proteggere le ali dello schieramento e a intervenire con tempismo là dove il comandante individuava un punto critico. La fanteria, infine, era l’unica forza che potesse esercitare  entrambe le azioni: di fuoco, con i moschetti, di urto con le baionette, ed era per questo motivo considerata la regina delle battaglie. Compito dei comandanti subordinati era quello di impiegare fanteria, cavalleria e artiglieria in modo che ciascuna di esse supplisse  ai limiti delle altre e beneficiasse delle loro qualità.
L’artiglieria in grandi batterie doveva dispiegare il suo potere distruttivo in un punto focale dell’azione e fornire a cavalleria e fanteria quel sostegno di fuoco che ne moltiplicava l’efficacia. La fanteria doveva condurre lo sforzo principale, sia in attacco che in difesa. La cavalleria interveniva sfruttando la sua velocità ed imprevedibilità di azione per integrare con il proprio urto quello della fanteria. In Francia si avvertì prima e più distintamente che nel resto d’Europa l’importanza di sfruttare la forza combinate delle tre armi sotto un unico comando: vennero dunque create divisioni e, successivamente, corpo d’armata (su più divisioni) che le univano dando al loro comandante un’elasticità di impiego sconosciuta agli altri eserciti, e la possibilità di affrontare una battaglia anche contro nemici più numerosi.

Gli uomini e le uniformi

Uniformi della fanteria della Grande Armata nel periodo 1807-1815

La fanteria era l’indiscussa regina delle battaglie napoleoniche. Era l’arma più numerosa e sosteneva il peso principale dell’azione in battaglia. Si divideva in tre specialità: la fanteria leggera, la fanteria di linea e i granatieri, con un organico di battaglione che Napoleone nel 1808 fissò in 6 compagnie di 140 uomini ciascuna, 4 di fanteria di linea e 1 ciascuna di fanteria leggera e granatieri. Ogni comandante di battaglione, quindi poteva contare su un nucleo centrale normale e su due componenti qualificate in compiti particolari: una forza equilibrata ed elastica che consentiva diverse soluzione tattiche. La fanteria leggera, costituita dagli uomini più agili e dai migliori tiratori poteva disperdesi di fronte alla sua unità e proteggerla nell’avanzata col suo tiro mirato. I granatieri, invece, erano scelti tra gli uomini più alti e forti, e costituivano l’élite del battaglione. La loro presenza serviva a rinforzare il morale delle truppe, specie negli attacchi più pericolosi.
La cavalleria era molto meno numerosa rispetto alla fanteria, tuttavia poteva essere decisiva. Era divisa in tre categorie: leggera, media e pesante. La prima era composta da ussari e cacciatori a cavallo, e in battaglia si vedeva raramente perché impegnata in esplorazioni e schermaglie, un lavoro oscuro ma essenziale per la riuscita delle campagne militari. I Dragoni da soli costituivano la cavalleria media la più numerosa: veniva chiamata così perché poteva essere impiegata sia nel ruolo leggero, sia in quello pesante. I corazzieri erano il nucleo principale della cavalleria pesante: le loro cariche facevano tremare il terreno, un effetto non meno terribile della vista delle loro corazze scintillanti e delle sciabole sguainate.
Ultima, ma non meno importante era la Guardia, la cui creazione fu uno dei primi atti iniziali come Primo Console. La Garde des consuls riuniva due battaglioni di granatieri e una compagnia di cacciatori a piedi e due piccoli reggimenti di cavalleria, 2000 veterani la cui missione era proteggere la sua persona. Questo il nucleo originario di una formazione divenuta leggendaria e che nella sua componente più prestigiosa, la Vecchia Guardia, non fu mai sconfitta in battaglia. Per entrarne a farne parte i criteri erano assai severi: almeno 10 anni di onorato servizio, essere stato citato per motivi di merito, un’altezza minima di 1,76 cm, sapere leggere e scrivere. Indossata l’uniforme della Vecchia Guardia la vita militare diventava facile, perché Napoleone era generoso con i suoi pupilli. Unica promessa: essere pronti a sacrificare la vita per lui. 

CAVALLERIA: CORAZZIERI.

Fu Napoleone in persona a volere il ritorno di questa pesante forza d’urto di cavalleria nell’esercito francese. Ordinò la formazione di ben 12 reggimenti, sulla carta 820 uomini, con il requisito di 180 cm. di altezza e il fisico sufficientemente robusto da sopportare i 7,5 chilogrammi di peso della corazza.
CAVALLERIA: USSARI.

Facevano parte della cavalleria leggera. Avevano il compito di proteggere le armate facendo da schermo intorno a esse, ma venivano anche impiegati in bataglia, come a Friedland, il 14 giugno 1807, quando parteciparono a una grande carica di cavalleria contro l’esercito russo.
FANTERIA DI LINEA.
Essa supportava il peso maggiore delle battaglie e il più elevato numero di perdite. Anche la mortalità tra gli ufficiali era molto alta, sia perché essi guidavano gli attacchi, sia per le loro vistose uniformi: nella sola fanteria di linea napoleonica si contano 17436 ufficiali caduti in battaglia.
GUARDIA.
Riuniva 2000 veterani con almeno 10 anni di servizio, con il compito di proteggere Napoleone stesso. “La guardia muore ma non si arrende!” fu la risposta di Cambronne quando i nemici, a Waterloo, chiesero la resa di Cacciatori della Vecchia Guardia, che non si arrese nemmeno allora.
IL MOSCETTO CHARLEVILLE MODELLO 1777
Charleville.jpg
Il moschetto ad avancarica modello 1777 era il fucile di ordinanza delle truppe francesi del periodo napoleonico. Derivato, con qualche modifica, da un modello introdotto nei primi decenni del Settecento, fu prodotto in 2 milioni di esemplari. Pesava circa 5 chili per un metro e mezzo di lunghezza, che arrivavano quasi a 2 con la baionetta inastata (la baionetta aveva una lama di 38 cm). Era robusto e il fucile poteva essere usato come clava. Il calibro della canna, liscia al suo interno, era di 17,5 millimetri, ma la palla di piombo aveva una circonferenza di circa 1 millimetro inferiore, per poter scivolare facilmente al suo interno. Questa minima differenza, chiamata tecnicamente vento, era sufficiente a rendere erratica la direzione della palla: per colpire un bersaglio oltre i 100 metri bisognava essere molto fortunati. La pietra focaia doveva essere sostituita dopo circa 50 colpi. Ma in realtà mirare non era necessario: si sparava nel mucchio, contando sull’effetto statico di tanti spari contemporanei, a un ritmo di 2-3 colpi al minuto. Molto più importante era l’angolo di tiro: se la linea avversaria era lontana gli uomini dovevano mirare al cappello, se era vicina ai piedi.
L’ARTIGLIERIA.

Quella della GraBatteria di cannoni da campagna francesi 75 mm Mle. 1897 in azione all'inizio della prima guerra mondiale.nde Armée era tra le più potenti e moderne del periodo. Napoleone stesso era un artigliere e maestro nel suo impiego. Con il suo leggendario colpo   d’occhio, individuava un punto dello schieramento avversario contro il quale concentrare il tiro di una Grande batteria di decine di pezzi in preparazione di un attacco, tra cannoni e obici.
Ma i comandati delle batterie di cannoni francesi erano anche capaci di portarsi a cento metri o poco più dalle linee nemiche per falciarle con i pallettoni della mitraglia.
La strategia napoleonica.
Napoleone non si considerava un innovatore dell’arte militare, ma fu indubbiamente geniale, riuscendo a raccogliere, unificare e farsi interprete delle conoscenze e delle energie scaturite dal frenetico dinamismo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Sotto la sua guida i corpi d’armata potevano disperdersi marciando su strade diverse, e quindi, con colonne più corte, percorrere maggiori distanze giornaliere.
Procedere su percorsi diversi favoriva anche gli approvvigionamenti, perché ogni armata prelevava almeno una parte delle risorse di cui aveva bisogno razziando da un territorio differente, e quindi dipendeva in misura minore dalle linee di rifornimento con i depositi militari e la Francia. Al contrario per gli avversari le linee di rifornimento erano un vitale cordone ombelicale che Napoleone poteva recidere.
Aggiramento.

L’aggiramento strategico è una delle manovre più difficili da realizzare nella storia dell’arte militare, ma il suo successo può portare a vittorie eclatanti. Lo scopo è prendere alle spalle l’avversario tagliando la linea di comunicazione con la sua base logistica.
Se l’avversario non dispone di un’altra via di rifornimento lungo la quale ripiegare in posizione più sicura, la sua resistenza avrà le ore contate e potrà solo arrendersi o combattere in grave svantaggio. Il rischio maggiore per chi effettua l’aggiramento, è quello di essere scoperto mentre cerca di raggiungere le spalle del suo avversario: in questo caso non solo la preda potrebbe sfuggire alla trappola, ma avrebbe anche l’opzione di aggirarlo a propria volta. Napoleone era un maestro nell’impiego di questa strategia: effettuava il proprio movimento con energia, ma proteggendosi dietro schemi di cavalleria leggera o al riparo di ostacoli geografici come boschi e fiumi e gli valse le vittorie di Mondovì, Arcole, Marengo, Ulm e Jena.  
Posizione centrale.

Napoleone si trovò spesso a combattere contro nemici più numerosi, che lo attaccavano da più direzioni nello stesso momento. Il pericolo maggiore per la Grande Armée consisteva nell’eventualità che essi riuscissero a riunirsi in un’unica grande massa, riuscendo così a vincere per il semplice peso dei numeri. La strategia della posizione centrale consisteva nell’inserirsi come un cuneo tra gli avversari schierando i corpi d’armata come i vertici di una losanga, e mantenendo tra un corpo e l’altro distanze brevi e costanti, per esempio un giorno di marcia. Quando uno dei vertici incontrava un’armata nemica, Napoleone poteva concentrare contro di essa la parte maggiore delle proprie forze, riservando le rimanenti al contenimento degli altri avversari. Sconfitto il primo nemico, la Grande Armée muoveva il più rapidamente possibile contro il secondo. Fu la strategia che Napoleone adottò nel 1815 contro britannici e prussiani, purtroppo per lui, concusasi a Waterloo con scarsa fortuna.  
Riunione in campo.

Un aforisma del generale cinese Sun Tzu che sicuramente Napoleone avrebbe condiviso recita: “Devi apparire debole quando sei forte, e forte quando sei debole”. Un principio che l’imperatore poteva applicare grazie all’agilità conferita alla Grande Armée dall’organizzazione in corpi d’armata. I corpi d’armata francese marciavano divisi e il nemico non aveva precisa nozione sulla consistenza e la disposizione del proprio avversario. Al contrario Napoleone sapeva di poter iniziare una battaglia lasciando intendere di essere in inferiorità numerica, contando sul fatto che altre truppe lo avrebbero raggiunto durante il suo corso. In più di un’occasione questo costringeva gli uomini a marce incredibili, come quando il corpo di Davout dovette percorrere 120 chilometri in 50 ore per arrivare puntuale e naturalmente decisivo, sul campo di battaglia di Austerlitz.
L’organizzazione delle forze armate.
L’unità fondamentale di fanteria era il battaglione. Più battaglioni venivano riuniti in un reggimento, chiamato inizialmente “demi-brigate” dai francesi perché due di essi formavano una brigata, la maggiore unità composta da un’unica arma, al massimo con qualche cannone leggero di accompagnamento.
Due o più brigate a loro volta formavano una divisione. Queste ultime, di più armi, componevano un corpo d’armata e, infine, più corpi d’armata riuniti costituivano l’armata. Suddividere una di queste in più corpi forniva ai francesi un’elasticità strategica sconosciuta agli altri eserciti. Formata da un cuore di divisioni di fanteria, supportato da reggimenti di cavalleria e batterie di artiglieria, disponeva delle forze necessarie ad agire come entità autonoma e poteva affrontare il combattimento anche contro forze molto superiori. In ogni campagna Napoleone determinava attentamente la composizione dei corpi, prevedendo per ciascuno di essi un ruolo preciso nel suo disegno delle operazioni strategiche.
L’analisi: Austerlitz, la campagna esemplare.
Boutigny-Surrender at Ulm.jpg
La resa del generale Mack a Ulma

La campagna del 1805 fu coronata dalla straordinaria vittoria di Austerlitz. Le settimane iniziali, tuttavia, videro un suvcesso meno celebrato ma decisivo, ottenuto grazie a una geniale manovra strategica. Una potente coalizione austro-russa si stava concentrando in Germania per invadere la Francia: il generale austriaco Karl Mack von Leiberich, con 40mila uomini, attendeva l’arrivo delle armate russe a Ulm, in una posizione protetta alla congiunzione tra il Danubio e il suo affluente Iller. Un ritardo dei russi provocò lo slittamento dei tempi previsti: una breve finestra temporale durante la quale i due alleati sarebbero stati troppo lontani per aiutarsi reciprocamente. Era un’occasione che Napoleone .non si fece sfuggire. Mentre la sua riserva di cavalleria confondeva il nemico illudendolo che il principale attacco sarebbe venuto dalla Selva Nera, il 25 settembre 1805 la Grande Armée attraversò il Reno. Sei torrenti di uomini nascosti da un schermo di cavalleria aggirarono veloci Ulm costringendo Mack alla resa il 20 ottobre.

ANATOMIA DI UNA BATTAGLIA. Lo svolgimento dello scontro dipendeva non solo dall’abilità del comandante, ma anche dalle circostanze in cui si trovava e dal controllo che aveva sulle sue truppe. La situazione sul terreno era caotica e la visibilità limitata dagli elementi del paesaggio e dalle condizioni atmosferiche, oltre che dal fumo prodotto da moschetti e cannoni. La battaglia era un crudele e vorace falò: la vittoria sarebbe andata a chi manteneva viva la fiamma più a lungo, a chi possedeva l’ultima risorsa per alimentarla. Per questo motivo era importante che il comandante disponesse di una riserva: essendo le uniche forze tenute lontane dalla linea del combattimento, erano anche le sole che egli potesse controllare direttamente, la sua speranza di vittoria se un geniale (o fortunato) colpo d’occhio lo assisteva nell’individuare un punto debole del nemico sul quale esercitare uno sforzo decisivo, oppure la sua ultima possibilità di contenere gli effetti potenzialmente catastrofici di una sconfitta, utilizzando quelle truppe per arrestare o almeno rallentare un nemico dilagante. Le unità d’élite della guardia, quando presenti, artiglieria e reggimenti di cavalleria pesante sono le truppe che costituiscono preferibilmente la riserva. Napoleone in battaglia usava frequentemente la cavalleria della Guarda, ma era molto prudente nell’impiego della sua fanteria di èlite, in particolare della Vecchia Guardia. Il combattimento è aperto dalle schermaglie tra le fanterie leggere, che sciamano sul terreno dando il tempo ai battaglioni di linea di schierarsi. Gli uomini agiscono dispersi in piccoli gruppi, che fanno fuoco libero e mirato, quando è possibile sugli ufficiali nemici, riconoscibili dalle vistose uniformi. Il loro compito si conclude quando i battaglioni sono pronti allo scontro principale. Gli attacchi della fanteria sono preceduto da un intenso fuoco di artiglieria che Napoleone ha riunito a volte in una “grande batteria”, ma il suo potere distruttivo è indispensabile anche nella difensiva. A Wagram, il 6 luglio 1809, l’imperatore schierò una grande batterai di 112 cannoni per fermare un intero corpo austriaco e poi la impiegò per appoggiare il proprio contrattacco.

I comandanti della Grande Armata.
Ecco chi furono gli uomini chiave dell’esercito napoleonico.

LOUIS-ALEXANDRE BERTHIER (1753-1815) L’INSOSTITUIBILE.
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Forse l’uomo in assoluto più importante per Napoleone, perché come Capo di Stato maggiore, riusciva a organizzare le sue intuizioni fulminee e a tradurle in precisi ordini scritti.
LOUIS-NICOLAS DAVOUT (1770-1823) IL PIU’ TEMUTO.
Il più abile tra i marescialli di Napoleone, dal quale aveva poco da imparare, e il più temuto dagli avversari: ma anche, per questo, molto poco amato dallo stesso imperatore.
EMANUEL DE GROCHY (1766-1847) L’INDECISO.
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Unico nobile di nascita nella nuova nobiltà napoleonica dei marescialli, su di lui pesa come un macigno il fatto di non essere accorso con le sue unità verso il rombo dei cannoni il giorno di Waterloo.
JEAN LANNES (1769-1809) IL TEMERARIO.
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I marescialli di Napoleone rischiavano la vita a ogni battaglia e  Jean Lannes perse la sua per le gravi ferite riportate durante quella di Essling. Riposa al Pantheon a Parigi.
ANDREA MASSENA (1758-1817) IL PIEMONTESE.
Abilissimo, ma troppo interessato ai piaceri della vita: Napoleone dovette emettere un ordine del giorno rivolto a tutti gli ufficiali per allontanare la sua amante Silvia Cepolini.
MICHEL NEY (1769-1815) IL PIU’ PRODE TRA I PRODI.
La sua abilità a Waterloo fu di gran lunga inferiore al suo coraggio: quel giorno sotto di lui perirono 4 cavalli, ma la morte lo risparmiò per il plotone di esecuzione durante la Restaurazione.
JOACHIM MURAT (1767-1815) IL COGNATO.
Grande comandante di cavalleria e re di Napoli in virtù del matrimonio con Caroline, sorella di Napoleone, venne fucilato a Pizzo Calabro quando tentò di riconquistare il trono.
NICOLAS-CHARLSE OUDINOT (1767-1848) IL GRANATIERE.
I granatieri non temono la morte. Oudinot, che li comandava, dava l’esempio: fu ferito 35 volte in battaglia, ma morì alla venerabile età di 81 anni nel suo letto.

LOUIS-GABRIEL SUCHET (1770-1826) UN UOMO GIUSTO.
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Secondo Napoleone ne sarebbero serviti due come lui per conquistare la Spagna; e si guadagnò il rispetto dei nemici punendo gli abusi delle truppe francesi.
NICOLAS-JEAN DE DIEU SOULT (1769-1851) L’AMBIZIOSO.
Nonostante in 17 anni fosse salito dal grado di caporale a quello di maresciallo dell’Impero, Soult fu anche un abile e apprezzato politico durante la Restaurazione.

CARICARE IL NEMICO. Lunghe vie parallele di fanti muovono lentamente in avanti a passo cadenzato dal tamburo, seguendo la direzione delle bandiere. Giunti almeno a un centinaio di metri scaricano i loro moschetti sull’avversario ubbidendo disciplinatamente agli ordini di ufficiali e sottoufficiali. Le perdite sono terribili, soprattutto alle distanze più ravvicinate, sotto i 50 metri, e si sommano a quelle causate dall’artiglieria che abbatte gli uomini come birilli con i colpi a palla e ne falcia letteralmente i ranghi con la scarica di pallettoni della mitraglia. Gli scontri alla baionetta sono molto rari, ma anche il solo annuncio di un assalto può essere decisivo. Gli uomini che ricevono l’ordine possono rifiutarsi di eseguirlo e fuggire. Se il coraggio li assiste, allora è l’avversario che potrebbe perdersi d’animo e scappare. Se invece i difensori contrattaccano, allora è l’attaccante che a volte ci ripensa e abbandona l’impresa. Serve la volontà di entrambi per infilzarsi con le baionette o spaccarsi le teste con il calcio del moschetto, e sono in particolare luoghi chiusi come boschi, città, opere difensive a essere scenario di mischie furiose tra i soldati resi spietati dall’odio reciproco (la campagna del 181, per esempio, si distinse per il numero e l’intensità degli scontri corpo a corpo, a causa del rancore accumulato dai prussiani per le umiliazioni subite negli anni precedenti). Contemporaneamente la cavalleria ha iniziato le sue cariche nei tratti di terreno più ampi e regolare, dove gli animali non rischiano di azzopparsi. Anche gli squadroni si allineano l’uno all’altro, e avanzano ordinatamente, aumentando l’andatura con l’avvicinarsi del nemico, fino letteralmente a scontrarsi come ad Austerlitz, dove il fragore dell’impatto tra 4 reggimenti di cavalleria pesante francese contro un analogo contingente austro-russo si udì per tutto il campo di battaglia. se ai fanti può essere risparmiato l’orrore dello scontro fisico, occhi negli occhi, per i cavalieri è la norma. Ci si batte all’arma bianca, con la spada o la sciabola, perché anche i lancieri abbandonano la loro arma dopo il primo impatto.

Le sue più grandi battaglie.
AUSTERLITZ 2 dicembre 1808.
Il capolavoro di Napoleone contro la coalizione austro-russa: non solo l’imperatore anticipò le mosse degli avversari, ma seppe anche spingerle   nella direzione desiderata.
JENA-AUERSTADT 14 ottobre 1806
Una doppia battaglia che Napoleone vinse contro i prussiani in virtù della maestria con la quale dominava i principi strategici della posizione centrale.
EYLAU 8 febbraio 1807.
Nella neve dell’inverno prussiano, una delle più grandi cariche di cavalleria della storia, forte di 11mila sciabole, guidata dal Maresciallo Murat, salvò Napoleone dalla sconfitta.
FRIEDLAND 14 giugno 1807.
I russi sono nuovamente sconfitti da Napoleone in Prussia, questa volta in modo definitivo. Lo zar è costretto ad aderire al blocco continentale contro la Gran Bretagna.
WAGRAM 5-6 luglio 1809.
Nel 1809 sono gli austriaci a prendere le armi contro Napoleone, che li ha già sconfitti più volte nelle campagne d’Italia. Ma è una vittoria pagata a caro prezzo: ben 34mila morti.
FUENTES DE ONORO. 3-5 maggio 1815.
La guerra nella Penisola Iberica fu un’ulcera per Napoleone, un’inarrestabile emorragia di uomini: e nemmeno l’abile maresciallo Massena riuscì a guarirla con una vittoria.
BORODINO 7 settembre 1812.
Durante la campagna di Russia Napoleone cercò sempre una battaglia decisiva contro le truppe dello zar. A Borodino ottenne solo un sanguinoso e inconcludente scontro frontale.
LIPSIA 16-19 ottobre 1813
Circondando su più lati da forze quasi doppie, a Lipsia la stella di Napoleone, già compromessa dalla disastrosa ritirata di Russia, era ormai nella sua parabola discendente.
LA BOTHIERE 1 febbraio 1814.
Con soli 40mila uomini contro i 120mila comandata di Bucher, Napoleone compì un vero miracolo di tattica: riuscì a ritirarsi e infliggendo ai nemici perdite superiori alle proprie.
WATERLOO 18 GIUGNO 1815
L’ultimo atto di Napoleone, un uomo affaticato da troppe battaglie e circondato da nemici spietati, potenti e decisi una volta per tutte lui e il suo ordine dall’Europa.

IL MOMENTO DECISIVO. Le unità vengono gettate nella mischia una dopo l’altra, spesso anche in modo casuale, per la decisione improvvida di un comandante subordinato che ha perso la testa. Altre volte è proprio l’iniziativa di un ufficiale che sa cogliere l’attimo giusto per intervenire a decidere di una battaglia. Dopo ore di combattimenti, le perdite umane e il logorio fisico e nervoso rompono l’equilibrio iniziale delle forze. Cadaveri letteralmente fatti a pezzi, feriti che urlano di dolore, gli sguardi sempre più smarriti dei pochi commilitoni rimasti vivi, nemici che arrivano da ogni parte sempre più numerosi, e sembrano precludere ogni via di scampo, l’istinto di sopravvivenza dei singoli prende il sopravvento. Come un castello di sabbia colpito da onde di marea, uno dei due eserciti inizia a sfaldarsi. A gruppi, gli uomini si sottraggono alla lotta, e tanto maggiore è il loro numero, tanto meno gli ufficiali e i sottoufficiali possono riuscire a trattenerli a loro posto. È il momento per cogliere la vittoria, impiegando la riserva tenuta a riposo per questo sforzo decisivo: migliaia di uomini sembrano accorgersi contemporaneamente che non c’è più speranza ed è come se crollasse una diga.
Ogni resistenza è finita, ma non ancora la battaglia, che può conoscere un’ultima sanguinosa fase: l’inseguimento, durante il quale i fuggitivi, ormai inermi, saranno massacrati spietatamente o fatti prigionieri dalla cavalleria nemica. L’esercito vittorioso, esausto, può contare le proprie perdite, assistere i feriti, spogliare i morti dei propri beni.

Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri Antologia n. 1. Altri testi e foto da wikipedia.

La rivoluzionaria ambulanza di Larry.
Un medico francese ideò un sistema per soccorrere rapidamente i feriti sul campo di battaglia, le cosiddette “ambulanze volanti”.


La medicina sul campo di battaglia.
1792
Pierre-Francois Percy pubblica Manuel du chirurgien d’armée: i feriti vanno trattati in base alla gravità delle lesioni.
1792
Dominque Larrey inventa un sistema di ambulanze volanti per prestare soccorso ai feriti.
1793
Durante i tre mesi in cui dura l’assedio di Magonza per la prima volta vengono usate le ambulanze di Larrey.
1798
Larrey organizza una squadra di ambulanze volanti e di chirurghi per le campagne di Napoleone in Egitto.

Napoleone e Larrey, rivista L'Artiste
1810
Il sistema ferito-ambulanza-chirugica viene esteso a tutti i livelle della Grande armata.



Nel XVII secolo le battaglie lasciavano un impressionante numero di morti. Non solo a causa dei micidiali armamenti dell’epoca, ma anche al ritardo con cui si soccorrevano i feriti, che dovevano aspettare la conclusione del combattimento per poter ricevere assistenza. Sempre che non vincessero gli avversari: in quel caso potevano venire derubati di ogni avere e uccisi, o essere abbandonati a una crudele agonia.
In piena Rivoluzione francese un giovane medico transalpino di nome Dominique-Jean Larry inventò un sistema per ridurre questi tempi di attesa. Dopo gli studi di medicina e la specializzazione in chirurgia, nel 1792 Larrey si unì all’esercito rivoluzionario che combatteva al confine con la Germania, dove ebbe modo di rendersi conto della disorganizzazione dei servizi sanitari al fronte. Ideò pertanto un sistema di carrozze trainate da cavalli per trasportare rapidamente il paziente all’ospedale da campo e operarlo nelle 24 ore successive. Le ambulanze volanti si ispirarono al funzionamento dell’artiglieria volante a cavallo che accompagnava gli attacchi delle avanguardie. Pensate per agevolare il più possibile il trasporto dei soldati ai centri chirurgici, consistevano in cassoni di legno dal coperchio arrotondato, con pannelli laterali rivestiti, due finestrelle su entrambi i lati lunghi e porte a doppio battente anteriori e posteriori. All’interno quattro rulli permettevano di far scorrere facilmente la base, sulla quale era collocato un materasso rivestito di pelle.

MEDICINA DI EMERGENZA. Le ambulanze di Larrey furono utilizzate per la prima volta nel luglio del 1793, durante l’assedio di Magonza. Un generale scrisse che avevano contribuito “a salvare molti coraggiosi difensori del nostro Paese”. Un altro giovane generale, Napoleone Bonaparte, si interessò al sistema e volle con sé Larry nella campagna in Italia. Ai suoi ordini, nel 1797 Larrey creò un’unità di ambulanze e una scuola di chirurgia a Udine. Mise anche in funzione il sistema di triage, riprendendo il lavoro del medico francese Pierre.Francoise Percy, grazie al quale si stabiliva la maggiore o minore urgenza con cui assistere i soldati in base alla gravità della ferita, e non al grado o alla posizione che occupavano nell’esercito. Nel 1798 Larry prese parte alla spedizione di Napoleone in Egitto. Qui organizzò tre unità, ciascuna formata da 16 ambulanze volanti trainate da muli o da cammelli, 15 chirurghi e decine di ausiliari. Dopo averle viste in azione, il generale corso si congratulò con Larrey: “La vostra opera è una delle più belle idee del nostro secolo; saprà garantirvi da sola una fama meritata”. Nella battaglia di Abukir del 1799 (vedi articolo su questo blog) molti dei feriti francesi riuscirono a salvarsi grazie al rapido soccorso prestato dalle ambulanze.
La carenza di carrozze e alcuni problemi amministrativi limitarono inizialmente a poche unità dell’élite questo sistema, che si sarebbe progressivamente esteso agli altri livelli della Grande armata.

Articolo in gran parte di Enrique F. Sicilia Cardona pubblicato su Storica National geographic del mese di agosto 2018. Altri testi e immagini da wikipedia.        

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