Al ritmo delle stagioni.
Festività sacre e ricorrenze profane, riti sobri alternati a baldorie scatenate: l’anno era scandito dai ritmi ciclici della spiritualità e della natura. E accanto al cristianesimo sopravviveva la memoria dei riti pagani.
Il tempo medievale era scandito dal ritmo delle stagioni e dei lavori agresti. Ma era anche regolato da una serie di importanti ricorrenze religiose, a cui si alternavano momenti, ben più prosaici, di celebrazioni di festività schiettamente popolare di carattere profano. Il susseguirsi di riti sempre uguali a se stessi dava all’uomo medievale, alle prese con esistenza difficile e precaria, la rassicurante sensazione di un ciclo immutabile e perenne simbolicamente rappresentato dalla ruota.
Al centro della sua esperienza quotidiana c’era il lavoro agricolo con i suoi gesti, i ritmi e le abitudini ancestrali, identiche da secoli. Il cristianesimo, che si era innestato sul sostrato pagano preesistente, non aveva quasi mai stravolto le antiche credenze, ma le aveva invece assorbite e assimilate, arricchendole di nuovi significati spirituali, in linea con il Vangelo. Fu soprattutto con la cosiddetta rinascita dell’anno Mille (una vera e propria esplosione di energia che investì l’intera Europa), in campagna come in città, che il lavoro dell’uomo venne celebrato ed eternato in quei cicli dei mesi che sempre più spesso popolavano le cattedrali romaniche: la fatica compiuta ogni giorno dell’anno smise di essere una pena terrena da scontare a causa del peccato a divenne il mezzo per salvare l’anima e guadagnarsi il Paradiso.
UN CAPODANNO CONTROVERSO. Insomma, lavorare era un po’ come pregare, riscattava dalle miserie umane e apriva la strada per la redenzione dell’anima. In questa visione ciclica della storia, gli anni si susseguivano monotoni, ed era piuttosto difficile, per la gente comune, computarli in modo corretto. Come si faceva a stabilire in che anno si era? Può sembrarci strano, ma la data esatta non costituiva, a quei tempi, una nozione molto comune. In epoca romana, il punto di partenza era stato la fondazione di Roma, fissata dall’erudito Varrone al 21 aprile del 753 a.C. Ma la prassi di contare gli anni “ab Urbe condita” (dalla fondazione della città. appunto) si diffuse solo in età imperiale, prima, essi erano individuati semplicemente citando il nome dei consoli in carica. A partire dal VI secolo d.C., iniziò a diffondersi il sistema elaborato dal monaco Dionigi il Piccolo, che in base a una serie di calcoli aveva stabilito che la nascita di Cristo fosse avvenuta il 25 dicembre dell’anno 753 dalla fondazione di Roma. Più tardi, si scoprì che questo sistema conteneva alcuni errori e che in realtà Gesù aveva visto la luce 4 o 5 anni prima rispetto alla data fissata da Dionigi. Ma ormai i giochi erano fatti: l’era cristiana da lui inventata si impose in tutto l’Occidente e, dal X secolo a oggi, avrebbe costituito il punto di partenza per computare il trascorrere degli anni. Naturalmente questo sistema non valeva ovunque: gli arabi, per esempio, contavano gli anni a partire dalla fuga di Maometto dalla Mecca, avvenuta il 16 luglio del 622, secondo un uso che fu introdotto a partire dal 640 d.C.; gli ebrei, invece, fanno risalire tutto alla creazione del mondo, per il quale si tramanda una data precisa: il 6 ottobre 3761 a.C.
Il calendario medievale nasceva della combinazione tra il calendario giuliano, introdotto nel I secolo a.C. da Giulio Cesare e diviso in 12 mesi (quello tradizionale romano ne comprendeva solo 10, perché giugno e agosto erano sconosciuti), e quello ebraico, dal quale i cristiani mutarono la divisione in settimane e l’importanza centrale della Pasqua (in ebraico Pesha, passaggio), oltre alla scelta di un giorno dedicato al riposo (per gli ebrei era shabbat, sabato, ma l’imperatore Costantino preferì la domenica, dies dominica, cioè giorno del Signore).
Una giornata di otto ore.
Il giorno medievale era suddiviso in ore diurne (horae) e notturne (vigilae) stabilito a gruppi di tre: vigilia prima (dalle 18 alle 21 circa), secunda (ore 21-24) tertia (ore 24-3) e quarta (ore 3-6) e poi hora tertia (ore 6-9) sexta (ore 9-12) da cui il termine siesta, nona (ore 12-15) e vesperae (al calare del sole). Quando non esistevano gli orologi, che iniziarono a diffondersi nel Trecento, a scandire il tempo erano le campane, che a partire dal VII secolo regolavano la vita dei campi. Il punto di riferimento erano quelle dei monasteri, che battevano le ore seguendo i ritmi delle preghiere. Le prime orazioni (il matitutinum) si svolgevano verso le 3 di notte; all’alba, era il momento delle laudi; poi si pregava all’hora tertia (verso le 9), sexta (mezzogiorno), nona (alle 3 del pomeriggio), vesperum (alle 5) e infine a compieta (al tramonto), quando si recitava insieme l’Ave Maria.
|
LE OPERE E I GIORNI. Il ciclo scolpito a Parma da Benedetto Antelami (circa 1150-1230) comprende una serie di figure allegoriche dei mesi e delle stagioni. Concepite per essere collocate sul portale del duomo (oggi invece sono conservate nel battistero), raffigurano uomini impegnati nei vari lavori agricoli stagionali, accompagnati dai segni zodiacali. L’opera si distingue per la cura dei particolari e la descrizione degli utensili, delle piante, dei frutti e degli animali, nel rispetto del più realistico naturalismo.
LA GRANDE EREDITA’ PAGANA. Non solo il Capodanno ma tutto il calendario, in realtà, ruotava intorno alla figura di Gesù Cristo e alla commemorazione degli eventi principali della sua vita terrena le altre date fondamentali erano la Pentecoste, che ricordava la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli e l’inizio della loro missione, e il Corpus Domini, introdotto a partire dal 1247 per celebrare la reale presenza di Cristo nell’eucarestia (in contrapposizione alla tesi di chi ne accettava la sola presenza simbolica). Accanto al Salvatore, il calendario annoverava una serie di ricorrenze di carattere più profano: tutte occasioni che conservano un significato profondo e arcano, che affondava le sue radici, soprattutto nella campagna e nelle aree di più recente evangelizzazione, nel ricordo delle più antiche ritualità agresti, che ancora scandivano la vita quotidiana. Nel mondo celtico, per esempio, erano sacri i solstizi e gli equinozi, momenti di ritrovo collettivo, allietati da fuochi dal valore scaramantico o propiziatorio. I giorni in cui cadevano erano poco significati per l’agricoltura, ma importanti per la pastorizia, soprattutto per le feste delle Beltaine e Samonios: la prima spalancava le porte all’estate, ed era il momento propizio per portare le mandrie al pascolo; la seconda, che coincideva con l’inizio dell’anno, decretava l’inizio dell’inverno, ossia il tempo di mettere le bestie al riparo nei recinti e negli ovili. Queste festività erano l’occasione per incontrarsi, commerciare, celebrare fidanzamenti e matrimoni, stipulare alleanze tra tribù, organizzare assemblee e fiere. Data la loro solennità di festa pubblica, prevedevano grandi banchetti, danze e giochi. Ma il grande protagonista era il fuoco, elemento purificatore per eccellenza, chiamato in causa per tenere lontano il male, le malattie e altre sciagure che minacciavano l’intera collettività. ndel grande raduno tribale e dei commerci, infine Imbole, ogni inizio febbraio, in cui si benedicevano le pecore e si cercava protezione contro le epidemie.
La nascita nella morte.
Mancando i registri parrocchiali che annotavano il battesimo, imposti solo con la Controriforma, per la maggior parte delle persone era difficile conoscere con certezza la propria data di nascita. Non così il giorno della morte, che nell’uso cristiano era considerato il vero “Dies natalis” (ossia il giorno della nascita alla vita eterna). Nelle chiese e nei monasteri esistevano registri detti obituari (il più antico è del IX secolo appartiene all’abbazia francese di Saint Germain des-Prés) con l’elenco dei nomi dei benefattori (che avevano disposto un lascito testamentario o aveva fatto una donazione a favore dell’ente), accompagnato dalla data del decesso: ogni anno, nell’anniversario, doveva celebrarsi una funzione in suffragio.
|
TANTE FESTE, TANTI SIGNIFICATI. Con l’avvento del cristianesimo, ci si pose il problema di come rapportarsi con tali riti, espressione di una religiosità schietta e sincera ma, allo stesso tempo, pagana e quindi demoniaca, se vista con gli occhi della Chiesa. Due erano le soluzioni: o estirparli con la violenza, imponendo il nuovo credo (e fu ciò che tentarono vari missionari, con risultati spesso nefasti), oppure conviverci, adattando gli antichi riti ai nuovi valori. Quest’ultima strada, se da un lato comportò lo snaturamento delle tradizioni pagane, dall’altro ne consentì, alla lunga, la salvezza. I predicatori e i missionari cristiani, in genere, preferirono tentare la via del sincretismo tra vecchi e nuovi riti. Si trattava solo di ricalcare le orme degli antichi Romani, i quali avevano inglobato riti, feste e divinità con i nomi altrui, spesso semplicemente ribattezzando gli idoli con i nomi latini e segnandoli sul loro calendario.
Fu così che il 1° novembre, festa celtica di Samonios, diventò Ognissanti, e il giorno successivo fu dedicato alla celebrazione dei defunti, mantenendo l’originale funzione di portale o passaggio aperto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La festa di Imbole, che cadeva a inizio febbraio e annunciava l’arrivo della primavera, benedicendo le mandrie attraverso il fumo dei falò e le acque lustrali delle fonti sacre, celebrava la dea Brigit, donna saggia, era patrona del fuoco e aveva il potere di guarire uomini e animali. Nel calendario cristiano, il 1° febbraio si decise di festeggiare una santa dallo stesso nome vissuta in Irlanda, fondatrice, nel 500, dell’abbazia di Keldare. La sovrapposizione delle due figure fu talmente perfetta che dal VI secolo, esse divennero indistinguibili. Imbarazzata da quest’identificazione, la Chiesa decise poi di trasformare Imbole nella ricorrenza della Candelora, slittandola di un giorno, al 2 febbraio. Questa festa, celebrata in Oriente già nel IV secolo e diffusa in Occidente a partire dal VII secolo celebrava la purificazione della Vergine al Tempio, che secondo quanto prescritto dalla legge mosaica era avvenuta 40 giorni dopo la nascita di Gesù. Prima del rito, il sacerdote doveva benedire le candele, simbolo delle luce portata da Cristo nel mondo, da cui il nome di Candelora.
Stesso destino ebbe Beltaine, celebrata dai popoli celtici tra fine aprile e i primi di maggio, ossia all’inizio della metà luminosa dell’anno. La sua divinità era Bel, o Belenos, legato alla luce e con forti connotazioni apotropaiche; caratteristici della festa erano banchetti e libagioni intorno al fuoco. Divenne, per i cristiani, Calendimaggio: gli alberi della cuccagna permettevano ai giovani di esibirsi in difficili esercizi di acrobazia e arrampicarsi alla ricerca di un premio; il palo retto al centro di una piazza richiamava l’evidente significato fallico dell’antica ricorrenza, legata alla fecondità, e diventava l’occasione ideale per contrarre i matrimoni. Infine, la celtica Lugnasad, che cadeva a metà estate ed era dedicata al dio Lug, anch’esso legato alla luce: celebrava il grande raduno annuale delle tribù, occasione per giudicare le controversie e, per i giovani, di sfidarsi in gare di abilità e forza a cavallo. Il culto di Lug (identificato da Giulio Cesare con Mercurio, in quanto patrono del commercio, delle arti e delle invenzioni) era diffuso soprattutto in Gallia ma santuari appartengono a tutta l’aerea di occupazione celtica. Alla ritualità di questo periodo sono riconducibili gli analoghi falò di Ferragosto.
Il ciclo dei mesi.
Il tema dei mesi è presente sin dall’XI e XII secolo (lo troviamo per esempio nel duomo di Modena e a Parma): aveva il compito di nobilitare il lavoro, in linea con la nuova elaborazione teologica che interpretava la fatica non più come una maledizione divina seguita al peccato originale, bensì come mezzo per la salvezza dell’uomo attraverso la laboriosità e le opere. Le miniature qui riprodotte sono quelle, celeberrime, del Très Riches Heures du Duc de Berry, capolavoro della miniatura franco fiamminga del 1412-1416.
|
TRA SACRO E PROFANO. Il calendario prevedeva inoltre celebrazioni comandate di primaria importanza. Anche in questo caso, sacro e profano si incontravano speso. L’usanza dell’abete di Natale è retaggio pagano che richiama gli alberi sacri germanici e celtici, proprio come il vischio, ed è connesso ai riti Yule, il solstizio d’inverno, a sua volta accostabile alle ritualità romane e orientali del Sol Invictus. Sempre a Natale si decorava la casa, si indossavano abiti nuovi e si assisteva alla Messa di mezzanotte. Ma accanto a queste pratiche pie, si uccideva il maiale (altro retaggio pagano) si organizzavano banchetti e, soprattutto, si giocava a dadi, distrazione condannata dai predicatori. Scorrendo i documenti, si scopre che i chierici di Saint-Pierre di Lilla, in Francia, eleggevano una sorta di vescovo dei folli e poi si concedevano abbondanti libagioni. Il 1° gennaio era dedicato allo scambio dei doni: ci si radunava intorno a tavole imbandite, lasciandosi andare all’ebbrezza, qualcuno addirittura travestendosi. I costumi preferiti erano quelli da giovenca e soprattutto da cervo: dietro la maschera di quest’ultimo c’è il chiaro richiamo al dio celtico Cernunnos, spirito divinizzato degli animali maschi cornuti e associato alla riproduzione e alla fertilità. Naturalmente si trattava di pratiche condannate dalla Chiesa perché, come scrive in un sermone San Cesario, chi si abbandona in quel giorni a simili dissolutezze, anche se è stato casto durante tutto l’anno, diventa subito impuro. I concili si diedero da fare per sopprimere i bagordi: quello di Auxerre (573-603) proibì di travestirsi e di fare regali diabolici; quello di Roma del 743 biasimò le Feste di Bacco del 25 dicembre (Brumalia), ancora di moda, vietandole e sostituendole con un bel digiuno. Ma invano: ancora alla fine del Medioevo. Il 1° gennaio ci si travestiva e si folleggiava, e per l’Epifania, almeno in Francia, era molta amata la questua dell’aguilaneuf (al vischio l’anno nuovo! Augurio che i bimbi poveri ripetevano ai ricchi, chiedendo l’elemosina). Ricordando la visita dei Re Magi al Bambinello, si preparata una torta nella quale era inserita una fava: chi la trovava diventava il re della festa. Inoltre si giocava alla soule (dal celtico seaul, sole), cioè con una palla ricavata dalla vescica del maiale o del bue riempita di paglia, che aveva spiccati caratteri legati alla fecondità. Sono riti che preludono a quelli del Carnevala, festa il cui nome sembra derivare dal latina carnem levare, cioè abolire la carne, e che in origine indicava l’ultimo banchetto in cui erano consentite pietanza del genere prima del digiuno di Quaresima. Un suo antecedente è stato rinvenuto nei Saturnalia romani, feste dedicate al dio Saturno, che alternavano sacrifici benauguranti a banchetti, giochi, libagioni e scambi di doni. Tali festeggiamenti, il più delle volte, sfociavano in eccessi in cui era consentito di tutto, compreso lo scambio dei ruoli indossando gli abiti altrui. Dopo un’iniziale condanna, anche le autorità ecclesiastiche presero ad accettare questo genere di feste, scorgendovi una valvola di sfogo all’esuberanza popolare, capace di neutralizzare le tensioni sociali e le energie potenzialmente sovversive.
Metteva fine ai bagordi il rigore della Quaresima, che arrivava subito dopo, e che per quaranta giorni imponeva preghiera e penitenza in preparazione alla Pasqua. Il digiuno (cioè l’astinenza dalle carni e dal vino, e la riduzione a uno solo pasto quotidiano) venne stabilito già nei primi secoli del cristianesimo, ma la sua osservanza fu più volte oggetto di revisione nel corso del Medioevo.
Calendari e libri d’ore.
Verso il tardo Medioevo, i nobili commissionavano preziosi libri d’ore, riccamente miniati, con l’indicazione di alcune preghiere (l’ufficio della Vergine, i salmi penitenziali, le litanie e l’ufficio dei morti) non comprese nei testi liturgici, come messale e antifonario, le quali potevano essere recitate anche privatamente.
| |
Il carnevale mascherato.
Oinochoe raffigurante la sfilata di un gufo armato durante la celebrazione delle Antesterie (410–390 a.C.).
Con la sua carica irriverente, il Carnevale si contrapponeva alle forme religiose ufficiali e si caratterizzava come il momento del riso e della follia, dello scherzo, della materialità e dell’abbondanza. Era anche l’occasione per dissacrare le autorità ed emanciparsi, almeno temporaneamente, dal potere dominante: ecco perché la festa era tanto amata dal popolo. Protetti da una maschera, anche i più umili potevano dimenticare per un momento la loro condizione e diventare altri. Il clero vedeva nei bagordi del Carnevale un elemento potenziale di lascivia e immoralità, ma anche di sovversione dell’ordine precostituito. Provò a sopprimerlo, ma non vi riuscì mai.
| |
La Chiesa e le feste.
Con l’imposizione della dottrina cristiana, la Chiesa provò a sopprimere le festività pagane, ma più tardi preferì assimilarle, attuando una forma di sincretismo che mantenesse le tradizioni antiche, piegandole però al nuovo significato spirituale cristico.
Abituata al complesso calcolo per determinare la caduta della Pasqua, legata ai cicli lunari, la Chiesa si considerò sempre custode della scienza del tempo. Fu infatti un papa Gregorio XIII, a imporre la riforma del calendario giuliano nel 1582.
| |
Marzo bicorno, re dei venti.
Il mese di marzo compare spesso come un uomo arruffato che suona due corni (Marcius cornatori), simbolo dei venti e dei temporali primaverili. L’iconografia si diffonde a partire dal XII. Era l’allegoria di un periodo turbolento, che si credeva dominato da influenza maligne.
| |
Sole e luna: i due signori del tempo.
Il calendario si basava sui cicli del sole e della luna. Quest’ultima serviva a calcolare la Pasqua, festa mobile che variava secondo le tradizioni (cattolica, ortodossa, irlandese ecc.)
|
CHI CERCATE? Durante la Pasqua (il rito di passaggio ebraico che, per i cristiani, coincide con la resurrezione di Cristo) era molto popolare la sacra rappresentazione, in cui due o più lettori mettevano in scena, di solito in piazza o sul sagrato della chiesa, un testo religioso legato alla Passione di Cristo. Una delle prime testimonianze risale al 970: il vescovo di Winchester, in trasferta a Limoges, in Francia, descrive un monaco che interpreta, sulla pubblica piazza, la parte dell’angelo, va a sedersi presso il Sepolcro, viene raggiunto da altri tre monaci che impersonano altrettante Marie e che si aggirano come se stessero cercando qualcosa; il monaco angelo canta: “Quem quaeritis?” (chi cercate?); segue l’annuncio della Resurrezione, e il tutto termina con il canto corale del Te Deum. Era un modo molto semplice ed efficace per calare nello spirito dei misteri sacri anche chi non capiva il latino, ossia la stragrande maggioranza della popolazione. Dal Duecento in poi, grazie alla spinga francescana, queste rappresentazioni si svolsero in lingua volgare e si imposero come un’importante forma di intrattenimento e socializzazione. Proseguendo nell’anno canonico, si incontrava la Pentecoste, in cui si compivano pellegrinaggi e si recitavano i misteri della passione dei santi; seguiva (a partire dal Duecento) il Corpus Domini, in cui ci si cingeva il capo di rose. Ma il vero protagonista era sempre il fuoco, come già nei rituali precristiani, che tornava dirompente il 24 giugno (San Giovanni Battista, che viene festeggiato vicino al solstizio estivo in quanto annunciatore del Cristo, il cui Natale coincide con il solstizio invernale), il 29 giugno (Santi Pietro e Paolo), il 15 agosto (Ascensione della Vergine). A queste celebrazioni religiose, i contadini affiancavano la mietitura, la vendemmia e altre attività agresti festeggiate mediante danze, banchetti e giochi.
Con l’arrivo del freddo, oltre alle celebrazioni dei patroni e alle festività locali, le ricorrenze di spicco erano le già citate Ognissanti e Defunti, e poi le feste di S. Martino (in cui si pagavano le decime), S. Nicola e S. Lucia. Quest’ultima, il 13 dicembre, era molto popolare nei Paesi nordici, in Tirono e in Boemia, in Italia a Bergamo e lungo l’arco alpino. La santa portava i doni ai bambini, così come S Nicola (il 6 dicembre), vero antisegnano di Babbo Natale. Intitolata a una vergine martire siracusana la celebrazione di S. Lucia richiama (lo dice il nome) il culto della luce. Il giorno è ricordato dalla tradizione come il più corto dell’anno, passato il quale la luce trionfa sulle tenebre e le giornate si allungano, e in antico coincideva con il solstizio d’inverno, che oggi cade il 21 dicembre. Il perché è presto detto: nel 1582, papa Gregorio XIII introdusse una radicale riforma del calendario per rimediare all’accumulo di secolari errori di calcolo. Quell’anno si dovettero sopprimere ben 10 giorni: quello più corto divenne così il 21 dicembre, e tale rimase da allora.
Articolo in gran parte di Elena Percivaldi, storica medievalista, pubblicato su Medioevo misterioso extra n. 7. Altri testi e immagini da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento