giovedì 13 settembre 2018

I leggendari cavalieri di Savaran

I leggendari cavalieri di Savaran.

Per quasi cinque secoli (III-VII d.C.), gli eserciti sasanidi riuscirono a tenere a bada l’avanzata romana, prima, e bizantina, poi. Lo fecero in virtù di un’organizzazione militare superba incentrata su reparti d’élite di cavalleria pesane. I Savaran, divenuti celebri per le loro cariche inarrestabili, erano l’incubo di ogni avversario.
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Rilievo sasanide a Naqsh-e Rustamraffigurante Sapore I che tiene prigionieroValeriano e riceve l'omaggio di Filippo l'Arabo, inginocchiato davanti al sovrano sasanide.
Sapore I (Farsi شاپور اولŠāpūr, traslitterato anche come Shāhpur o Šābuhr - dall'antico-persiano xšayaθiya puθra("figlio di re") -; Firuzabad215 circa – Bishapurmaggio 270) è stato re sasanide di Persia dal 12 aprile 241 alla sua morte.
Conseguì diverse vittorie contro eserciti invasori dell'Impero romano, catturando l'imperatore romano Valeriano

Divisa di un guerriero catafratto ritrovata in Kazakistan

Ai giorni nostri Alessandro il Grande, Annibale, Cesare, Attila o Gengis Khan, tanto per fare alcuni esempi, non hanno più segreti: sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo, vengono osannati come geni militari e le loro battaglie sono studiate come esempi di strategia e tattica inarrivabili. A Sapore I, sovrano sassanide che regnò dal 241 al 271, la storia invece ha riservato ben altra sorte: quasi sconosciuto ai più, è materia di studio solo per pochi esperti. È quasi incredibile, se si considera che durante il suo regno riuscì in un’impresa sensazionale: sconfiggere ben tre imperatori romani. Come dimenticare il terribile destino riservato a Valeriano, preso prigioniero e messo alla berlina – secondo lo storico Lattanzio . prima di essere barbaramente ucciso?
Le imprese di Sapore sono per solo uno dei tanti capitoli che hanno caratterizzato il permanente stato di guerra tra Roma prima, Bisanzio poi, e la Persia, un conflitto mortale da cui non si materializzò mai un vincitore. Eppure per quasi quattro secoli gli eserciti sassanidi, la superpotenza d’Oriente, seppero tenere testa, sebbene non siano mancate cocenti sconfitte, allo strapotere delle legioni romane, dimostrando di poter combattere alla pari. Una realtà che la Città eterna, fu alla fine costretta ad accettare. Ma non solo. Nella seconda metà del IV secolo, il filosofo siriaco Libanio, scriveva: “…(i Romani) preferiscono soffrire qualsiasi destino pur di dover guardare in faccia un persiano”. Affermazione, per nulla esagerata, dettata dalla perfetta conoscenza degli eventi militari che da decenni si susseguivano senza sosta ai confini dell’impero, ma anche dall’esperienza patita sulla propria pelle: proprio a lui, infatti, era toccato piangere la morte dell’imperatore Giuliano, suo intimo amico, ucciso nel corso della fallita spedizione in Persia del 363. E non ci sono dubbi che con quell’espressione “persiano” intendesse riferirsi, più di ogni altra cosa, agli implacabili cavalieri catafratti (sia l’uomo che il cavallo erano dotati di pesanti armature), diventati l’incubo di ogni legionario.
Conosciuti con il nome di Saravan, erano un’eccezionale corpo scelto, che costituiva l’ossatura di ogni esercito sassanide, la cui presenza sul campo di battaglia si rivelò risolutiva per quasi cinque secoli (III-VII), tanto da raggiungere una fama paragonabile a quella della cavalleria araba o mongola. Non si esagera di certo quando si afferma che fu proprio la loro leggendaria abilità ad aver salvato la Persia dalla lunga mano di Roma.

I catafratti nella storia.

Re persiano vestito da catafratto, della dinastia sasanide (226-637), Kermanshah, Iran

I Sassanidi non furono i primi, né sarebbero stati gli ultimi, a impiegare formazioni di catafratti. A partire almeno dal V secolo a.C., sebbene venissero utilizzate tattiche diverse, i catafratti erano stati adoperati da Achemenidi e Parti, loro predecessori nel controllo dell’altopiano iranico; e proprio da questi ultimi avrebbero ereditato la loro specifica tradizione militare, per poi migliorarla e adattarla alle loro specifiche esigenze.
Ma dove nacquero questi guerrieri corazzati? Sebbene non ci sia un accordo definitivo, i principali indiziati sarebbero le popolazioni sedentarie massagete della Corasmia, una regione dell’Asia corrispondente all’attuale Uzbekistan; invenzione dettata dall’esigenza di contrastare la minaccia dei cavalieri nomadi delle steppe. L’impero achemenide, che era a contatto con i Massageti, potrebbe pertanto aver adottato questa soluzione, incorporando nel suo esercito unità di catafratti in qualità di mercenari.
Dopo la parentesi vittoriosa di Alessandro Magno in Persia (seconda metà del IV secolo) questa pratica fu accolta anche dai regni ellenistici, formatisi dalla dissoluzione del suo impero: regno selucide e regno greco-bactriano. Dopodiché furono proprio i Parti, che riuscirono a strappare ai Selucidi il controllo delle terre a nord dell’Iran, intorno al Mar Caspio, a impiegarli in maniera assidua come lancieri supportati da arcieri a cavallo. Saranno proprio loro, infatti, a sconfiggere le legioni di Crasso nella famosa battaglia di Carre nel 53 a.C., adottando questa tecnica. Gli stessi Romani, dopo averne sperimentato l’efficacia sulla propria pelle, a  partire dal III secolo decisero di costituire unità di cavalleria corazzata che presero il nome di equites cataphractari o clibanarii, da impiegare come truppe di supporto agli eserciti legionari.
L’impiego dei catafratti non si esaurì con la fine dell’impero sassanide. Oltre a essere assai in voga presso l’esercito tardo bizantino, tanto da diventare un vero punto di forza delle sue tattiche – una loro carica poteva mettere in crisi lo schieramento nemico grazie anche all’adozione delle staffe – divennero anche l’ossatura degli eserciti turco-mongoli o mamelucchi.    

IL SEGRETO DELLA MOBILITA’. Per capire il ruolo avuto dalla cavalleria pesante nel garantire la sopravvivenza della dinastia sassanide è necessario comprendere la struttura dell’esercito. A differenza dei Romani, i Persiani non svilupparono mai una fanteria paragonabile a quella legionaria, ma preferirono affidarsi a due componenti a cavallo: una leggera, l’altra pesante. Una scelta dettata da condizioni geografiche (le enormi distese dell’Altopiano iranico e dell’Asia centrale) e militari (i loro nemici erano per lo più nomadi che si muovevano a cavallo con rapide strategie d’attacco, contro cui i fanti non avrebbero mai potuto avere la meglio). Ciò non significa però che non esistessero reparti di fanteria leggera (giavellottisti, frombolieri, ecc.) o pesante come i Dailamites, che venivano schierati in seconda linea ed erano conosciuti per la loro abilità negli scontri corpo a corpo, ma nel complesso il loro impiego era limitato o secondario, rispetto a reparti dotati di maggiore mobilità, tra cui eccellevano proprio i Savaran. Esisteva anche una componente di cavalleria leggere i cui effettivi, reclutati tra i popoli alleati (Alani, Albani; Unni, Cazari e Arabi), venivano inquadrati come truppe mercenarie, con compiti di supporto. Piuttosto efficaci erano anche unità, il cui numero però andò riducendosi nel tempo, di arcieri, impiegabili nelle prime fasi dello scontro per indebolire il nemico con fitti lanci di dardi. Una volta che la formazione avversaria era stata dispersa, o i loro ranghi indeboliti, era più facile per la cavalleria pesante attaccare. Erano utilizzati a questo scopo anche alcuni reparti di elefanti da guerra che, per quanto non numerosi, potevano terrorizzare l’avversario con le loro cariche improvvise, come nel caso della battaglia del Ponte (634),  presso Kufa in Iraq, in cui gli Arabi furono messi in rotta proprio dalla vista di quegli enormi pachidermi. In questo caso si trattava però di truppe di provenienza indiana, come dimostra il titolo di Zend-hapet, Comandante degli Indiani, presente nelle fonti dell’epoca. L’esercito sassanide quindi, se paragonato a quello romano, era un apparato più mobile e dinamico, in grado di mettere in pratica complesse tattiche di mordi e fuggi, finalizzate a sfiancare il nemico (una volta che la formazione si era scompaginata) tanto da poterlo poi attaccare frontalmente con le irresistibile cariche dei catafratti. L’impatto di questi cavalieri, dotati di lancia, spada e mazza ferrata e protetti da pesanti armature, su fanti appiedati aveva in genere un effetto devastante; un modo di combattere che ebbe una profonda influenza anche sugli eserciti di Roma che, a partire dal III secolo, incominciarono a dotarsi di unità di catafratti per poter competere con i loro nemici proprio alle frontiere orientali dell’impero.

La tattica in tre mosse.
Ecco un chiaro esempio di come un esercito sassanide era in grado di attaccare la prima linea   nemica: il classico assalto composto da Savaran e arcieri.

Fase 1.
L’esercito sassanide si avvicina lentamente al campo di battaglia assumendo una formazione su tre linee profonde: la prima è formata da catafratti, la seconda da arcieri a cavallo, la terza delle migliori unità d’assalto Savaran, Gyan-avspar-Peshmerga, il meglio della cavalleria persiana. Dopodiché la prima linea simula una carica contro lo schieramento nemico composto da fanteria pesante.

Fase 2.
La fanteria nemica serra i ranghi per affrontare la minaccia, ma in realtà i Savaran interrompono la carica per permettere agli arcieri di mirare con tutta calma e tirare sull’avversario che, a quel punto, offre un facile bersaglio. Una vera tempesta di dardi colpisce i fanti nemici, intenti a difendersi dalla minaccia dei lancieri, provocando pesanti perdite, aprendo i ranghi e riducendone il morale. A seguire, gli arcieri si ritirano.

Fase 3.
È il momento atteso dalle truppe d’assalto, veri e propri carri armati dell’antichità, dotate di armature pesantissime in grado di resistere ai colpi di qualsiasi arma. In formazione serrata, i Peshmerga attaccano con la massima rapidità, sapendo perfettamente che il loro unico obiettivo è spezzare la formazione nemica e metterla in fuga. Non hanno alternative: il peso della loro armature è tale che un cavallo non sarebbe in grado di resistere a una seconda carica, né tantomeno fuggire se incalzati dal nemico.   
IL FIOR FIORE DELLA NOBILTA’. Da dove provenivano questi temibili combattenti? La struttura della società sassanide era dominata dalla casta dei guerrieri, o Arteshtaran, al cui vertice erano posizionati proprio i Savaran. Si trattava quindi dei membri più in vista dell’aristocrazia, suddivisi in tre categorie d’importanza decrescente: la prima era rappresenta dalle sette famiglie più altolocate di Persia (tra cui eccelleva la Casa di Sassan) e Partia; la seconda dagli Azadan, l’alta nobiltà di discendenza ariana che, a partire dal regno di Media (VII-VI secolo a.C.), aveva conquistato l’altopiano iranico (costituivano la componente più numerosa dell’esercito); e infine i Dehkans, arruolati all’interno della nobiltà minore. A questa prima suddivisione seguivano tutta una serie di reparti con compiti diversi a seconda del rango e delle capacità militari. Il meglio del meglio era rappresentato dagli Zhayedan, gli Immortali, diecimila uomini guidati da un comandate che portava il titolo di Varthragh-Nighan Khvadhay. Questa era un’unità attiva fin dagli albori dell’impero sassanide, ideata per emulare l’omonimo reparto impiegato dall’esercito achemenide secoli prima, tanto da riprenderne uniformi e insegne. Il loro ruolo era vitale: schierati dietro le linee, avevano il compito di chiudere ogni possibile falla durante le fasi cruciali della battaglia. Altrettanto famosi erano anche i mille uomini della Pushtighban, o Guardia Reale, condotti da un comandante con il titolo di Pushtighban-Salar, e che in tempo di pace erano acquartierati nella capitale Ctesifonte. Quei cavalieri, poi, che eccellevano in battaglia potevano aspirare a far pare dei temibili reparti d’assalto Gyan-avspar, o Pesmerga. ‘coloro che sacrificano la vita’. A prtire dalla fine del VI secolo, inoltre, con la riforma militare di Cosroe II (590-628), il numero di reparti di prestigio finì con aumentare, per far fronte alle sempre più complesse sfide militari. Tra questi si può citare una grande unità, chiamata i Cavalieri d’Oro (al cui comando era posto un ufficiale di rango molto elevato), che utilizzava armature pesanti dorate e divenne celebre per le sue inarrestabili cariche frontali.

SAVARAN.
La cavalleria pesante sassanide dal III al VII secolo subì notevoli cambiamenti in funzione di sempre nuove tattiche. Le varie riforme militari portarono a un aumento della protezione (per resistere a qualsiasi tipo di offesa) sia del cavaliere che del cavallo, con logico aumento del peso dell’armatura. Fattore non trascurabile, soprattutto in regioni dove le proibitive condizioni climatiche dei mesi estivi avrebbero inevitabilmente fiaccato il cavallo e logorato il cavaliere. I Savaran vennero, per tale ragione, impiegati principalmente come truppe d’assalto per rapide cariche frontali, finalizzate a mettere in crisi le formazioni nemiche e lasciarle alla mercé degli arcieri. Perfettamente addestrati e motivati, questi uomini, divennero pertanto temuti e rispettati da tutti gli avversari con cui si misurarono: anche le legioni romane, la più potente fanteria dell’epoca, ben poco poteva contro le loro terribili cariche frontali.

Ricostruzione di un cavaliere pesante catafratto della nobiltà partica

CAVALIERE DEL III SECOLO.
I cavalieri di questo periodo erano così armati e protetti: lancia: l’arma principale contro formazioni serrate;  elmo: tra vari tipi di copricapo figura anche un elmo a calotta senza paraguangue; armatura: veniva indossata una cotta di maglia che copriva tutto il corpo e il viso, e sopra un’armatura lamellare per il busto e un lorica segmentata per gli arti inferiori; arco: alcuni cavalieri erano dotati anche di arco composito per poter colpire da lontano ; bordatura del cavallo: l’intero cavallo,, o talvolta solo la sua parte frontale, veniva bardato da un’armatura per proteggerlo nelle cariche frontali.
CAVALIERE DEL VII SECOLO.
I cavalieri di questo periodo erano così armati e protetti: lancia: era l’arma principale per le cariche frontali. Erano in uso anche asce da guerra e mazze ferrate; elmo: si tratta di un caratteristico copricapo conico in grado di adattarsi alla cotta di maglia che proteggeva la testa; arco e faretra: in epoca tarda tutte le unità di Saravan vennero dotate di arco composito e faretra; spada: per il combattimento ravvicinato era in uso una pesante spada con lama a doppio taglio; bardatura del cavallo: la bardatura del cavallo è totale. Un’armatura lamellare ricopre l’intero animale nelle sue parti vitali, ad eccezioni degli arti inferiori.

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Catafratto sasanide alla carica, da un rilievo a Taq-e Bostan. La micidiale cavalleria pesante sasanide non riuscì a far pesare la propria forza contro l'esercito di Giuliano
L'esercito sasanide (persianoارتش ساسانيانArtesh-e SāsāniyānpahlaviسپاهSpâh, "esercito") nacque con la riforma introdotta da Ardashir I, primo sovrano sasanide e difese l'Eranshahr (il "regno dell'Iran") per oltre 400 anni, fino alla conquista araba.



ORGANIZZAZIONE TATTICA. I Sassanidi all’inizio del III secolo d.C. adottarono il sistema di organizzazione militare in voga nell’esercito partico, da loro sconfitto nel 224 nella battaglia di Firuzabad (da cui ereditarono il controllo della Persia), perfezionandolo e portandolo a un livello di efficienza superiore. In generale esistevano tre tipi di unità: i Vasht, che erano piccole compagnie, i Drafsh,, reparti di circa mille uomini dotati di particolari simboli di riconoscimento; i Gund, vere e proprie divisioni, guidate da un Gund-Salar (una sorta di generale), i cui effettivi poteva arrivare a 10mila uomini. mediamente un esercito sassanide standard era in grado di schierare circa 12mila uomini, il cui nucleo principale era costituito proprio di Savaran. Quel’era il loro numero rispetto al resto delle truppe? Dati alla mano, sappiamo che in epoca partica il rapporto tra lancieri e arcieri a cavallo era di uno a dieci; in epoca sassanide, invece, questa proporzione subì un radicale cambiamento a favore dei primi, tanto che la componente catafratta divenne predominante, con gli arcieri in netto declino. Per quanto riguarda l’impiego sul campo la pratica più frequente era dividere l’esercito in cinque unità: una prima linea di cavalleria catafratta (Savaran), una linea di rinforzo di fanteria pesante subito dietro, due ali (in genere costituite da reparti a cavallo) e una piccola riserva composta dalle migliori unità di Savaran (Peshmerga). La prima linea, con relative truppe di supporto, funzionava come centro dello schieramento e aveva il compito di mantenere i ranghi uniti in caso in cui le ali fossero collassate; questo per evitare pericolose manovre di aggiramento del nemico. Più arretrate, rispetto al resto dell’esercito, erano schierate le unità più prestigiose degli Immortali; sebbene in alcune situazioni, quando la gravità dello scontro lo richiedeva, potessero essere poste sull’ala destra, a discrezione del comandante in capo dell’esercito che, posizionato in un luogo elevato, poteva tranquillamente seguire l’andamento della battaglia.

Un’evoluzione continua.


Spada sasanide del VII secolo.

Si possono ricostruire tre fasi principali nello sviluppo dell’esercito sassanide. La prima può essere definita partica, perché era stata mutata dai predecessori (regno di Partia), e consisteva nell’impiego di unità di cavalleria pesante supportate da arcieri a cavallo chiamati Saggitari: il compito dei catafratti era spezzare il fronte unico della fanteria legionaria per permettere agli arcieri di decimarli. Solo in un tempo successivo gli arcieri sembrano passare in secondo piano e perdere importanza. Sapore (309-379§), a sua volta, andò oltre, dotandosi di cavalleria molto più pesante con soluzioni tecniche che la rende ressero quasi invulnerabile. Ciò comportò l’adozione di cotte di maglia dalla testa ai piedi, abbinate ad armature lamellari per proteggere le parti più vulnerabili del cavaliere e del cavallo. Secondo alcuni autori latini, i Savaran indossavano elmetti pesantissimi con maschere facciali su cui erano ricavati piccoli fori per occhi e naso. Lo scrittore greco Eliodoro di Emesa riporta come l’armatura di questi catafratti fosse al sicuro da ogni tipo di colpo; il che farebbe pensare a soluzioni tecnologiche così avanzate da impedire alla frecce degli arcieri romani di penetrarle efficacemente.
La terza fase, invece,, comportò la comparsa di una sorta di cavaliere universale in grado di di usare sia la lancia sia l’arco; combattente che presto si diffuse dall’Asia centrale alla Persia, fino all’impero romano d’Oriente (durante l’ultima fase dell’impero sassanide fecero la loro comparsa anche le staffe). Per capire quale aspetto potesse avere ci viene in aiuto il rilievo rupestre di Taq-e-Bostan, presso Kermanshah, in Iran, dove si vede un cavaliere dotato di armatura pesante con cotta di maglia lunga, lancia, spada, arco. Pare, come testimoniato da altre fonti storiche, che venisse impiegato anche uno scudo (mai usato prima) per proteggersi da armi di lancio o in combattimenti corpo a corpo.
  
UNA STRATEGIA VINCENTE. I Sassanidi adottavano una dottrina ben precisa: posizionare la cavalleria in prima linea o come avanguardia. I catafratti avanzavano con le loro lunghe lance in posizione serrata, mentre gli arcieri a cavallo, a supporto, bersagliavano il nemico da lontano. In praticasi trattava di applicare tattiche mordi e fuggi, con rapide e potenti cariche di cavalleria pesante, improvvise ritirate e fitti lanci di frecce. L’usanza partica di scoccare frecce in corsa o all’indietro continuò pertanto anche in epoca sassanide. Per gli eserciti romani che per dovettero confrontarsi con loro, queste tattiche risultarono con il tempo sempre più complesse e pericolose.  Un esempio molto interessante riguarda la battaglia di Singaradle 348:  in quella situazione i Sassanidi attaccarono con in testa i Savaran, subito seguiti dagli arcieri a cavallo, per poi lanciare una seconda carica di catafratti: la prima costrinse il nemico a serrare i ranghi, diventando un facile bersaglio per le frecce e, una volta decimato, venire travolto dalla seconda ondata. La pioggia di dardi era una minaccia assai temuta perché, se ripetuta, era in grado di faccare anche le truppe meglio preparate e addestrate. Secondo il racconto dello storico Ammainano, i Savaran  erano truppe formidabili, ma non immuni da punti deboli. A causa del peso del loro armamento avevano poca autonomia sul campo di battaglia. Per questo venivano usati come unità d’assalto per aprire o scardinare le linee nemiche. Per i Sassanidi, infatti, la battaglia si decideva, il più delle volte, con una singola, ma potente carica frontale dei lancieri; fattore che permise ai Romani, in alcune situazioni, di opporvisi con successo, a patto che le truppe mantenessero una rigida disciplina. Nel 549, infatti, nella battaglia di Lazica, la cavalleria romano-bizantina, invece di ingaggiare la controparte nemica, scese da cavallo per unirsi alla fanteria, sventando la minaccia. Ma i  Sassannidi erano spesso in grado di escogitare nuove soluzioni: quando le condiziono lo richiedevano, i Savaran, fingendo di caricare frontalmente, a sorpresa convergevano verso le ali, in modo tale che fosse la fanteria in seconda linea a ingaggiare le truppe legionarie. Un espediente che spesso disorientava il nemico.

Le loro battaglie più famose.
Mesiche. Agli inizi del 244, nei pressi di Mesiche, (non lontano dall’attuale città irachena diFallua), si materializza un gran scontro tra le forse di Sapore I, i cui effettivi non sono noti, e un esercito romano composto da almeno 150mila uomini al comando dell’imperatore Gordiano III che, dopo aver battuto il nemico nella battaglia di Resena, era avanzato inesorabilmente. L’esito è incerto (entrambi i contendenti rivendicano la vittoria), ma i Romani vengono in gualche modo fermati. Gordiano, inoltre, caduto da cavallo durante uno scontro successivo muore. 
« Il divo Gordianovincitore dei Persianivincitore dei Goticonquistatore dei Sarmati, che respinse gli ammutinamenti a Roma, vincitore dei Germani, ma non vincitore di Filippi". »
(Historia AugustaGordiani tres, 34, 3.)


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Gordiano III, potrebbe essere stato ferito nel corso dello scontro, e poi fatto uccidere dal suo successore Filippo l'Arabo

Barbalissos. Un esercito sassanide, guidato da Sapore I, i cui effettivi non sono conosciuti, si scontra nel 252, presso la località mesopotamica di Barballissos, con un esercito legionario composto almeno da 60mila uomini, al comando del quale c’erano in governatori del limes orientale, e lo sconfigge pesantemente. La vittoria sasanide apre la strada alla conquista della conquista della capitale provinciale Antiochia, che viene razziata. Tre anni dopo, stessa sorte avrà la città di Doura Europos, in territorio siriano
Nel 252 (o 253) Sapore attaccò la Mesopotamia romane. Lo scontro più importante fu proprio quello combattuto a Barbalissos, dove il re sasanide ebbe ragione dei Romani, secondo le Res Gestae Divi Saporis:
« (11) Poi noi attaccammo ancora l'Impero romano e distruggemmo una forza di 60.000 armati a Barbalissos, mentre la Siria ed i suoi dintorni noi bruciammo, distruggemmo (12) e depredammo tutte. »
(Res Gestae Divi Saporis, riga 11-19 da Richard Stoneman, Palmyra and its Empire. Zenobia revolt against Rome, Michigan 1994, p.93.)
Byzantine Tower at Meskene, ancient Barbalissos.jpg
I resti della città di Barbalissos.

Ctesifonte. Il 26 maggio del 363, dopo una lunga spedizione in , face sassanide, l’esercito dell’imperatore romano Giuliano, quantificabile in 35mila uomini, giunge in prossimità della capitale Ctesifonte. Ad attenderlo c’è un’armata nemica al comando del generale Merena, più numerosa e con un grande contingente di Savaran a disposizione. Eppure Giuliano riesce ad attaccare il nemico e a riportare un clamoroso successo. Nonostante questo, però, la strategia sassanide ha la meglio: senza rinforzi e sottoposto a continua pressione, Giuliano deve ritirarsi. Pochi giorni dopo, in uno scontro minore, viene ferito mortalmente.
Giuliano davanti alle mura di Ctesifonte

Callinicum. Il 19 aprile 531, presso Al-Raqqa, nella Siria settentrionale, l’esercito sassanide, guidato dal comandante in capo Azarethes e valutabile in 15mila uomini, viene in contatto con un’armata bizantina di 25mila uomini al comando del generale Belisario. Si acendo uno scontro furioso che durerà tutta la giornata, con fasi alterne e pesanti da ambo le parti. Solo verso sera la cavalleria Savaran riesce a mettere in crisi il nemico e ad aprire una breccia nel suo schieramento, mettendo in fuga la cavalleria. La fanteria bizantina resiste fino a sera, ma non è in grado di mutare il corso della battaglia. Per Belisario è la prima sconfitta della sua carriera.
« O Romani, dove state andando di corsa? Cosa vi è accaduto per farvi scegliere un pericolo che non è necessario? Gli uomini credono che ci sia soltanto una vittoria che sia genuina, vale a dire non soffrire danno per mano del nemico, e questa cosa ci sta accadendo ora grazie alla fortuna e al timore di noi che domina i nostri nemici. Di conseguenza è meglio godere il beneficio delle nostre attuali preghiere che cercarle, quando sono passate. I Persiani, infatti, guidati da molte speranze, hanno intrapreso una spedizione contro i Romani ed ora, avendo perso tutto, stanno battendo in una ritirata affrettata. Di conseguenza se li costringiamo contro la loro volontà ad abbandonare il loro proposito di ritirarsi ed a venire a battaglia con noi, non otterremo alcun vantaggio se vinceremo (perché, del resto, uno dovrebbe sconfiggere un fuggitivo?), mentre se dovessimo perdere, cosa che può accadere, noi saremo privati della vittoria che ora abbiamo ottenuto, non essendone derubati dal nemico, ma avendola gettata via noi stessi, ed inoltre abbandoneremo la terra dell'imperatore aperta in futuro agli attacchi del nemico senza difensori. Inoltre anche questo vale la vostra considerazione, che Dio è sempre solito soccorrere gli uomini in pericoli che sono necessari, non in quelli che scelgono per se stessi. Oltre a questo avverrà a tal proposito che coloro che non possono andare da nessuna parte rivestiranno la parte degli uomini coraggiosi anche contro la loro volontà, mentre gli ostacoli che ci verranno incontro nello scontrarci con loro sono molti; tantissimi, infatti, siete venuti a piedi e tutti noi stiamo digiunando. Mi astengo dall'accennare che alcuni non sono ancora arrivati »
(Procopio, La Guerra Persiana, I, 18)
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  Flavio Belisario è stato un generale bizantino, servì sotto Giustiniano I ed è considerato uno dei più grandi generali bizantini. Wikipedia


Bukhara. Nel 557 un esercito sassanide, supportato da truppe alleate del Khaganato turco occidentale, affronta, presso la città di Bukhara, nell’odierno Uzbekistan, una potente armata di unni bianchi. Cosroe I, memore della sconfitta patita dal nonno Peroz I nel 484 ad Herat, sfrutta un momento di crisi del nemico, impegnato su più fronti contemporaneamente, per lanciare due poderosi attacchi al cuore del regno avversario. E proprio sotto le mura della città, riesce a intercettare e distruggere l’armata unna impiegando la cavalleria pesante. La vittoria gli permette di annettersi i territori a sud del fiume Oxus. 

PERDITE SCONVOLGENTI. In quasi cinque secoli di lotta ininterrotta gli imperi romano-bizantino e sassanide si dissanguarono senza che si palesasse un vero vincitore. Poi, agli inizi del VII secolo, accadde l’impensabile e in poco meno di trent’anni si arrivo a una svolta: tra il 604 e il 622, complice una guerra civile che lacerava Bisanzio, le armate sassanidi dilagarono in Asia Minore e in Siria facendo temere un rapido crollo dell’impero romano d’Oriente. Solo la salita al potere dell’energico Eraclio (610-641) spostò nuovamente l’ago della bilancia: avvalendosi dell’appoggio di mercenari arabi, Eraclio mise in piedi un potente esercito e, tra il 627-8, contrattaccò su larga scala, mettendo in ginocchio la Persia che da allora non si riprese più. Finalmente questa guerra infinita sembrava essere arrivata a conclusione con un vero trionfatore. Purtroppo per i bizantini, però, lo sforzo militare aveva rappresentato un bagno di sangue sia in termini finanziari sia militari, con perdite che le fonti dell’epoca definiscono sconvolgenti. E di questa situazione ne approfittarono altri: nel giro di pochi anni le agguerrite armate arabe, con la loro cavalleria leggera, riuscirono a soggiogare la Persia e a travolgere i bizantini nel Vicino Oriente, relegandoli alla sola Asia Minore. Con l’uscita di scena di questi due secolari contendenti, fiaccati da continue dispute, si chiudeva un’era e se ne apriva  un’altra: l’inarrestabile espansione dell’Islam.


Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su Storie di Guerre e Guerrieri, edizione Sprea. Altri testi e articoli da Wikipedia.   

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