giovedì 13 settembre 2018

La conquista del Polo Nord - il Polo della discordia - la spedizione di Nobile

La conquista del Polo Nord. – Il polo della discordia: la spedizione di Nobile
Nel XIX secolo vari esploratori si avventurarono oltre il circolo polare artico alla ricerca del punto più settentrionale del pianeta. Lo statunitense Robert Peary disse di averlo raggiunto nel 1909.


Il carattere inospitale delle regioni polari ha rappresentato per millenni una barriera praticamente insormontabile per gli esseri umani. Solo piccole comunità di eschimesi si erano stabiliti nelle aree periferiche del Polo Nord, ma la loro misera esistenza non offriva nessuna attrattiva commerciale ai mercanti provenienti da altre latitudini.
E così le zone artiche rimasero isolate e inesplorate per secoli. Fino a che la presenza di un gran numero di cetacei nei mari circostanti non risvegliò le attenzioni dell’industria baleniera. Ma per quanto i cacciatori di balene si avvicinassero ai confini di quel mondo gelato alla ricerca di prede, nessuno proseguiva verso nord. Che senso aveva? Il polo era una semplice chimera geografica, un punto situato a 90° esatti di latitudine senza alcun valore reale, lontanissimo dalle necessità concrete dell’esistenza quotidiana. Alla fine del XVIII secolo questa situazione cambiò. Da un lato non erano più solo i mercanti ad avere interesse per la navigazione: anche i governi organizzavano spedizioni militari in funzione dei propri obiettivi geostrategici. Dall’altro la scienza assunse un protagonismo crescente nelle esplorazioni. Ebbe ruoli di primo piano anche l’opinione pubblica, che iniziò a dimostrare curiosità per le avventure geografiche, in particolare per quelle che si svolgevano tra i ghiacci, cioè nell’ambiente più inospitale del piante.
Fu in questo contesto che la Gran Bretagna – all’epoca potenza egemone – intraprese una serie di spedizioni polari. Molte di queste non avevano uno specifico interesse per il polo in sé. ,a miravano a raggiungere lo stretto di Bering attraverso il mar Glaciale Artico, ce secondo le credenze del tempo era un oceano aperto circondato da una cintura di ghiaccio. Gli inglesi non ottennero però i risultati sperati. La banchisa bloccava l’avanzata delle navi, e i marinai che decidevano di lasciare le imbarcazioni per proseguire in slitta scoprivano con stupore che la massa di ghiaccio su cui avanzavano faticosamente si muoveva spesso in direzione opposta alla loro. Quando si fermavano a riposare, la deriva della superficie gelata li sospingeva all’indietro, come se stessero camminando su un tapis roulant.

1852-1909: la corsa verso il Polo Nord

Il tentativo di ritrovare la spedizione di Franklin, scomparsa nel 1845 mentre cercava il mitico Passaggio a nord-ovest, alimentò l’interesse per l’esplorazione dell’Artico e la conquista del polo.

1852: il britannico Inglefield ha l’idea peregrina di raggiungere il polo risalendo il canale di Smith, tra l’isola di Ellesmere e la Groenlandia, alla ricerca di Franklin
1853-1870: Molti esploratori approfittano dei tentativi di trovare Franklin per studiare la regione. Alcuni sostengono di aver visto un mare aperto in direzione del Polo.
1871-1873: L’imprenditore di Cincinnati Charles Francis Hall arriva a 82°11’ di latitudine. Alla sua morte, la spedizione finisce nel caos e viene salvata dopo sei mesi alla deriva su un iceberg.  
1872-1874: Mentre cerca un accesso all’Artico tramite la corrente del Golfo, una spedizione austro-ungarica scopre alcune isole sconosciute: la Terra di Francesco Giuseppe.
1875-1876. Georges Nares risale il canale di Smith sulla Alert, che resta intrappolata tra i ghiacci. La spedizione prosegue in slitta raggiungendo gli 83°20’.
1879-1881: Nel tentativo di raggiungere il polo dallo stretto di Bering, George De Long naufraga a bordo della Jeannette. Venti uomini, tra cui De Long, muoiono nel delta del Lena.
1882-1884: L’ufficiale statunitense Adolfo Greely e la sua squadra scientifica arrivano fino agli 83°23’. Solo sei dei 25 membri della spedizione sopravvivono al durissimo viaggio di ritorno.
1893-1896: Fridjof Nansen tenta di raggiungere il polo sulla Fram, facendosi portare alla deriva dalla corrente artica. Quindi tenta di proseguire con le slitte e gli sci, ma si ferma a 86°33’.
1899-1900: L’italiano Umberto Cagni, a capo di una spedizione italiana in partenza dalla Terra di Francesco Giuseppe, stabilisce un nuovo record di latitudine raggiungendo gli 86°33’.
1909: Peary e (l’anno prima) Cook rivendicano di essere stati i primi a mettere piede al polo. Il merito viene riconosciuto a Peary. Entrambi i loro resoconti presentano delle lacune.

La spedizione perduta di Franklin fu un viaggio di esplorazione artica guidato dal Capitano Sir John Franklin partito dall'Inghilterra nel 1845. Franklin, ufficiale della Marina britannica ed esperto esploratore, aveva già preso parte a tre precedenti spedizioni artiche, le ultime due come comandante in capo. Con la sua quarta e ultima, che intraprese all'età di cinquantanove anni, si proponeva di attraversare l'ultimo tratto, fino ad allora mai percorso da nessuno, del passaggio a nord-ovest. Dopo alcune traversie le due imbarcazioni sotto il suo comando rimasero bloccate dai ghiacci nello stretto di Vittoria, nei pressi dell'Isola di Re William nell'artico canadese. Tutti i membri della spedizione, Franklin e 128 uomini, non furono mai più ritrovati.
Oggetti ritrovati dai soccorritori facenti parte dell'equipaggiamento della spedizione Franklin del 1845, disegno tratto dall'Illustrated London News1854.


ALLA RICERCA DI FRANKLIN. La maggior parte delle spedizioni britanniche aveva come obiettivo individuare il Passaggio a nord-ovest, ovvero la rotta che metteva in comunicazione l’Atlantico con il Pacifico. Nel 1845 una flotta composta da due navi e oltre un centinaio di uomini agli ordini di Sir John Franklin scomparve nel nulla. La tragedia creò una forte mobilitazione nella società anglosassone, e nel giro di una decina di anni più di cento imbarcazioni salparono alla ricerca dei dispersi. Alcune di queste missioni di soccorso furono organizzate dalla marina britannica, altre da facoltosi cittadini statunitensi o inglesi che armarono delle navi per esplorare il dedalo di isole e canali dell’Artico canadese nel vano sforzo di rintracciare i naufraghi.
Normalmente il comandante di un’imbarcazione deve attenersi scrupolosamente alle istruzioni ricevute, tanto nel caso di spedizioni militari quanto di viaggi commerciali. Ma se l’obiettivo della navigazione è la ricerca di superstiti, esiste un certo margine di manovra che non sarebbe consentito nelle situazioni precedenti. Fu così che nel 1852 Edward Inglefield, capitano di una delle navi coinvolte nelle operazioni di soccorso, pensò di cercare i sopravvissuti lungo il canale di Smith, tra la costa occidentale della Groenlandia e l’isola di Ellesmere. Secondo quanto dichiarò in seguito, una volta lì “ebbe l’idea peregrina di raggiungere il polo”. Ma non riuscì né a trovare le imbarcazioni disperse, né ad arrivare ai 90° di latitudine, perché il ghiaccio gli impedì di proseguire. Ma disse di aver visto un mare aprirsi davanti a sé in direzione nord.

Edward Augustus Inglefield Phoenix and Breadalbane in Melville Bay

Sempre più a nord.
A partire dal 1871 le spedizioni per la rotta americana di Hall, Nares e Greely si avvicinarono sempre di più al polo, ma fu Peary a raggiungere la meta. La Jeanette rimase intrappolata tra i ghiacci per poi affondare dopo mesi alla deriva. Quando i suoi resti furono ritrovati dall’altro lato della calotta polare, Nansen progettò una spedizione che arrivò vicinissimo al polo e fu poi superata da quella di Cagni. Il britannico Herbert fu il primo a raggiungere incontestabilmente il polo a piedi.
Una porta aperta?
Nel 1852 il piroscafo britannico Isabel, agli ordini del comandante Edward Inglefield, si addentrò nella zona del canale tra la Groenlandia e l’isola di Ellesmere (Canada), che fino ad allora si riteneva senza sbocchi. A 78° di latitudine il piroscafo fu costretto a rientrare, ma ormai aveva scoperto una rotta verso nord che successivamente sarebbe stata utilizzata da altri esploratori polari.
   
IL SOGNO DEL MAR GLACIALE ARTICO. Molti avventurieri statunitensi ritennero che attraverso quello stretto fosse possibile accedere a un mare aperto e raggiungere il Polo Nord, e trovarono alcuni facoltosi magnati disposti a finanziare le loro ambizioni di gloria. Nel ventennio successivo varie spedizioni nordamericane tentarono di avanzare lungo il canale di Smith. Nonostante le continue avversità e la strenua lotta contro il freddo, la fame e lo sfinimento, riuscirono ad avvicinarsi sempre di più all’estremo nord. Ma alla fine le navi venivano invariabilmente bloccate o affondate da quella spietata distesa di ghiaccio e gli equipaggi, scoraggiati, erano costretti a tornar indietro a bordo di fragili scialuppe o ad attendere i soccorsi su un iceberg alla deriva.
Sul fronte europeo, tra il 1869 e il 1870, una spedizione tedesca cercò senza fortuna di dimostrare la tesi di August Petermann: il celebre geografo sosteneva che la corrente del golfo del Messico  penetrava fino al centro dell’Artico, facendosi strada tra i ghiacci grazie alla temperatura delle sue acque. Nonostante il fallimento della missione, due anni più tardi una nave battente bandiera austroungarica ritentò l’impresa. All’inizio tutto sembrò andare al meglio: la corrente effettivamente esisteva. Ma ben presto i ricercatori si resero conto che non era sufficientemente calda. La spedizione durò circa 27 mesi. Fu in quell’occasione che l’equipaggio scoprì un arcipelago fino ad allora sconosciuto, che fu ribattezzato Terra di Francesco Giuseppe, in onore dell’imperatore asburgico. Purtroppo l’imbarcazione si schiantò sulle coste di un’isola, e per salvarsi i membri della spedizione dovettero caricare le scialuppe di salvataggio su slitte e trainarle in direzione sud. Fu un’operazione ardua e frustante, perché la corrente marina spingeva la massa di ghiaccio su cui procedevano in senso opposto al loro, ossia verso nord. Dopo due mesi di marcia sfiancante si erano avvicinate alle coste di neanche 28 chilometri. Fortunatamente alla fine raggiunsero il mare aperto e riuscirono ad arrivare in Russia dove furono soccorsi da un peschereccio.

Un percorso lungo e duro. Quando una nave veniva bloccata dalla banchisa (la superficie dei ghiacci marini delle zone polari), l’equipaggio trascorreva mesi in condizioni durissime, in attesa di riuscire ad allontanarsi a bordo delle scialuppe o ricevere soccorso.

Un oceano congelato. Quando l’Alert raggiunse gli 82° di latitudine, George Nares scrisse: “Non si vedeva altro che ghiaccio compatto e invalicabile (…) che neppure con molta fantasia poteva assomigliare a un mare aperto”. Dopo aver trascorso l’inverno in una baia bloccati dal gelo e tormentati dallo scorbuto, nell’estate del 1876 i membri dell’equipaggio si aprirono una breccia segando il ghiaccio che li circondava e si diressero verso sud.

 
La Alert bloccata dai ghiacci nel 1876
Tentativi falliti: L’italiano Umberto Cagni cercò di raggiungere il polo in slitta, mentre lo svedese Salomon August Andrée ci provò in mongolfiera. Fallirono entrambi, ma Cagni riuscì a sopravvivere mentre Andrée morì lungo il viaggio di ritorno. La spedizione in mongolfiera avvenne nel 1897. I corpi dei tre svedesi furono ritrovati nel 1930 accanto ad appunti e immagini che rivelarono che avevano avuto un incidente poco dopo la partenza ed erano morti cercando la via del ritorno. Invece Cagni, dopo aver battuto d 37 chilometri il record di Nansen, il 24 aprile 1900 decise di tornare indietro. “Spero che non sia così lontano il giorno in cui si svelerà il mistero delle regioni artiche”, scrisse. Quel giorno la temperatura era di -51°C.

La nave Stella Polare, 1899
Aspettando la morte. “Stiamo morendo…come uomini. ho raggiunto il mio obiettivo…Battere il record”. Furono queste le parole di un Adolphus Greely praticamente moribondo quando fu ritrovato nel 1884. 18 dei 25 membri dell’equipaggio erano deceduti, e un altro morì lungo il cammino di ritorno. Gli uomini erano sopravvissuti in una tenda nutrendosi delle carni dei compagni morti. 


Nansen: mille giorni tra i ghiacci.  Nel 1893 Fridtjof Nansen si imbarcò sulla Fram per un viaggio che secondo i suoi calcoli sarebbe durato cinque anni. Lasciò che la nave fosse imprigionata dai ghiacci nella speranza che la corrente lo trascinasse fino al polo. Dopo 18 mesi alla deriva decise di proseguire a piedi insieme a Fredrik Hjalmar Johansen. I due raggiunsero gli 86° di latitudine l’8 aprile 1895, poi tornarono indietro, prima in slitta e quindi in canoa fino alla Terra di Francesco Giuseppe. Rientrarono in Norvegia nell’agosto del 1896.
Rotta di Nansen il 1888.


Peary raggiunse il Polo Nord? Dopo varie spedizioni fallite, nel 1909 Roberto Peary effettuò il   suo ultimo tentativo di raggiungere il punto più settentrionale del globo. Percorse i mille chilometri che separano l’isola di Ellesmere dal polo in 37 giorni, e al suo ritorno ricevette gli onori che aveva ossessivamente cercato. Ma le sue misurazione imprecise e i tempi relativamente brevi in cui percorse distanze lunghissime sollevano ancora oggi dubbi sull’attendibilità del suo resoconto. La spedizione era formata da un piccolo gruppo che dipendeva dall’aiuto dei nativi. Gli eschimesi fecero strada alle slitte con i loro cani e spiegarono agli statunitensi le proprie tecniche per sopravvivere alla lunga notte polare. Peary puntò sulla rotta americana: risalì in nave il canale di Smith e il successivo canale di Nares, e quindi dal nord di Ellesmere continuò in slitta. L’inizio fu difficile, ma le condizioni meteorologiche erano favorevoli, e il ghiaccio piatto e omogeneo. Il 6 aprile 1909 Peary raggiunse il traguardo con altri cinque uomini. solo lui sapeva calcolare la latitudine e molti ricercatori dubitano delle sue misurazioni. La velocità con cui la spedizione percorse il tragitto di ritorno getta ulteriori ombre sull’impresa.
Roberto Ediwin Peary (1856-1920) era un uomo alto e corpulento, dai baffi folti, secondo la sua stessa definizione, ed era anche un nuotatore infaticabile e un cavallerizzo provetto. Di carattere ostinato, in un’occasione dichiarò: “Non voglio morire senza che il mio nome sia conosciuto al di fuori di un ristretto circolo di amici”.
Robert Edwin Peary

LA SPEDIZIONE DI NARES. In Inghilterra il fallimento della spedizione di Franklin, e soprattutto l’emergere di prove di episodi di cannibalismo tra i membri dell’equipaggio, aveva generato nella società una certa diffidenza verso le questioni polari. Se non addirittura un’aperta avversione. Tuttavia la marina britannica guardava con timore i progressi statunitensi e voleva dimostrare di essere ancora la potenza egemone nella zona artica. Nel 1875 inviò una spedizione agli ordini del capitano George Nanres, iniziata in modo particolarmente promettente. L’Alert percorse il canale di Smith, oltrepassò lo stretto che da allora porta il nome di Nares e trascorse l’inverno alla latitudine più settentrionale mai toccata da essere umano. Ma da quel momento in poi le cose cominciarono ad andare storte. Se le spedizioni statunitensi utilizzavano i cani per il traino delle slitte (come facevano gli eschimesi), i britannici decisero di ignorare le conoscenze dei nativi e di trainare le slitte loro stesi, senza l’ausilio degli animali. A complicare ulteriormente la situazione ci pensò lo scorbuto, che costrinse gli esploratori a fare marcia indietro dopo aver raggiunto tra immani sforzi gli 83°20’ (e quando mancavano ancora 700 chilometri all’obiettivo finale). Uno di loro riassunse la vicenda affermando “che il Mar Glaciale Artico aperto esisteva soltanto nella testa di alcuni geografi folli e il polo era assolutamente irraggiungibile”. Nel 1881 una spedizione scientifica statunitense condotta da Adolphus Greely non seppe resistere alla tentazione di battere il record inglese, per quanto vi riuscì di soli sette chilometri. Il prezzo pagato fu eccessivo per un risultato così modesto: solo sei dei 25 membri dell’equipaggio, tra cui lo stesso capitano, rientrarono vivi. Sempre in campo statunitense, l’editore del New York Herald decise di patrocinare una sua spedizione verso il Polo Nord, memore del successo che aveva rappresentato per il giornale l’invio di Stanley alla ricerca di Livingstone in Africa centrale. Nel 1879 la Jeanette, agli ordini di George De Long, penetrò nel Mar Glaciale Artico attraverso lo stretto di Bering, con l’intenzione di lasciarsi trasportare verso nord dalla Kuroshio, una corrente calda di origine tropicale del Pacifico.
Non servirono a molto gli avvertimenti dei balenieri della zona, che conoscevano per esperienza la scarsa forza della corrente e la pericolosità di quel mare. Dopo essersi inoltrata nelle fredde acque polari, la nave si ritrovò imprigionata tra i ghiacci e affondò nel giro di due anni. I membri della spedizione furono costretti a trascinare le scialuppe lungo la banchisa, fino a quando non trovarono condizioni favorevoli per poterle rimettere in acqua. Solo un terzo dell’equipaggio sopravvisse all’odissea e riuscì a raggiungere lo coste della Siberia nell’autunno del 1891.
Tre anni dopo il relitto della Jeanette fu inaspettatamente localizzato lungo le coste della Groenlandia. Questa scoperta spinse lo scienziato ed esploratore norvegese Fridtjof Nansen a ipotizzare l’esistenza di una corrente marina che attraversava tutto il mar Glaciale Artico. Secondo questa teoria, un’imbarcazione che fosse stata intrappolata dai ghiacci nella zona dove era affondata la nave statunitense avrebbe attraversato tutto l’Artico ala deriva passando per il Polo Nord.

L’ODISSEA DI NANSEN. Nansen decise di provare a dimostrare la sua teoria. A questo scopo progettò una nave con uno scafo in grado di sopportare l’urto dei ghiacci, che chiamò Fram (avanti). La traversata iniziò nel 1893. Inizialmente l’imbarcazione resse bene alla pressione della banchisa e fu trascinata dalla corrente marina nella direzione sperata. Ma, dopo più di un anno alla deriva, l’esploratore si rese conto che la rotta non lo stava portando verso il Polo Nord. A quel punto, come altri prima di lui, Nansen si lasciò sedurre dal canto delle sirene polari e decise di abbandonare la Fram per proseguire a piedi. Non riuscì a raggiungere il polo, anche se batté il record precedente di 300 chilometri. Il suo viaggio di ritorno, durato oltre un anno, rappresenta una delle imprese più straordinarie nella storia delle missioni poliari.
Sei anni dopo l’avventura della Fram, una spedizione italiana diretta da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, riuscì a migliorare il risultato del norvegese. Un gruppo capitanato da Umberto Cagni partì dalla terra di Francesco Giuseppe, a nord della Russia, e dopo aver superato numerose avversità si fermò a 381 chilometri dal polo. Sembrava ormai chiaro che quel mitico punto geografico non era raggiungibile dall’Europa. L’attenzione si spostò verso le coste nordoccidentali della Groenlandia, da dove passava la rotta degli esploratori statunitensi. Uno di loro, Robert Peary, tentava ormai da anni di raggiungere i leggendari 90° gradi di latitudine nord. Se risalire le coste della Groenlandia era già di per sé difficile, la parte più scoraggiante iniziava dopo, quando le spedizioni si trovavano di fronte l’oceano Polare congelato. Le correnti marine spostavano di continuo la banchisa, e pertanto era impossibile lasciare scorte di cibo o di materiali per il ritorno. Inoltre, le imbarcazioni erano costrette di continuo ad aggirare i canali che si aprivano sui banchi di ghiaccio a causa della deriva, o ad attendere che le acque tornassero a congelarsi. Con uno sforzo encomiabile l’esploratore statunitense fece sei tentativi di arrivare al polo in 18 anni. Apprese le tecniche di sopravvivenza degli eschimesi e riuscì a migliorare i suoi risultati a ogni missione. Finalmente, il 6 aprile 1909 toccò il punto più settentrionale del globo.

LA POLEMICA DEL POLO. Al ritorno, Peary scoprì che un suo compatriota, Frederick Cook, sosteneva di aver compiuto l’impresa un anno prima di lui. Inizialmente Cook fu ricevuto come un eroe, ma a poco a poco nel suo resoconto emersero incongruenze e lacune che ne misero in dubbio l’attendibilità. Il rapporto di Peary era più credibile, ma comunque non esente da zone d’ombra: l’assenza di misurazioni precise e un’eccessiva rapidità di spostamento sul ghiaccio (circa il quadruplo di quella abituale) insospettirono molti specialisti. Oggi la maggioranza degli esperti ritiene che né Cook né Peary abbiano toccato il Polo, anche se entrambi hanno folte schiere di sostenitori pronti a difendere con passione le rispettive versioni. In ogni caso, per anni nessuno tentò di ripetere l’impresa. Nel 1926 Umberto Nobile (vedi articolo sotto) fece una spedizione con il dirigibile Norge, cui seguì un’altra, due anni dopo, con l’Italia, che si schiantò sui ghiacci. In quest’occasione fu organizzata una tra le prime spedizioni di soccorso polare per cercare i superstiti che, nel frattempo, avevano trovato riparo nella cosiddetta “tenda rossa”. Roald Amundesn, invece, morì nel tentativo di salvataggio.
Nel 1948, in piena guerra fredda, Stalin decise di giocare d’anticipo sul sottomarino statunitense Nautilus, che doveva arrivare ai 90° di latitudine nord navigando al di sotto della banchisa. La squadra agli ordini del colonnello Aleksandr Kuzbecov si fece lasciare da un aereo nelle vicinanze del Polo e fu la prima a raggiungerlo in maniera incontestabile.  In seguito le spedizioni polari passarono di moda, fino a quando, il 6 aprile 1969 l’esploratore britannico Wally Herbert attraversò in solitaria tutto l’Artico diventando la prima persona a poter documentare in modo certo di essere arrivato al Polo Nord a piedi. Il sogno di decine di spedizioni si era finalmente realizzato, dopo quasi due secoli di vicissitudini.
Al giorno d’oggi le cose sono molto più facili: ormai da anni i turisti attraversano l’Artico su aerei e navi rompighiaccio, per poter documentare di aver raggiunto il punto più settentrionale della terra.

Articolo in gran parte di Javier Cacho Scienziato scritto pubblicato da STORICA NATIONAL GEOGRAPICH del mese di agosto 2018 – altri testi e immagini da Wikipedia.

Il Polo della discordia – La spedizione di Nobile.

Roald Amundsen 
Il cipiglio dell’esploratore norvegese Roald Amundsen, nel busto che troneggia al centro di Ny-Alesund (un insediamento artico nell’isolo di Spitsbergen, Svalbard) è cupo. Ha tutte le ragioni per essere contrariato: è la vittima più illustre della sventurata missione di Umberto Nobile, che 90 anni fa precipitò al Polo con il suo dirigibile Italia. Morirono in 17: 8 membri dell’equipaggio e 9 soccorritori, tra i quali Amundsen, che era corso alla ricerca dei superstiti sebbene intrattenesse con il comandante Nobile rapporti di reciproca ostilità. Tanto il norvegese che l’italiano sono stati due personaggi mitici nella storia dell’esplorazione polare e dell’aeronautica. Insieme realizzarono l’impossibile per l’epoca: sorvolare il Polo. I loro destini si sono incrociati negli anni Venti del secolo scorso due volte.
Bundesarchiv Bild 102-05736, Stolp, Landung des Nordpol-Luftschiffes "Italia".jpg
 dirigibile Italia durante l'attracco a Stolp, inPomerania, una delle tappe intermedie nel viaggio verso il Polo Nord.


LA RIVALITA’. Roald Amundsen (1872-1928) è stato il primo uomo a raggiungere il Polo Sud nel 1911. e pochi anni prima, nel 1906, tenne il mondo col fiato sospeso mentre superava il famoso Passaggio a Nord-Ovest . poi, nel 1926 scrisse di nuovo la storia delle esplorazioni con un secondo record:fu il primo a sorvolare il Polo Nord. Merito di un dirigibile dal nome norvegese, Norge, ma finanziato dallo statunitense Lincoln Ellsworth e soprattutto ideato, costruito e comandato dall’ingegnere italiano Umberto Nobile (1885-1978). Nobile era un notissimo progettista, e Amundsen lo contattò dopo alcuni falliti tentativi di raggiungere il Polo Nord con l’idrovolante. Così, il 10 aprile 1926 la missione Amundsen-Ellsworth-Nobile Transpolar Flight decollò da Ciampino; il 7 maggio arrivò a Ny-Alesund, nella Baia del Re; il 12 maggio alle 1,30 raggiunse il Polo: uno sguardo alla distesa di ghiaccio dall’alto e via, fino all’Alaska. L’impresa fu un successo ma i rapporti fra i due furono un disastro.
Per farsi un’idea di come doveva essere il clima a bordo, basti dire che durante il lancio sul Polo delle bandiere italiana, norvegese e statunitense, si scoprì che il tricolore era molto più grande di quanto concordato. Amundsen diffidava di Nobile, anche perché si ritrovò relegato nel ruolo di passeggero, con il solo compito di guardare dal finestrino. Inoltre l’italiano gli impose parte dell’equipaggio e… la cagnetta Titina. Nobile, uomo da cerimonie e caffè e vestito in alta uniforme, ricambiava l’antipatia per quel nordico che girava in pelliccia, calzari foderati d’erba e pipa.
Nobile e la cagnetta Titina

La ricerca continua.
La vera continuità tra le avventure di ieri e di oggi si svolge a Ny-Alesund in un pugno di case, strade e lavoratori piantati in pieno Circolo Polare Artico: siamo nel più settentrionale insediamento umano permanente, 79° N di latitudine, un migliaio di km a sud del Polo e 1500 più in su della Norvegia. Se un secolo fa gli esploratori volevano capire cosa ci fosse nelle latitudini più remote della Terra, oggi gli scienziati lavorano per migliorare quelle conoscenze.
BASE ITALIANA. L’Italia è stabilmente presente in Artico dalla metà degli Anni ’90, quando   il Consiglio nazionale delle ricerche, aprì una stazione dedicata al dirigibile Italia, a poche centinaia di metri dal pilone di attracco delle vecchie avventure polari. “La nostra ricerca contribuisce ad aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici nella regione, anche al fine di mitigarne gli impatti a livello mondiale”, spiega il presidente del Cnr Massimo Inguscio. Soltanto nel 2018 la stazione artica sta portando avanti una ventina di progetti di ricerca in fisica dell’atmosfera, oceanografia e biologia marina, geologia e climatologia. Sempre quest’anno è stato istituito un Comitato scientifico artico presieduto dal rappresentante italiano nel Consiglio artico, Carmine Robustelli. I ricercatori lavorano per comprendere e contrastare i cambiamenti ambientali e climatici studiando il cosiddetto “amplificatore artico”: fenomeni quali la riduzione dei ghiacci, drammatica in termini di estensione, durata e spessore, e lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno ghiacciato che potrebbe liberare in atmosfera enormi quantità di metano, un gas serra ben più potente dell’anidride carbonica.  

TANTI NEMICI. Dopo la missione, per Amundsen cominciò un periodo di depressione, mentre Nobile venne accolto come un eroe da Mussolini, che gli appuntò una medaglia, lo abbracciò e lo promosse generale a soli 41 anni. Ma Nobile aveva anche parecchi nemici, come fu chiaro poco dopo quando il generale iniziò a progettare una nuova missione polare.
Il più ostile di tutti era il comandante dell’aviazione Italo Balbo, che a Cesco Tommaselli, l’inviato del Corriere della Sera che seguì la spedizione confidò: “Sono una persona coraggiosa, ma su un dirigile non metterei mai piede”. Per il gerarca il futuro dell’aereonautica italiana erano gli aerei, come chiarì con la trasvolata atlantica del 1933. Nobile era invece convinto che i dirigibili fossero perfetti soprattutto per le spedizioni scientifiche: permettevano di fare lunghe traversate senza soste per i rifornimenti e consentivano di stazionare su un’area da studiare.

Nobile e la tenda rossa


Un gruppo di uomini dispersi tra i ghiacci per quarantotto giorni, un contorno di polemiche, tradimenti e riabilitazioni, e un protagonista che a distanza di un secolo è ancora discusso: Umberto Nobile.
Svelare il mistero della 'Sfinge polare', era una delle immagini poetiche che i grandi esploratori usavano per descrivere la loro missione. In tanti hanno provato ad avvicinarsi al Polo Nord via mare, ma solo con l'arrivo dei dirigibili, l'impresa è stata possibile. I voli delle aeronavi ‘Norge’ del 1926  e ‘Italia’ del 1928 sono stati frutto di una preparazione tecnica  e scientifica di avanguardia per quei tempi, ma - date le difficoltà - gli incidenti di percorso erano numerosi. E la tragedia del Dirigibile Italia e della tenda rossa riempirono le cronache dei tempi.
Nobile e la tenda rossa
con Francesco Perfetti
di Chiara Chianese


SULL’ITALIA. Sul nuovo aerostato, che stavolta si chiamava Italia, assieme ad altri 12 uomini e a Titina, salirono il fisico italiano Aldo Pontremoli, fondatore dell’istituto del radio di Praga, il geofisico e meteorologo svedese Finn Malmgren e una strumentazione all’avanguardia (anche se sulle scelte tecnologiche e di comunicazione le polemiche infurieranno). La missione ottenne il patrocinio della Reale Società Geografica Italiana, mentre i finanziamenti arrivarono dal Comune di Milano e da un consorzio di imprenditori. Il dirigibile partì da Milano il 15 aprile 1928, raggiunse la Baia del Re il 6 maggio e compì due voli di studio, accertando alcuni aspetti fisici della regione artica quali l’assenza di terre emerse, la sterilità e la bassa ionizzazione dell’aria, le profondità marine e le derive dei ghiacci. Il Polo venne raggiunto la mezzanotte del 24 maggio 1928 ma, proprio come due anni prima, no fu possibile atterrare, a causa del vento fortissimo. E il mattino dopo,alle 10,30 una perturbazione travolse l’aeronave. L’Italia precipitò sul pack: dieci uomini, tra i quali il comandante, ferito, furono scaraventati sul ghiaccio, altri sei vennero portati via dalla tempesta e dispersi per sempre. “Tutto si era svolto in due o al massimo in tre minuti”, raccontò in seguito Nobile. I titoli del Corriere della Sera viravano dal trionfale: il tricolore e la croce sul polo (papa Pio XI aveva consegnato un crocifisso all’equipaggio) al cauto: Il ritorno di Nobile rallentato da forti venti contrari.

LA DISGRAZIA. I superstiti affrontarono le terribili condizioni climatiche in un accampamento di fortuna, al riparo di una tenda, la famosa Tenda Rossa, che precipitò dalla navicella insieme a un po’ di viveri e di altri materiali. L’odissea era solo agli inizi: le operazioni di soccorso furono lunghe ed estenuanti, complice anche il fatto che individuare il luogo dell’incidente era molto complicato. Il pack su cui si trovavano i superstiti, infatti, si spostava continuamente. Inoltre i primi Sos lanciati dal radiotelegrafista Giuseppe Biagi con la trasmittente Ondina 33.non vennero recepiti dalla nave appoggio Città di Milano (che tra l’altro non sarebbe potuta intervenire direttamente, perché non era un rompighiaccio). Fu un radioamatore russo a ricevere finalmente l’Sos dando via alle spedizioni di soccorso che coinvolsero tremila uomini con imbarcazioni e velivoli. Tra questi, l’idrovolante francese Latham 47 sul quale il 18 giugno Amundsen scomparve tra i ghiacci nel tentativo di salvare, o probabilmente umiliare il generale italiano: era forse questa la vera ragione che spinse il norvegese a mettere a repentaglio la propria vita. E lo fece di sua iniziativa, ricorrendo a contributi privati.

IN SALVO. Il 19 giugno l’idrovolante del maggiore Umberto Maddalena localizzò finalmente la Tenda Rossa e lanciò cibo, coperte e abbigliamento. E quattro giorni dopo, il 23 giugno, il Fokker 31 dello svedese Einar Lundborg (1896-1931) riuscì a portare a borda e a trasportare sulla nave Città di Milano Umberto Nobile. Il generale protestò, voleva che la priorità fosse data al capo tecnico Natale Cecioni, gravemente ferito a una gamba, ma i soccorritori gli imposero di trarsi in salvo per coordinare le ricerca dei compagni. Una decisione subita, che come vedremo, gli costò cara. Dopo altri 48 giorni anche gli altri superstiti vennero recuperati. Ci riuscì, in un complicato avvicinamento, il rompighiaccio sovietico Krassin. In totale le operazioni di recupero costarono la vita a 9 soccorritori.

UN BRUTTO RITORNO. Il ‘generale dei ghiacci’ in Italia, in un primo momento, venne accolto con affetto. Ma poi la distruzione del dirigibile e la disponibilità a mettersi in salvo per primo portarono la Commissione d’inchiesta ad addebitargli colpe infamanti: errata manovra, limitate qualità tecniche di pilota, negative capacità di comando. I suoi avversari, Italo Balbo in prima linea, non avevano che da essere contenti: la carriera di Nobile era stroncata. L’orgoglioso generale ci mise poi anche del suo: armato di un pessimo carattere e pessimo tempismo alzò la voce persino con Mussolini, quando questi finalmente accettò di riceverlo per ascoltarne le ragioni. Venne accompagnato alla porta. Umiliato e amareggiato, Nobile si dimise dall’Aereonautica e si trasferì prima in Urss e poi negli Stati Uniti. Rientrò in Italia nel 1942 e, dopo un’esperienza all’Assemblea costituente tra gli indipendenti del PCI, una nuova commissione lo riabilitò, senza però sopire del tutto le polemiche. Morirà a Roma nel 1978, a 93 anni.



Articolo in gran parte di Marco Ferrazzoli, pubblicato su Focus Storia n. 143. altri testi e foto da Wikipedia.        

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