A tavola con il
Re Sole.
Pietanze prelibate e una sfarzosa mise en place alla tavola del Re Sole, dove sedevano anche migliaia di persone.
Re Luigi XIV, dipinto di Hyacinthe Rigaudrealizzato nel 1701.
Re Luigi XIV, dipinto di Hyacinthe Rigaudrealizzato nel 1701.
Agli ordini dell’esigente maitre una schiera di chef, sous-chef, sommelier, rosticcieri e pasticcieri si affannava nelle grandi cucine, dove fuochi e forni erano sempre accesi e le grandi marmitte non smettevano mai di sobbollire. Dalle cantine, le cui chiavi erano gelosamente custodite, uscivano bottiglie di magnifici rossi di Borgogna e di Champagne, dagli orti arrivavano canestri di verdura, frutta, erbe aromatiche e funghi; dai boschi reali cacciagione e delizioso tartufi. Sui taglieri veniva sezionati ogni genere di animale, dal manzo al castoro, dai crostacei alle tartarughe, passando dagli uccelli le cui giunture venivano recise con cura. Alla tavola del Re Sole ogni giorno si accomodavano migliaia di nobili con il loro seguito: il sovrano infatti aveva preteso che il suo entourage lasciasse Parigi per seguirlo nella dorata gabbia di Versailles. Si mangiava tutti insieme, come in una mensa di una grande azienda, solo che tutto doveva essere superlativo, perché il cibo rappresentava la generosità del re. Ma per nutrire un simile esercito, ce ne voleva un altro che lavorasse tra i fumi delle cucine.
Alla tavola del Re Sole ogni giorno si accomodavano migliaia di nobili con il loro seguito: il sovrano infatti aveva preteso che il suo entourage lasciasse Parigi per seguirlo nella dorata gabbia di Versailles. Si mangiava tutti insieme, come in una mensa di una grande azienda, solo che tutto doveva essere superlativo, perché il cibo rappresentava la generosità del re. Ma per nutrire un simile esercito, ce ne voleva un altro che lavorasse tra i fumi delle cucine.
La tavola del Re Sole ogni giorno si accomodavano migliaia di nobili con il loro seguito: il sovrano infatti aveva preteso che il suo entourage lasciasse Parigi per seguirlo nella dorata gabbia di Versailles. Si mangiava tutti insieme, come in una mensa di una grande azienda, solo che tutto doveva essere superlativo, perché il cibo rappresentava la generosità del re. Ma per nutrire un simile esercito, ce ne voleva un altro che lavorasse tra i fumi delle cucine.
TABLE ROYAL. Un banchetto reale, nelle grandi occasioni, prevedeva non meno di quattro o cinque portate. Immensi vassoi viaggiavano veloci dalle cucine alle sale imbandite, cariche di pietanze ricercate, dall’aspetto magnifico, protette da campane d’argento, pronti ad atterrare sulle tavole con precisione e simultaneità. Il tutto arrivava a ondate per trasmettere la sensazione di ricchezza e abbondanza: antipasti, arrosti, stufati, cacciagione erano intervallati da entremets (portate intermedie, leggere, servite tra una pietanza e l’altra) come lingue di cervo, piedini di maiale cotti nel brodo o morbide tettine di vacca.
Le spezie, invece, un tempo ritenute merce pregiata, caddero in disuso quando, nel Seicento, i veneziani persero il monopolio del commercio con l’Oriente, causando la caduta dei prezzi e trasformando gli aromi da cucina in prodotti ordinari.
BUONE MANIERE. I cortigiani del Re Sole amavano ascoltare la musica a tavola; in mancanza di musici apprezzavano anche cantanti, a cui spesso i commensali si univano al ritornello, incuranti del cibo che avevano in bocca. Per bere bastava fare un segno al cameriere personale. Una volta vuotato, il bicchiere veniva sciacquato in un bacile, e poco importava se durante il pranzo i recipienti si scambiavano. Il concetto di igiene era molto diverso dal nostro. L’uso delle posate era a discrezione dei commensali, perciò era facile vedere un compito marchese pulirsi le dita sporche di grasso nella tovaglia dopo aver mangiato con le mani, o una bella contessa sputare nella mano un boccone sgradito e gettarlo sotto il tavolo per gli alani. Manuali di etichetta destinati all’aristocrazia cominciavano a circolare proprio in quest’epoca, ma in pochi li leggevano. Del resto anche il Re Sole preferiva usare le mani per mangiare. Per lui, che naturalmente era il primo a essere servito, venivano portate pietanze per otto. Ovviamente il sovrano non mangiava tutto, assaggiava qua e là, ma ostentava un appetito formidabile. Questo, infatti, era considerato segno di buona salute e quindi della capacità di proteggere i sudditi, mentre l’abbondanza e la varietà di cibi era la prova della potenza della Francia. “Ho spesso visto il re mangiare quattro piatti di potage, un fagiano intero, una pernice, un gran piatto d’insalata, due grandi fette di prosciutto, del monte all’aglio, un paitto di dolci, e ancora frutta e uova sode”, così annotava la cognata, la principessa Palatina.
“In quell’epoca al sovrano spettava il compito di dare prova di straordinaria virilità, sia mentre sfilavano favorite e cortigiane, qui piatti molto conditi e innaffiati di champagne”. Racconta Francesca Sgarbati Bosi in A tavola coi re. Il banchetto cominciava con un ricco potage, termine che oggi significa zuppa, ma che a Versailles era un piatto complesso, come per esempio un cappone allo ostriche. Per Sua Maestà e i commensali svolgeva la funzione di aprire lo stomaco (possiamo immaginare quanto dilatato) mentre venivano servite le prime entrées, che potremmo tradurre come antipasti, anche se sarebbe riduttivo:si trattava infatti di lucci fritti in salsa d’acciughe e maialini al latte guarniti con melagrane, fette di limoni e fiori edibili.
LA GRANDEUR. Quello di Luigi XVI era il primo grande esperimento di Stato nazionale, incarnato da un sovrano assoluto, che non rispondeva a nessuno se non a se stesso. Il suo potere non derivava solo dalla forza degli eserciti, ma, come nelle grandi corti rinascimentali, anche dalla cultura e dall’arte che, sovvenzionate dalla Corona, convinsero i francesi di essere la più grande nazione del mondo, e di conseguenza anche le altre potenze lo considerarono un dato di fatto.
Nella seconda metà del Seicento, al culmine del suo regno, tutta l’Europa era influenzata dalla cultura e dalla moda francesi. Ovunque le donne aristocratiche si vestivano e si truccavano come a Parigi, e il francese era la lingua parlata da diplomatici e uomini d’affari. E se c’era una cucina invidiata, dappertutto, era senza dubbio quella di Versailles. Questo nuovo modo di alimentarsi cancellava di colpo abitudini e regole salutistiche che le élite avevano seguito per secoli, se non per millenni. Fino a quel momento, a dettare legge erano ancora i precedetti alimentari di Galeno, padre della medicina, vissuto nell’Asia Minore grecizzata del II secolo d.C. A dire di Galeno, l’uomo, come del resto il cosmo, era composto da quattro elementi principali (acqua, aria, terra e fuoco) e, se voleva stare in salute doveva assumere cibi adatti a mantenerli in equilibrio tra loro.
Nel Seicento cambiò tutto: le élite non mangiavano i cibi ritenuti salutari, ma esclusivamente quello che il sovrano trovava di suo gusto. Entrarono così in cucina i funghi, fino a quel momento disprezzati, dato che proliferano sul letame, perché Luigi ne andava matto, come i piselli e i meloni, che diventarono di gran moda. Fare del mangiare un’esperienza estetica si trasformò in una dimostrazione di status. I cuochi iniziarono a essere considerati artisti. Anche se non erano ancora delle star, come oggi, i migliori erano ricercati e ben pagati.
Vatel, tragico perfezionista.
Oggi i ristoranti stellati sono molto competitivi e i loro chef cucinano nel terrore di arretrare nella classifica di critici e clienti. Le cose non erano molto diverse ai tempi del Re Sole: una défaillance in cucina poteva significare la morte. Nel 1671 sulle spalle del cuoco Vatel, maitre di Luigi II di Borbone-Condé, pesava tutta la responsabilità delle monumentali cene ufficiali che il suo padrone organizzava in onore del Re Sole. La posta in gioco era alta, perché Condé, che nel 1652 aveva capeggiato una rivolta contro la Corona, voleva riguadagnare la fiducia del Re, e sperava di farlo a tavola. Cosa tutt’altro che facile. Doveva mostrarsi munifico – se l’ospitalità fosse stata modesta, il re si sarebbe offeso – ma anche misurato: eccedere sarebbe equivalso a sfidarlo.
LA BEFFA. Convinto che il venerdì, giorno di magro, non sarebbe arrivato pesce a sufficienza per un banchetto, Vatel conficcò una spada attraverso una porta e ci si lanciò sopra, morendo al terzo tentativo. Poche ore dopo la sua morte, il carico di pesce arrivò dai lontani porti in cui era stato prenotato, e i cerimoniali per il Re Sole e il suo seguito di 6mila persone continuarono indisturbati.
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PECCATO DI GOLA. La rottura con il passato non infrangeva solo prescrizioni mediche millenarie, ma anche di natura religiosa. Mangiare oltre lo stretto necessario un tempo significava commettere peccato, ora invece diventò simbolo di buon gusto, lo stesso cui ci si ammirava un quadro. Lo scrittore Charles de Saint-Evremond scriveva a un’amica letterata: “A 88 anni mangio ostriche tutte le mattine, pranzo bene e mangio abbondantemente. Quando ero giovane ammiravo solo l’intelligenza, dando al corpo meno importanza di quanto si deve; oggi rimedio a questo errore”. Questo non significava che il cattolicesimo, di cui il Re Sole si proclamava massimo difensore, avesse perso il suo peso. Anzi, tra i venerdì, la settimana santa, l’Avvento, la Quaresima, i giorni di processione, e i digiuni che i confessori erogavano come penitenza, nella Francia del Seicento si contavano da 100 a 150 giorni all’anno in cui si doveva mangiare di magro. Ovviamente parliamo dell’aristocrazia, perché per il popolo ogni giorno era di magro. I sacerdoti erano indulgenti con i ricchi, a corte era considerato accettabile servire ostriche e aragoste nei giorni di magro, in fondo non erano molto diverse dai pesci che Gesù aveva moltiplicato.
Alla lunga questa dieta sconsideratamente ipercalorica e proteica segnò la salute di tutti, compreso il re. A quarant’anni, a causa della passione per i dolciumi, Luigi non aveva quasi più i denti in bocca, e dai documenti di corte si desume che, invecchiando, fosse tormentato dal diabete e dalla grotta, malattia che i dottori curavano con inutili salassi e clisteri, e che lo condusse alla morte. Questo fu l’inevitabile epilogo. Prima però la Francia fece in tempo a fare di cultura, buona tavoa e eros i tre valori fondanti della sua identità nazionale.
Articolo in gran parte di Massimiliano Grinier, pubblicato su Focus Storia n. 142, altri testi e foto da Wikipedia.
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